Scuolissima.com - Logo

L'impietrito e il velluto - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento


La poesia "L'impietrito e il velluto" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti, è datata Roma, notte del 31 dicembre 1969 - mattina del 1° gennaio 1970 e fa parte della raccolta Nuove, nella sezione Croazia segreta. Verrà pubblicata il 10 febbraio 1970, giorno in cui il poeta compie ottantadue anni. Ha acquisito popolarità per il semplice motivo che è stata l'ultima poesia scritta dal poeta, ciò non toglie il fatto che sia una poesia stupenda e ricca di significato.



Indice




Testo

Ho scoperto le barche che molleggiano
Sole, e le osservo non so dove, solo.

Non accadrà le accosti anima viva.

Impalpabile dito di macigno
Ne mostra di nascosto al sorteggiato
Gli scabri messi emersi dall'abisso
Che recano, dondolo nel vuoto,

Verso l'alambiccare
Del vecchissimo ossesso
La eco di strazio dello spento flutto
Durato appena un attimo
Sparito con le sue sinistre barche.

Mentre si avvicendavano
L'uno sull'altro addosso
I branchi annichiliti
Dei cavalloni del nitrire ignari,

Il velluto croato
Dello sguardo di Dunja,
Che sa come arretrarla di millenni,
Come assentarla, pietra
Dopo l'aggirarsi solito
Da uno smarrirsi all'altro,
Zingara in tenda di Asie,

Il velluto dello sguardo di Dunja
Fulmineo torna presente pietà.



Analisi del testo

Per un analisi dettagliata vi proponiamo la spiegazione verso per verso:


Il titolo = l'aggettivo "impietrito" viene usato come sostantivo in quanto si riferisce al poeta che è fermo, immobile, come una statua, perché è a un passo dalla morte. Alla durezza della pietra da da contrasto la morbidezza del velluto che fa riferimento alla figura femminile, quella di Dunja.

Ho scoperto le barche che molleggiano / Sole, e le osservo non so dove, solo = qui Ungaretti parla in prima persona e dice di aver scoperto delle barche che dondolano sull'acqua da sole e le osserva. Specifica che è da solo e non sa nemmeno dove si trova. Da qui si può intuire che soffre di solitudine e amnesia.

Non accadrà le accosti anima viva = queste barche potrebbero essere il mezzo per trasportare le anime appena giunte nell'aldilà, come era solito fare Caronte. Il poeta specifica che a queste barche non si avvicinerà nessun essere vivente: saranno usate dalle anime defunte.

Impalpabile dito di macigno = è un dito pesante e allo stesso tempo appena avvertibile al tatto.

Ne mostra di nascosto al sorteggiato = il sorteggiato è colui che è stato scelto dalla morte per morire e con il dito gli vengono mostrati cose che indicano la morte.

Gli scabri messi emersi dall'abisso = questo dito mostra i messaggeri che vengono fuori dall'abisso. Essi sono scabri (ruvidi) perché portano il messaggio della morte. È l'opposto della poesia Commiato, dove dall'abisso emergeva la parola, la poesia.

Che recano, dondolo nel vuoto = questi messaggeri di morti che emergono dall'abisso sono come un'eco di strazio che dondolano nel nulla.

Verso l'alambiccare Del vecchissimo ossesso = gli echi di strazio sono condotti verso il vecchissimo uomo che sta lì a pensare cosa sia quel luogo e cosa ci faccia lì.

La eco di strazio dello spento flutto = l'acqua dove dondolano le barche è uno spento flutto in quanto si tratta dell'acqua dell'oltretomba.

Durato appena un attimo Sparito con le sue sinistre barche = l'eco di strazio è stato di breve durata e insieme a lui sono scomparse pure le barche che ondeggiavano sull'acqua.

Mentre si avvicendavano L'uno sull'altro addosso = Mentre si avvicendavano, si davano il cambio e si inseguivano i branchi delle onde del mare.

I branchi annichiliti Dei cavalloni del nitrire ignari = le onde sono annichilite perché portano il nulla della morte.

Il velluto croato = riferimento alla vecchia di nazionalità croata che la madre di Ungaretti accolse nella casa ad Alessandria dopo la morte del marito).

Dello sguardo di Dunja = gli occhi dell'anziana donna, fanno ritornare in mente al poeta gli occhi di Dunja, una giovane del suo passato.

Che sa come arretrarla di millenni = dice che lo sguardo della donna e lei stessa sembrano provenire da epoche storiche lontanissime.

Come assentarla, pietra = il velluto dà morbidezza alla donna e allo stesso tempo la rende assente (è un Petrarchismo, infatti in Petrarca Laura non è nominata, è presente e allo stesso tempo assente). La donna è assente e così lontana al punto da sembrare pietrificata anche lei.

Dopo l'aggirarsi solito Da uno smarrirsi all'altro, Zingara in tenda di Asie = qui abbiamo la sensazione del poeta di perdersi nel deserto, le tende di Asie rimandano a smarrimenti, non ci sono mete nel deserto, non si possono conquistare approdi, ci si smarrisce.

Il velluto dello sguardo di Dunja Fulmineo torna presente pietà = se prima lo sguardo di Dunja pareva lontano millenni, d'un tratto ora è ritornato presente con la sua pietà.



Figure retoriche

Antitesi = "pietra" (v. 20) e "velluto" (v. 17).

Annominazione = "sole...solo" (v. 2).

Ossimoro = "impalpabile" "macigno" (v. 4).

Metafora = "dondolo nel vuoto" (v. 7).

Metafora = "eco di strazio" (v. 10).

Metafora = velluto dello sguardo (v. 24).

Antitesi = "arretrarla" (v. 19) e "torna" (v. 25).



Commento

È un componimento che Ungaretti scrive pensando alla sua tata, Dunjia, una vecchia donna croata, di bella presenza e dolce, che appare per la prima volta nella raccolta Croazia. La figura di Dunjia è l'ultima immagine vitale del poeta. Una nuova speranza nella vita che è cambiata ma che è ancora in grado di provare delle forti emozioni. Ella gli insegnò la potenza del sogno e torna qui, nell'ultimo testo, come l'elemento salvifico, che giustifica tutta una vita. Vita di un uomo è il titolo complessivo di tutte le sue opere. E Dunja appare come l'infanzia (riferimento ai tempi migliori) perduta e ritrovata, come il passato che torna nel presente e il presente che si confonde con il passato. Dunja è il promemoria di una vita vissuta e di altri sprazzi di vita da vivere, come se sia un'occasione verso un altro possibile "porto sepolto". Insomma, Dunja è la vita, "vita di un uomo", appunto.
Continua a leggere »

Sera - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "Sera" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1929 e fa parte della raccolta Sentimento del tempo, nella sezione Sogni e accordi.



Indice




Testo

Appiè dei passi della sera
Va un'acqua chiara
Colore dell'uliva,

E giunge al breve fuoco smemorato.

Nel fumo ora odo grilli e rane,

Dove tenere tremano erbe.



Parafrasi

Al calar della sera
l'acqua scorre limpida
di un colore verde oliva

E arriva sino ai vecchi ricordi.

Ora ricordo il verso dei grilli e delle rane,

e l'erba smossa dal vento



Analisi del testo e commento

Metrica: versi liberi.

Di questa poesia si possono ottenere diverse interpretazioni ed è questo il risultato che Ungaretti avrebbe voluto: lasciare che sia la sensibilità del lettore e non un processo logico (mediante un ragionamento) a trarne le conclusioni. Per capirla bisognerebbe lasciarsi abbandonare al fluire delle sensazioni e delle immagini presenti nel testo.

Proviamo a dare una nostra spiegazione analizzando verso per verso.

Appiè dei passi della sera = potrebbe fare riferimento all'imbrunire, quando il cielo diventa scuro dopo il tramonto oppure ai passi della sera personificata come una donna dalle sembianze divine che avanza passo dopo passo.

Va un'acqua chiara = "acqua chiara" è un binomio ripreso da "Chiare, fresche et dolci acque" di Francesco Petrarca.

Colore dell'uliva = è una tonalità di verde (olivastro) che può essere interpretato come il cielo limpido che tende a scurirsi e si riflette sulla corrente d'acqua oppure a una figura femminile in abito da sera appunto di questo colore.

E giunge al breve fuoco smemorato = significa che la luce dell'acqua si va mescolandosi con quella del tramonto; il fuoco smemorato è da intendere come un ricordo che si acceso.

Nel fumo ora odo grilli e rane = potrebbe essere la nebbia che sale verso sera sui corsi d'acqua, ma probabilmente si tratta del fatto che la memoria di Ungaretti è ancora appannata e, quindi, coperta dal fumo. Seppure esso non gli permette di vedere bene, attraverso l'udito riesce a sentire (o meglio ricordare) i suoni della natura, in questo caso i versi dei grilli e delle rane.

Dove tenere tremano erbe = questa è un altra cosa che Ungaretti riesce a ricordare. Il poeta non vede nemmeno l'erba che trema, cioè smossa dal vento, egli si accorge di questa presenza sentendo l'impercettibile vibrazione dei fili di erba.



Figure retoriche

Allitterazione della p = "appiè, passi" (v. 1).

Allitterazione della c = "acqua, chiara, colore" (vv. 2-3).

Allitterazione della r = "ora, grilli, rane" (v. 5).

Allitterazione della t e della r = "tenere, tremano, erbe" (v. 6).

Personificazione = "passi della sera" (v. 1).

Personificazione = "fuoco smemorato" (v. 4).

Anastrofe = "tenere tremano erbe" (v. 6).
Continua a leggere »

Ultimo quarto - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento


La poesia "Ultimo quarto" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1927 e fa parte della raccolta Sentimento del tempo.



Indice




Testo

Luna,
Piuma di cielo,
Cosi velina,
Arida,
Trasporti il murmure d'anime spoglie?
E alla pallida che diranno mai
Pipistrelli dai ruderi del teatro,
In sogno quelle capre,
E fra arse foglie come in fermo fumo
Con tutto il suo sgolarsi di cristallo
Un usignuolo?



Analisi del testo e commento

Metrica: i versi sono di lunghezza diversa, alcuni di una sola parola.

Questa poesia va vista come una serie di annotazioni in cui il poeta riflette in tarda serata o addirittura nel pieno della notte (per la presenza della luna) la sua capacità di sintetizzare adottando parole incisive e risonanti che siano in grado di creare immagini e sensazioni al lettore.

Da notare che in alcuni versi vi è un punto di domanda, anche nell'ultimo verso, e che le domande poste dal poeta sembrano estratte da cose e situazioni in diversi momenti della giornata.
Tuttavia sembra che la domanda chiave sia "che diranno mai" come se gli risultasse difficile trovare una risposta.

Da un punto di vista astronomico, il termine "ultimo quarto" si riferisce alla posizione della Luna nell'orbita attorno alla Terra, da queste due posizioni dalla Terra è visibile mezzo emisfero (cioè è visibile solo metà faccia della Luna). Tenderà a calare fino ad ottenere una nuova fase di Luna nuova, cioè quando la Luna non risulta visibile.
Da un punto di vista poetico, le risposte che Ungaretti cerca si trovano nel lato "nascosto" (oscurato) della Luna e, man mano che passa il tempo, diventa sempre più ampio: le risposte non arrivano e le domande si moltiplicano.



Figure retoriche

Metafora = "piuma di cielo" (v. 2); "velina" (v. 3); arida (v. 4).

Metafora = "trasporti il murmure" (v. 5).

Antonomasia = "alla pallida" (v. 6). Per riferirsi alla Luna usando un altro termine.

Anafora = "E...E" (v. 6 e v. 9).

Anastrofe = "In sogno quelle capre" (v. 8).

Similitudine = "fra arse foglie come in fermo fumo" (v. 9).

Sinestesia = "sgolarsi di cristallo" (v. 10).
Continua a leggere »

Solitudine - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "Solitudine" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti, porta l'indicazione "Santa Maria La Longa, 26 gennaio 1917" e fa parte della raccolta L'allegria, nella sezione Naufragi.



Indice




Testo

Ma le mie urla
feriscono
come fulmini
la campana fioca
del cielo

Sprofondano
Impaurite



Parafrasi

Le mie urla
scagliate
come fulmini
in direzione del cielo
ovattato

Si disperdono
nel silenzio



Analisi del testo

Metrica: versi sciolti, senza schema metrico.

Questa lirica (come buona parte della poesia ungarettiana) è priva di punteggiatura, e ciò rende ancora più difficile l'analisi e la comprensione del testo al lettore, che può interpretarla in molteplici modi diversi: solo il titolo aiuta il lettore a comprenderne il senso, che però è estremamente soggettivo.
Con questa scelta (non usare la punteggiatura), sembra che il poeta consideri i vari momenti della sua esistenza come un tutt'uno, indistinto e inarrestabile (assenza del punto fermo finale), che si prolunga e si perde nel tempo, tanto che le sue urla si espandono e si propagano all'infinito.

Attraverso una minuziosa scelta delle parole Ungaretti, sotto metafora, parla ancora della tragedia bellica.

Colpisce l'inizio della poesia con "Ma", che presuppone un antefatto, un ragionamento precedente, su cui potremmo pronunciarci, ponendoci la domanda: A cosa rimanda il poeta? Da che cosa il poeta è afflitto?

Da notare anche stravolgimento iconografico che si realizza nella scena dei fulmini scagliati dal basso verso l’alto, dalla terra verso il cielo, anziché viceversa.

Fu rimaneggiata per tre volte, fino alla stesura definitiva. Tuttavia sono poche le differenze tra le tre redazioni: forse la principale è la pausa che separa le due strofe e l'accompagnamento dell’aggettivo impaurite al verbo sprofondano; inoltre la parola fulmini presenta l'articolo determinativo, mentre fioca precede il sostantivo a cui si riferisce, ed è distaccato da esso.
Quella presente in questa pagina è la versione definitiva della lirica.

Anche questa poesia, come altre tratte dalla raccolta L'allegria, ha una struttura diaristica, infatti sotto la poesia è riportata la data e il luogo della sua creazione: Santa Maria la Longa, 26 febbraio 1917. La stessa dicitura è presente anche nelle poesie come Mattina e Dormire, il che significa che sono state tutte scritte nello stesso giorno.



Figure retoriche

Sinestesia = "urla feriscono" (vv. 1-2)

Similitudine = "come fulmini" (v. 3).

Metafora= "la campana...del cielo" (vv. 4-5)

Personificazione = "le mie urla...sprofondano impaurite" (v. 1 e vv. 6-7).

Metafora = "sprofondano impaurite" (vv. 6-7).

Allitterazione della m = "ma, mie" (v. 1).

Allitterazione della f = "feriscono, fulmini, fioca" (v. 2-3-4).

Allitterazione della c = "campana, fioca, cielo" (v. 4-5).



Commento

Nella poesia si evince un senso di paura e di desolazione. Le urla del poeta, che vorrebbero arrivare ad un cielo così poco percettibile, rappresentano una forte ribellione nei confronti del dolore causato dalla guerra e dalle sue devastazioni, ma accade che Ungaretti non riceve alcuna risposta come se non fosse stato sentito e che avesse gridato per nulla (le sue urla arrivano alla campana dai rintocchi soffocati e, quindi, tutto quello che ha detto attraverso la poesia viene ignorato). Il poeta accusa il colpo e prova un vuoto interiore per aver provato ad alzare la voce: si sente a disagio con il mondo e con se stesso. E così le urla vanno disperdendosi nel cielo, sprofondando impaurite nel silenzio. E l'uomo dopo questa vicenda si abbandona in uno stato di solitudine.
Continua a leggere »

Dormire - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "Dormire" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti, porta l'indicazione "Santa Maria La Longa, 26 gennaio 1917" e fa parte della raccolta L'allegria, nella sezione Naufragi.



Indice




Testo

Vorrei imitare
questo paese
adagiato
nel suo camice
di neve



Parafrasi

Mi piacerebbe essere
come questo paese
avvolto
nel suo manto
di neve



Analisi del testo e commento

Metrica: La poesia si compone di cinque versi sciolti.

Ungaretti parla di sé e degli altri uomini che si trovano nella sua stessa situazione nel freddo e nudo paesaggio del Carso a combattere la 1° guerra mondiale. Per l'esattezza si trovano a Santa Maria La Longa: località di riposo per i combattenti nelle retrovie del fronte. Nel testo si assiste a una vera e propria "personificazione" del paese stesso, che si riflette in lui (e Ungaretti si riflette in quel paese). Appesantito per la stanchezza e la malinconia, vorrebbe quasi "adagiarsi" come a "imitare" il paese steso sulla neve: l'obiettivo è quello di dormire, cioè di dimenticare - anche solo per poche ore - la sofferenza, la brutalità e l'insensatezza della guerra. Quello che cerca davvero il poeta è la tranquillità, la serenità e la pace.
Ed essendo questo un desiderio irrealizzabile (perché la guerra non cesserà mai di esistere) gli viene in soccorso la sua immaginazione: essa si comporta come una difesa andandogli a creare un mondo tutto suo (puro) dove potersi nascondere, riposare in silenzio (la neve attutisce i rumori), trovare sollievo e, soprattutto, ritrovare la speranza, perché nonostante tutto (la paura della morte) sono ancora vivi.

Ecco spiegato, perché, nelle prime due stesure il poeta preferisce il verbo "somigliare" (sostituito con "imitare"), associando l'aggettivo "steso" (sostituito da "adagiato").

La poesia è stata scritta da Ungaretti il 26/01/1917 a Santa Maria la Longa, come Mattina e Solitudine.



Figure retoriche

Enjabement = vv. 1-2, vv. 2-3, vv. 3-4, vv. 4-5.

Adynaton = "Vorrei imitare questo paese" (vv. 1-2).

Metafora = "adagiato nel suo camice di neve" (vv. 3-5).

Personificazione = "paese adagiato" (vv. 2-3).
Continua a leggere »

Il dolore - Ungaretti: riassunto


Composto da liriche già apparse su riviste letterarie dell’epoca, Il dolore ebbe una stesura unitaria e definitiva nel 1947. L’autore ci informa che il periodo di composizione delle singole poesie è individuabile negli anni compresi tra il 1937 ed il 1946, epoca in cui egli compose altri capolavori (La Terra Promessa, Un Grido e paesaggi ) del tutto simili, per tematiche e modalità di composizione, all'opera in esame.
Questa raccolta scritta nel periodo della seconda guerra mondiale, porta con sé, inevitabilmente, una serie di fatti sconvolgenti per il poeta. Il dolore del poeta è causato soprattutto dalle disgrazie familiari che hanno colto impreparata l’intera famiglia Ungaretti; a tale condizione si aggiunge la lacerante esperienza dalla visione di Roma occupata dell'Italia straziata dalla guerra. Ma il quotidiano prevale sugli eventi storici: la morte del figlio è un evento sconvolgente, e le altre perdite parvero voler fare da corollario ad una lenta, inesorabile cancellazione di quella sorta di residuo edenico che è l'età infantile. Col fratello muore infatti l'ultimo testimone dell'infanzia del poeta, e col figlio la speranza di rivivere di riflesso quest'esperienza. Insieme l'anomalia della morte di un bimbo di nove anni lo porta a considerare la natura sotto un aspetto nuovo. Gli si configura così in modo preciso la violenza che la vita stessa comporta e l'inevitabilità di essa. Per esprimere l'angoscia di tale scoperta e la sofferenza nella sopportazione della vita, Ungaretti modula il suo canto su un tono nuovo utilizzando la parola gridata o l'affanno reso con dei puntini di sospensione. Non si può tuttavia parlare di autocommiserazione, in quanto il suo non è atteggiamento passivo, ma espressione di forza; anche nel dolore personale Ungaretti non si isola, ma s'immedesima nel ruolo di cantore dell'umano dolore, non solo del proprio. E in tal senso, anche nelle composizioni con un tema più intimo e personale, si avverte il senso di solidarietà che unisce i sofferenti singoli.

Il Dolore fu scritto piangendo.
«Il dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi»



Poesie

Tra le poesie presenti in questa raccolta vi sono:
Continua a leggere »

Sentimento del tempo - Ungaretti: riassunto


Il secondo grande libro poetico di Ungaretti, dopo L'allegria, fu Sentimento del tempo, pubblicato nel 1933 contemporaneamente a Firenze, da Vallecchi, e a Roma, in un'edizione di lusso stampata presso Novissima.

Siamo nel dopoguerra (metà anni 20-30) in pieno fascismo, c'è un regime dittatoriale ed anche la poesia si adegua a questo rigido clima, infatti, torna alla tradizione letteraria classica con l’uso della metrica.

Abbandonato il desolato scenario bellico del Carso, le poesie di Sentimento del tempo si ambientano a Roma o nella campagna romana; lasciati i sentimenti immediati dell'angoscia per la guerra e della finitezza dell'uomo, prevalgono i temi, più meditativi, del sentimento del tempo, cioè del passare delle stagioni e del cammino della storia, oltre alla riflessione sulla morte. Infatti, in questa raccolta di liriche non ci sono più frammenti di vita vissuta in trincea e rottura metrica e sintattica, ma ricupero del lessico letterario e dei metri tradizionali di Dante, Petrarca, Leopardi (endecasillabi, novenari, ottonari, settenari...). Domina qui l'uomo di pena che si sente sperduto di fronte al mistero dell'esistenza. Le poesie si caricano anche di messaggi in positivo, che il poeta attinge dalla fede religiosa, a cui si riavvicinò nel 1928.

Il poeta così annunciò la raccolta all'amico e critico Giuseppe De Robertis: "La metterai accanto all'Allegria, e vedrai chiaramente ciò che in diciannove anni ho fatto per la nuova poesia italiana: tutto: sentimento, tono, ritmo, immagini, sintassi musicale del verso, tutto è uscito dal mio sforzo ostinato e disperato". Per l'autore , dunque, L'allegria e Sentimento del tempo erano due opere diverse e a loro modo complementari, tappe successive di un'unica impresa lirica, tesa a rinnovare temi e forme della poesia italiana contemporanea.

Come L'allegria, anche Sentimento del tempo è diviso in capitoli:
  • Prime
  • Fine di Crono
  • Sogni e Accordi
  • Leggende
  • Inni
  • La morte meditata
  • L'Amore
  • O Notte



Le varie fasi della raccolta:

La lunga gestazione dell’opera (1919-1935) coincide con la correzione ed ampliamento di Allegria e svolge temi simili. Il poeta stesso divide il Sentimento del tempo in tre fasi successive.

Prima fase: (1919-1927) Nel primo momento mi provavo a sentire il tempo nel paesaggio come profondità storica. L’attenzione del poeta è rivolta alla Roma delle rovine antiche, alle rievocazioni mitiche.

Seconda fase: (1927-1935) La mia poesia stava per non accorgersi più di paesaggi, e per accorgersi invece […] della sorte dell’uomo.
L’osservazione si sposta alla Roma barocca e il poeta riflette sull'attualità delle sensazioni che pervasero il ‘600: il tempo inteso come conto alla rovescia verso la morte e come inevitabile disgregazione della carne, il sentimento della catastrofe e l’horror vacui. La ricerca dell’eterno per scampare alla caducità della vita porta alla fede.

Terza fase: (1932-1935) Mi vado accorgendo dell’invecchiamento e del morire della mia carne stessa.



Stile

I principali cambiamenti:
  1. versi tradizionali (endecasillabi, novenari), 
  2. sintassi complessa con molte subordinate, 
  3. ritorno alla punteggiatura,
  4. linguaggio difficile e dal significato un po' nascosto. Soprattutto a questo Ungaretti guarderanno, come a un precursore, i lirici del nascente Ermetismo,
  5. raramente si usa la prima persona e quasi mai il tempo presente,
  6. gli aspetti ermetici si ritrovano anche nell'uso delle figure retoriche (analogie complesse rispetto a quelle semplici della prima raccolta),
  7. ambientazione classica, al tempo dei miti classici o ambientazione romana (Diana, Apollo, L'Aurora, Giunone, Leda...), la temporalità collocata al di fuori del tempo stesso,
  8. crisi religiosa e invocazione Dio affinché lo liberi dall'inquietudine.



Poesie

Tra le poesie presenti in questa raccolta vi sono:



La poesia: Sentimento del tempo

Questa è la poesia dà il titolo alla raccolta.

Testo
E per la luce giusta,
Cadendo solo un'ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura,
Ogni mio palpito, come usa il cuore,
Ma ora l'ascolto,
T'affretta, tempo, a pormi sulle labbra
Le tue labbra ultime.




Analisi e commento
Il tema centrale di questa poesia è la limitatezza del tempo umano: il poeta osserva la luce del tramonto su una piccola montagna e la visione di questo spettacolo naturale scatena in lui una riflessione sulla fine dell'esistenza.

Il colore viola rappresenta il crepuscolo. Il poeta ascolta il battito del suo cuore, che scandisce il tempo, e lascia intendere che col passare dei battiti si avvicina alla morte (fine della vita). Inoltre il pensiero che sta per arrivare il bacio tanto atteso accelera i battiti del suo cuore.
Continua a leggere »

Se tu mio fratello - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "Se tu mio fratello" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1937 e fa parte della raccolta Il dolore, all'interno della sezione Tutto ho perduto.



Indice




Testo

Se tu mi rivenissi incontro vivo,
Con la mano tesa,
Ancora potrei,
Di nuovo in uno slancio d'oblio, stringere,
fratello, una mano.

Ma di te, di te più non mi circondano
Che sogni, barlumi,
I fuochi senza fuoco del passato.

La memoria non svolge che le immagini
E a me stesso, io stesso
Non sono già più
Che l'annientante nulla del pensiero.



Parafrasi

Se tu fossi vivo e mi venissi incontro,
sarei ancora in tempo
per afferrarti con la mano tesa.
Potrei di nuovo stringerti la mano,
se dimenticassi per un momento la tua morte.

Ma di te, non mi restano che
i ricordi, deboli lampi di memoria,
come focolari (spenti) che non sprigionano calore.

La memoria riprende solo le immagini
E io stesso sono diventato e mi considero
ormai
un annientatore di ricordi.



Analisi del testo e commento

La poesia è stata scritta da Giuseppe Ungaretti in memoria di suo fratello Costantino Ungaretti (1986-1937): si trova inserita nella raccolta "Il dolore" che lascia intendere tutta la tristezza provata dal poeta per la scomparsa del fratello e l'attaccamento che aveva verso di lui.
Riguardo questa raccolta scrisse:
Il Dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d’essere impudìco. Quel dolore non finirà più di straziarmi.
Il poeta vorrebbe che il fratello ritornasse in vita in modo da potergli stringere ancora una volta la mano (per dimostrargli il suo affetto), ma per fare questo dovrebbe dimenticarsi del tutto che lui è morto.
Nell'ultima quartina dice che non lo ha mai abbandonato del tutto, perché egli vive ancora nei suoi ricordi, ma i ricordi sono come dei focolari spenti che un tempo sprigionavano calore mentre adesso vi sono solo delle tracce che ricordano che un tempo era stato acceso un fuoco. Le immagini scaturite dai ricordi col passare degli anni diventano sempre più sbiadite e, Ungaretti, si autodefinisce un distruttore di ricordi perché non riesce a ricordare tutto nei minimi dettagli come avrebbe voluto, per rivivere almeno con la memoria le giornate trascorse insieme al suo caro fratello.



Figure retoriche

Iperbato = "Con la mano tesa, Ancora potrei, Di nuovo in uno slancio d'oblio, stringere" (vv. 2-4).

Anafora = "Che" (v. 7), "Che" (v. 12).

Enjambements = vv. 2-3; 3-4; 4-5; 6-7; 10-11-11-12.
Continua a leggere »

Inferno Canto 34 - Parafrasi


Nella quarta zona, detta Giudecca, i traditori dei benefattori sono completamente immersi nel ghiaccio. Virgilio avverte Dante che fra poco incontreranno Lucifero. Infatti il sommo poeta, alla vista del Diavolo, quasi muore dalla paura dato che è immenso nel lago di ghiaccio fino al petto: è gigantesco, con sei ali di pipistrello e tre facce, una rossa, una gialla e una nera; con ciascuna delle tre bocche dilania un dannato: Giuda, Bruto e Cassio. Intanto sta cominciando la notte ed essi sono pronti a lasciare l’Inferno. I due poeti si aggrappano così ai peli di Lucifero e iniziano la salita. Quando arrivano al bacino del mostro, essi si capovolgono e Dante rimane dubbioso. Virgilio lo fa rialzare e spiega a Dante che tutto questo è dovuto al passaggio da un emisfero all’altro.
Entrano in un passaggio stretto, salgono su una burella scura ed arrivano sulla terra ferma e guardano le stelle dopo tanto tempo.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 34 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Virgilio disse: «Avanzano verso di noi le insegne
del re dell’Inferno; perciò guarda attentamente (mira)
davanti se riesci a scorgerlo».
Come quando si diffonde (spira) una fitta (grossa) nebbia,
quando il nostro emisfero si fa buio,
appare da lontano un mulino a vento,
mi sembrò allora (allotta) di vedere un’enorme costruzione (un tal dificio);
poi a causa del vento mi riparai (mi ristrinsi)
dietro la mia guida, poiché lì non c’era un altro rifugio (grotta).
Ormai ero giunto, e con orrore lo dico nei miei versi,
dove le anime erano interamente sommerse
e trasparenti come una pagliuzza imprigionata nel vetro.
Alcune stanno distese; altre stanno diritte in posizione verticale,
alcune in piedi, altre capovolte;
altre ancora, come fa l’arco, riversano il viso verso i piedi.
Quando noi ci fummo inoltrati di quel tanto,
che al mio maestro parve opportuno per mostrarmi
l’essere che fu il più bello (ebbe il bel sembiante),
si scostò e mi fece fermare, dicendo:
«Ecco Dite, ed ecco il luogo dove è
necessario che ti armi di coraggio».
Come io allora diventai ghiacciato e muto (fioco),
non chiedermelo, o lettore, perché non lo dico,
dal momento che ogni parola (parlar) sarebbe inadeguata (poco).
Io non morii ma neanche rimasi del tutto vivo;
pensa ormai (oggimai) da te, se hai appena un po’ (fior) di ingegno,
come sia diventato, privo dell’una e dell’altra cosa.
Il sovrano del regno del dolore
sporgeva fuori dal ghiaccio dalla metà del petto;
e io mi avvicino (convegno) alle proporzioni di un gigante
più di quanto i giganti non si avvicinino alle proporzioni delle sue braccia;
vedi ormai quanto deve essere l’intero corpo (quel tutto)
che sia proporzionato a braccia del genere.
Se egli fu così bello come ora è brutto,
e ciò nonostante (e) osò ribellarsi (alzò le ciglia) al suo Creatore,
è ben naturale (ben dee) che derivi da lui ogni male (lutto).
Oh quanto stupefacente mi sembrò la cosa
quando vidi che la sua testa aveva tre facce!
Una era davanti, ed era di colore rosso;
le altre due si addizionavano (s’aggiugnieno) alla prima (questa)
a metà di ciascuna spalla,
e si congiungevano (dietro nella parte occipitale) dove alcuni animali hanno la cresta;
e mentre la destra appariva giallastra (tra bianca e gialla),
la sinistra al vederla aveva lo stesso colore
di chi proviene dalla terra dove il Nilo scende (s’avvalla).
Sotto ciascuna (faccia) uscivano due grandi ali,
proporzionate a un uccello tanto grande:
io non vidi mai per mare vele di queste dimensioni (cotali).
Non avevano penne, ma erano formate come quelle
del pipistrello; e quelle agitava (svolazzava),
tanto che da lui provenivano tre correnti d’aria:
per effetto di ciò Cocito diventava tutto quanto ghiacciato.
Piangeva con sei occhi e su tre menti faceva
gocciolare lacrime e bava sanguinolenta.
In ognuna delle bocche stritolava (dirompea) con i denti
un peccatore, come una gramola (maciulla),
in modo che contemporaneamente ne seviziava (facea così dolenti) tre.
Per quello nella bocca della faccia anteriore lo stritolamento era cosa da nulla
rispetto alle graffiate, tanto che a volte la schiena
restava tutta spogliata della pelle.
Il maestro disse: «Quel dannato lassù che subisce
la pena più dura è Giuda Iscariota,
il quale ha il capo nelle fauci di Lucifero (dentro) e agita le gambe di fuori.
Degli altri due che hanno la testa penzoloni,
quello che pende fuori dalla faccia di colore nero è Bruto;
vedi quanto si divincola senza emettere alcun lamento!;
e l’altro è Cassio, che appare così robusto (membruto).
Ma la notte ritorna (risurge) e ormai
dobbiamo allontanarci di qui, poiché abbiamo visto tutto».
Come Virgilio volle, mi avvinghiai al suo collo;
ed egli colse i punti propizi (poste) di tempo e di luogo,
e quando le ali furono aperte abbastanza,
si aggrappò ai fianchi villosi (le vellute coste);
da una manciata di pelo all’altra discese poi tenendosi
tra i fianchi fittamente pelosi e le incrostazioni della «ghiaccia».
Quando arrivammo nel punto in cui la coscia si articola (si volge),
esattamente in corrispondenza con l’ingrossarsi dell’anca,
la guida, con fatica e con respiro affannoso,
girò la testa dove teneva le gambe,
e si aggrappò al pelo come chi sale,
tanto che io credevo di tornare di nuovo (anche) in Inferno.
Ansimando come uomo affaticato il maestro disse:
«Tienti ben stretto a me, poiché per scale così ardue
è necessario allontanarsi da tanta malvagità».
Poi sbucò lungo la spaccatura (lo fóro) di una roccia (sasso)
e mi depose ai bordi;
dopo diresse verso di me (a me) il passo pronto (accorto).
Io alzai gli occhi ed ero convinto di vedere
Lucifero nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato,
e invece (e) vidi che teneva le gambe per aria;
e se io allora restai confuso (travagliato),
lo immagini la gente ignorante (grossa),
la quale non comprende (non vede) qual è il punto che avevo oltrepassato.
Il maestro disse: «Alzati in piedi:
la strada è ancora lunga e il cammino è difficile,
e già il sole ritorna a metà tra l’inizio del mattino e la terza (ora del giorno)».
Non era una sala spaziosa (camminata di palagio)
il luogo in cui ci trovavamo, ma una caverna (burella) naturale
che aveva suolo sconnesso e luce scarsa.
Quando mi fui alzato dissi:
«Prima che mi stacchi (divella) dall’abisso infernale,
parlami un poco per togliermi di dubbio:
dov’è la ghiaccia? e come mai Lucifero (questi) è conficcato
così a rovescio? e com’è accaduto, in così breve tempo,
che il sole abbia compiuto il percorso dalla sera al mattino?».
E Virgilio a me: «Tu credi di essere ancora
dall’altra parte del centro della Terra, dove io mi aggrappai (mi presi)
al vello del verme malvagio che buca il mondo.
Ti trovasti nell’emisfero boreale per il tempo da me impiegato a scendere;
quando mi capovolsi, oltrepassasti il punto
sul quale da ogni parte gravitano i corpi.
Ora sei giunto sotto l’emisfero contrapposto
a quello che ricopre (coverchia) la terra emersa (la gran secca),
e sotto il cui più alto punto fu ucciso (consunto)
l’uomo che nacque e visse senza peccato;
tu poggi i piedi su un piccolo spazio circolare (spera)
che costituisce (fa) l’altra faccia della Giudecca.
Qui è mattina (da man), quando di là è sera;
e Lucifero (questi), che con il suo pelo ci fece da scala,
è tuttora confitto nella stessa posizione di prima.
Precipitò giù dal cielo dalla parte di questo emisfero;
e la terra, che originariamente emerse di qua,
per paura di lui si inabissò sotto le acque (fé del mar velo),
ed emerse nel nostro emisfero; e forse
per evitare il contatto con Lucifero, la terra che si vede nel nostro emisfero
lasciò qui questa cavità e si proiettò in su».
Laggiù c’è un luogo lontano da Belzebù
quanto è lunga la caverna (tomba),
ed esso è riconoscibile non per mezzo della vista ma per il mormorio di un piccolo ruscello
che sfocia a quell’altezza (quivi discende) attraverso
l’apertura di una roccia, che ha scavato
con il suo corso sinuoso e poco ripido (e poco pende).
La guida e io ci avviammo lungo quel cammino quasi invisibile (ascoso)
per tornare nel mondo luminoso (chiaro);
e senza curarci di riposare,
salimmo, lui davanti (primo) e io dietro (secondo),
finché io vidi, attraverso un foro rotondo,
alcune delle luci (le cose belle) che stanno nel cielo.
E passando di qui (quindi) uscimmo a riveder le stelle.
Continua a leggere »

Canto beduino - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento


La poesia "Canto beduino" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1932 e fa parte della raccolta Sentimento del tempo.



Indice




Testo

Una donna s'alza e canta
La segue il vento e l'incanta
E sulla terra stende
E il sogno vero la prende.

Questa terra è nuda
Questa donna è druda
Questo vento è forte
Questo sogno è morte.



Analisi del testo e commento

È presente la rima baciata a ogni verso.

La poesia può essere suddivisa in due strofe:
  • nella prima strofa è protagonista la donna e tutto quello intorno a lei trasmette positività ed energia, come il suo cantare spensierato appena alzata, il vento che la incanta (la rende più affascinante), la terra che si estende (che dà un senso di infinità) e, soprattutto, la capacità di sognare.
  • nella seconda strofa la terra è priva di protezione (il termine nuda può essere inteso come secca o spoglia), la donna è druda (una compagna fedele, termine usato anche per animali), il vento non è più dolce bensì forte (in senso cattivo), e quel sogno che sembrava speciale e da perseguire si è tramutato in morte.

Tutto ciò di cui si parla positivamente nella prima strofa potrebbe essere quello che il poeta ha vissuto (ricordi di amori passati, terre lasciate), mentre nella seconda parte per gli stessi ricordi vengono usati aggettivi con accezione negativa perché nel poeta è riemerso in modo insistente il tema della morte (sa di non poter rivivere le stesse piacevoli esperienze).



Figure retoriche

Personificazione = "terrà è nuda" (v. 5).

Ossimoro = "sogno" e "morte" (v. 8). Il sostantivo "sogno" solitamente è usato per qualcosa di incerto, talvolta irrealizzabile, per contrasto la "morte" è una realtà a cui nessuno può sfuggire.

Anafora = "E...E" (vv. 3-4).

Anafora = "questa...questa" (vv. 5-6).

Anafora = "questo...questo" (vv. 7-8).
Continua a leggere »

Inferno Canto 33 - Parafrasi

Gustave Doré: ... "Padre mio, ché non m'aiuti?" Quivi morì. ...

Il dannato che rode la testa all'altro è il conte Ugolino della Gherardesca, la sua vittima l'arcivescovo Ruggeri. Dante e Virgilio passano poi nella zona detta Tolomea, dove i traditori degli amici tengono il capo talmente all'insù che le lacrime gli si congelano sugli occhi: tra essi frate Alberigo e Branca Doria.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 33 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Quel peccatore sollevò la bocca dal pasto bestiale (fiero),
pulendola (forbendola) sui capelli del capo,
che aveva morso (guasto) nella parte posteriore.
Poi cominciò: «Tu vuoi che io rinnovi
un dolore implacabile (disperato) che mi opprime il cuore
già al solo pensiero (pur pensando), prima ancora di parlarne.
Ma se le mie parole devono essere seme
che dia frutti d’infamia al traditore che sto stritolando con i denti,
mi sentirai parlare e insieme piangere.
Io non so chi tu sia né
in che modo sei arrivato quaggiù; ma mi sembri un Fiorentino
schietto (veramente) quanto al tuo modo di parlare (quand’io t’odo).
Devi sapere che io fui il conte Ugolino,
e costui è l’arcivescovo Ruggieri:
ora ti dirò perché gli (i) sono vicino così feroce (tal vicino).
Non è necessario dire come in conseguenza
dei suoi piani malvagi io, avendo fiducia in lui,
fossi catturato e poi ucciso;
però sentirai da me ciò che non puoi aver sentito dire,
ossia come la mia morte sia stata crudele,
e potrai giudicare fino a che punto egli (e’) mi abbia recato offesa.
Una stretta feritoia dentro la (torre) Muda,
che per esservi morto io (per me) ha preso il nome di torre della Fame,
e che per altri ancora dovrà accadere di venire chiusa,
mi aveva mostrato attraverso la sua apertura (forame)
più lunazioni (lune), quando feci il sogno funesto
che mi svelò il futuro.
Mi pareva che costui fosse guida e signore
nel cacciare il lupo e i suoi cuccioli verso il monte (di San Giuliano)
a causa del quale i Pisani non possono scorgere Lucca.
Egli aveva schierato davanti a sé
Gualandi, Sismondi, Lanfranchi e insieme
con loro le cagne fameliche (magre), ardenti di cacciare (studïose) ed esperte (conte).
Dopo breve corsa, il padre e il figlio mi parevano
affaticati e mi sembrava di veder lacerare
i loro fianchi dalle aguzze zanne (scane) delle cagne.
Quando mi destai prima che fosse mattino,
sentii piangere nel sonno i miei figli
che erano con me, e chiedere del pane.
Sei davvero crudele, se fin d’ora non provi dolore
pensando a ciò che il mio cuore presagiva a se stesso;
e se non piangi per questo, per che cosa sei solito piangere?
Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora
in cui il cibo ci (ne) veniva come al solito portato (addotto),
e a causa del sogno premonitore ognuno aveva timore;
e io udii inchiodare (chiavar) la porta esterna
dell’orribile torre; per cui guardai i miei figliuoli
negli occhi (nel viso) senza dire una sola parola.
Io non piangevo, a tal punto dentro di me diventai di pietra:
essi piangevano invece; e il mio Anselmuccio disse.
‘Tu guardi in modo così strano (sì), o padre! che hai?’
Perciò non piansi né risposi tutto
quel giorno e la notte successiva,
finché non apparve (uscìo) nel mondo il sole della giornata successiva (l’altro sol).
Non appena entrò un po’ di luce (raggio)
nel carcere doloroso, e io intravidi riflesso
nei quattro volti il mio stesso volto,
mi morsi in un gesto di dolore ambedue le mani;
ed essi pensando che lo facessi per fame (voglia di manicar),
prontamente (di sùbito) si alzarono in piedi e dissero:
‘Padre, sarà per noi minor dolore
se tu ti cibi di noi: tu ci hai dato
queste carni consunte, e dunque mangiale (le spoglia)’.
Allora mi calmai per non renderli ancora più tristi;
per tutto quel giorno e per quello successivo (l’altro) rimanemmo tutti in silenzio;
ahi, terra crudele (dura), perché non ti squarciasti?
Quando fummo arrivati al quarto giorno,
Gaddo mi si gettò ai piedi dicendo:
‘Padre mio, perché non mi aiuti?’
Ai miei piedi morì; e come tu vedi me,
io vidi con i miei occhi gli altri tre soccombere ad uno ad uno
tra il quinto e il sesto giorno; per cui cominciai (mi diedi),
cieco, a brancolare su ciascuno
e per due giorni ancora dopo la loro morte li chiamai.
Poi, più che il dolore, mi uccise la fame».
Dette queste parole, con gli occhi biechi (torti)
afferrò nuovamente il teschio miserando con i denti,
che arrivarono all’osso, forti come quelli di un cane.
Guai a te, Pisa, vergogna dei popoli
che abitano il bel paese in cui risuona (la lingua che afferma con) il sì,
poiché i vicini si muovono con lentezza a punirti,
si muovano la Capraia e la Gorgona,
e formino uno sbarramento (siepe) sulla foce dell’Arno,
in modo che il fiume (elli) sommerga ogni tuo abitante!
Poiché se il conte Ugolino aveva fama (voce)
di averti tradita nella circostanza dei castelli,
non per questo tu dovevi sottoporre a così orribile supplizio (a tal croce) i figli.
La giovane (novella) età rendeva innocenti,
o seconda (novella) Tebe, Uguccione e il Brigata
e gli altri due che il canto nomina (appella) sopra (suso).
Io e Virgilio passammo nella terza zona,
dove la crosta di ghiaccio serra duramente altri dannati,
non immersi verticalmente, ma completamente supini (tutta riversata).
Lì il pianto stesso impedisce di piangere,
e le lacrime che trovano un ostacolo (rintoppo) negli occhi,
ritornano dentro a rendere più intensa la sofferenza;
poiché le lacrime uscite per prime formano un nodo di ghiaccio
e, come visiere di cristallo, riempiono
sotto il sopracciglio tutta la cavità dell’occhio (coppo).
E sebbene, come accade per una parte callosa,
a causa del freddo ogni sensibilità (sentimento)
avesse abbandonato (cessato) di far dimora (stallo) sul mio viso,
ormai mi sembrava di avvertire del (alquanto) vento;
per cui (domandai): «Maestro mio, chi lo produce (move)?
Non è estinto ogni vento (vapore) quaggiù?».
Per cui egli mi rispose: «Presto (Avaccio) sarai
nel luogo dove l’occhio ti darà la risposta,
poiché vedrai la causa che fa cadere il vento dall’alto (’l fiato piove)».
E uno dei malvagi (tristi) immersi nella crosta ghiacciata
ci gridò: «O anime a tal punto spietate
da esservi assegnata la zona infima dell’Inferno,
toglietemi dal viso le incrostazioni di ghiaccio,
perché io possa almeno un poco sfogare il dolore
che mi colma il cuore prima che le lacrime tornino a ghiacciarsi».
Per cui io dissi a lui: «Se vuoi che io ti soccorra,
dimmi chi sei, e se non ti libero dall’impedimento,
mi tocchi andare nello strato più profondo della ghiacciaia».
Rispose dunque: «Io sono frate Alberigo;
sono quello dei frutti nati nel terreno del male (del mal orto),
e qui ricevo pan per focaccia (dattero per figo)».
Io gli dissi: «Ma come, tu sei già (ancor) morto?».
E lui a me: «Del perché (Come) il mio corpo
stia nel mondo di su, non so dare nessuna spiegazione.
Questa Tolomea ha un privilegio (vantaggio) cosiffatto,
che spesso l’anima vi cade prima che
Atropo le dia (dea) la spinta (mossa).
E perché tu più volentieri mi tolga via (rade)
dal volto le lacrime diventate come vetro,
sappi che, non appena l’anima tradisce (trade)
così odiosamente come feci io, il corpo le
è tolto da un demonio, che poi lo regge
finché non sia interamente trascorso (vòlto) il tempo di vita che gli è assegnato (’l tempo suo).
L’anima (Ella) precipita in questo pozzo infernale (cisterna);
e forse è ancora visibile sulla terra (suso) il corpo
dell’anima che qua dietro di me ghiaccia.
Tu lo devi sapere, se arrivi solo ora (pur mo) nell’Inferno (giuso);
egli è Branca Doria e diversi anni
sono passati da quanto fu così racchiuso».
Io dissi a lui: «Credo che tu m’inganni;
poiché Branca Doria non è mai (unquanche) morto
e mangia, beve, dorme e veste panni».
Egli disse: «Su nella bolgia (nel fosso) dei Malebranche,
dove bolle la tenace pece,
Michele Zanche non era ancora arrivato,
quando costui lasciò nel corpo un diavolo al posto suo,
e lo stesso accadde a un suo parente (prossimano)
che commise con lui il tradimento.
Ma stendi ormai (oggimai) la mano verso di me;
aprimi gli occhi». Ma io non glieli aprii;
e fu cortesia essere villano nei suoi confronti.
Ahi Genovesi, uomini lontani (diversi)
da ogni buon costume, e pieni invece di ogni vizio (magagna),
perché non siete estirpati (spersi) dal mondo?
Poiché in compagnia dell’anima più perversa della Romagna
trovai un vostro concittadino (di voi un tal), che per il suo tradimento
è già immerso (già si bagna) con l’anima (in anima) nel Cocito
e con il corpo appare ancora vivo sulla terra (di sopra).
Continua a leggere »

Lucca - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento

Piazza dell'Anfiteatro di Lucca

La poesia "Lucca" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1919 e fa parte della raccolta L'allegria.



Indice




Testo

A casa mia, in Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre
ci parlava di questi posti.
La mia infanzia ne fu tutta meravigliata.
La città ha un traffico timorato e fanatico.
In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire.
Mi sono seduto al fresco sulla porta dell'osteria con della gente
che mi parla di California come d'un suo podere.
Mi scopro con terrore nei connotati di queste persone.
Ora lo sento scorrere caldo nelle mie vene, il sangue dei miei morti.
Ho preso anch'io una zappa.
Nelle cosce fumanti della terra mi scopro a ridere.
Addio desideri, nostalgie.

So di passato e d'avvenire quanto un uomo può saperne.
Conosco ormai il mio destino, e la mia origine.
Non mi rimane che rassegnarmi a morire.
Alleverò dunque tranquillamente una prole.
Quando un appetito maligno mi spingeva negli amori mortali, lodavo
la vita.
Ora che considero, anch'io, l'amore come una garanzia della specie,
ho in vista la morte.



Analisi del testo

È una poesia in prosa, caratterizzata da un testo molto lungo in cui le frasi sono brevi e schematiche grazie alla punteggiatura, ma rispetto alle sue poesie più ermetiche, questa presenta versi più articolati e collegati fra loro.

Non vi sono rime e manca l'intestazione diaristica tipica di molte composizioni di Ungaretti, con l'indicazione del luogo e della data.

Viene fatto un frequente uso di aggettivi possessivi che svelano il forte legame che il poeta avverte con le tematiche trattate. Ciò che racconta è la sua reale esperienza e non il frutto di qualche vaga immaginazione. Inoltre se nella prima parte del testo compaiono parole rustiche e semplici come "zappa", "rosario", "madre", "città" e "osteria"; la seconda parte è caratterizzata da uno slancio poetico concentrato sull'interiorità del poeta e, quindi, compaiono termini più sofisticati ("nostalgie e desideri", "appetito maligno", "amori mortali") e tematiche più concettuali e profonde (amore, destino, morte).

La città è spesso caratterizzata da aggettivi di accezione negativa ("Timorato e fanatico") o termini che richiamano alla semplicità della vita campestre ("zappa", "prole").



Figure retoriche

Ossimoro = "timorato" e "fanatico" (v. 4).

Similitudine = "come d'un suo podere" (v, 8).

Ossimoro = "passato" e "avvenire" (v. 14).

Similitudine = "come una garanzia della specie" (v, 20).

Enjambements = vv. 1-2; 7-8; 18-19.



Commento

Nel testo Ungaretti descrive Lucca, città natia dei suoi genitori, ma non la sua perché egli è nato in Alessandria d'Egitto.
Il testo si apre con un ricordo d'infanzia: dopo aver cenato tutti insieme e dopo aver recitato il rosario, la madre del poeta era solita raccontare al figlio di come era la città lucchese e che poi dovette lasciare per andare a lavorare in Egitto, dove Ungaretti nasce e trascorre la sua prima infanzia. Alessandria d'Egitto era una città nella quale fatica a riconoscersi e identificarsi. Invece, Lucca, descritta amorevolmente come una sola madre sa fare, affascinava il piccolo Ungaretti al punto che si ritrovava ad immaginare la fisicità della città, con le sue mura ed il traffico, e si immaginava lui stesso in quelle mura.
Un giorno (al termine della Prima Guerra Mondiale) Ungaretti, che si trova in una fase molto significativa della sua vita (scosso dal dolore), decide di recarsi nella città che ha visto nascere i suoi genitori (Lucca), con la speranza di ottenere un cambiamento o una maturazione, e si scopre simile alla gente che lo circonda. I lucchesi di cui parla Ungaretti sono persone molto semplici, che ben poco hanno conosciuto al di là della propria esistenza paesana (non sanno dove sia o addirittura cosa sia la California).
Questo pensiero gli piace e allo stesso tempo lo turba: da un lato si sente parte di questo mondo contadino e si immagina con la zappa, ma dall'altro questo pensiero lo terrorizza.
Il terrore che prova Ungaretti nasce dal fatto che lui si è sempre considerato senza patria, come un viandante che aspira al ritorno a casa, invece, in questo modo egli sa di avere radici toscane e contadine e, lo riscoprire le proprie radici, significa per lui essere diventato vecchio. Quando Ungaretti scrisse questa poesia aveva solo trent'anni, e il fatto che questo aspetto lo facesse sentire vecchio lo terrorizzava.
Giungendo nella patria tanto ricercata, il poeta si ritrova costretto ad abbandonare nostalgie e desideri passati. L'insoddisfazione di questa scoperta lo obbliga a cambiare il suo stile di vita con triste rassegnazione. Il futuro e il destino si tramutano in momenti di morte, di cambiamento e di distacco dai desideri e dai sogni giovanili diventando una routine priva di interesse e di stimoli. Anche il concetto di amore è costretto a trasformarsi: all'appetito maligno che lo spingeva negli "amori mortali" sostituisce un rapporto amoroso concepito unicamente come mezzo per dare vita alle generazioni future.
Per questo si sente pronto ad "allevare tranquillamente una prole" e a diventare "un'origine", così come i suoi antenati lo sono stati per lui. Si rende conto che il destino e il futuro non sono un'incognita misteriosa ma la semplice continuazione della vita cittadina, e che bisogna abbandonarsi alla quotidianità come qualcosa di inevitabile e di giusto.
Lo stato d’animo che si può cogliere nei versi finali è di pace e rassegnazione, serenità e mancanza di turbamento. Ora il poeta ha ricostruito le dinamiche della propria esistenza, conosce la sua origine e il suo destino, l’inizio e la fine, e può abbandonarsi all’idea della morte.
Continua a leggere »

Inferno Canto 32 - Parafrasi

Dante incontra Bocca degli Abati (Canto XXXII). Illustrazione di Paul Gustave Doré.

Cocito è diviso in zone: nella Caina i traditori dei parenti stanno immersi nel ghiaccio fino al capo, tenuto abbassato; nella Antenora i traditori della patria hanno invece il capo rivolto in alto: tra essi Bocca degli Abati e Gano di Maganza. Dante vede un dannato che rode la testa di un altro, e chiede a Bocca il nome di entrambi.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 32 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Se io possedessi un linguaggio poetico fatto di parole aspre e rauche (chiocce),
come sarebbe necessario per trattare dell’orrenda cavità
su cui premono tutti gli altri cerchi infernali,
esprimerei la sostanza (suco) della mia visione
più compiutamente; ma poiché non lo possiedo,
mi accingo a raccontare non senza paura;
poiché descrivere il fondo di tutto l’universo
non è un’impresa da prendere alla leggera,
né può essere affrontata da un linguaggio che usi termini (semplici) come mamma o babbo.
Vengano dunque in aiuto del mio verso le Muse
che aiutarono Anfione a cingere Tebe (di mura),
cosicché le parole non si allontanino dalla materia.
O anime più di tutte create al male e alla dannazione,
che state nel luogo di cui è arduo parlare,
meglio sarebbe che foste state sulla terra pecore o capre!
Non appena noi fummo giù nel buio fondo del pozzo,
molto più in basso dei piedi del gigante,
e io continuavo a guardare l’alta parete,
mi sentii dire: «Attento (Guarda) a come cammini (passi):
procedi in modo da non calpestare
le teste dei fratelli sciagurati e infelici».
Sicché io mi voltai, e vidi davanti a me
e sotto i miei piedi un lago che a causa del gelo
pareva (avea ... sembiante) di vetro e non d’acqua.
Non formarono mai durante il periodo invernale
nel loro corso una così spessa crosta di ghiaccio
né il Danubio in Austria (Osterlicchi) né il Don sotto il freddo cielo,
come quella lì formata; tanto che se il monte Tambura
o il Pania della Croce vi fossero precipitati,
non avrebbe scricchiolato nemmeno sull’orlo.
E come la rana sta a gracidare
col muso fuori dall’acqua, quando la contadina
sogna di cogliere spighe in abbondanza,
così le ombre dolenti dei dannati stavano, illividite,
confitte nel ghiaccio fino al punto del corpo in cui la vergogna traspare,
e battevano i denti con suono simile a quello prodotto dalle cicogne.
Ognuna teneva il viso volto in basso;
in loro il freddo è testimoniato (testimonianza si procaccia) dalla bocca
e la sofferenza (cor tristo) dagli occhi.
Dopo aver guardato intorno a me per diverso tempo,
piegai lo sguardo verso i piedi, e vidi due dannati così avvinti,
che avevano mescolato insieme i capelli del capo.
«Ditemi, voi che siete così strettamente congiunti per il petto»,
dissi, «chi siete?». Ed essi piegarono il collo (all’indietro);
e dopo aver alzato lo sguardo verso di me,
i loro occhi, che sotto le palpebre erano bagnati,
lasciarono scorrere il pianto fino alle labbra,
e il gelo ghiacciò le lacrime tra gli occhi accecandoli.
Una spranga non strinse mai un pezzo di legno a un altro
così saldamente; per cui essi come due montoni
cozzarono l’uno contro l’altro, tale fu l’ira che li vinse.
E un altro dannato che aveva perduto entrambi gli orecchi
per il gelo, continuando (pur) a stare con la testa abbassata,
disse: «Perché ci guardi fisso come se ti specchiassi?
Se vuoi sapere chi sono i due, (ti dirò che)
la valle da cui scende il Bisenzio appartenne
al loro padre Alberto e a loro stessi.
Furono generati dalla stessa madre;
e potrai cercare per tutta la Caina, ma non troverai un’anima
che meriti più di loro di esser confitta nel ghiaccio (gelatina):
non colui al quale il petto e l’ombra vennero trapassati (rotto)
con un solo colpo (esso un colpo) vibrato dalla mano di Artù;
non Focaccia; non costui che m’impedisce la vista
con il suo capo, cosicché io non riesco a vedere più in là,
e fu chiamato Sassolo Mascheroni;
se tu sei toscano, sai ormai bene chi sia.
E perché tu non mi costringa a far altre parole,
sappi che io fui Camicione de’ Pazzi;
e sono in attesa di Carlino che faccia apparire meno grave la mia onta.
Poi io vidi un gran numero di visi resi lividi (cagnazzi)
dal freddo; per cui mi vengono i brividi (riprezzo),
e sempre mi verranno, per le acque (guazzi) ghiacciate.
E mentre procedevamo verso il centro (lo mezzo)
dove convergono (si rauna) tutti i pesi (gravezza),
e io tremavo nell’eterno gelo (rezzo),
non so se si trattò di mia volontà, di predestinazione
o di caso fortuito, ma, camminando tra le teste,
picchiai con forza il piede nel viso di un dannato (ad una).
Piangendo mi gridò con tono di rimprovero: «Perché mi calpesti?
se tu non vieni ad accrescere la punizione (vendetta)
di Montaperti, perché mi tormenti?».
E io dissi: «Maestro, aspettami qui,
affinché io possa risolvere (esca d’) un dubbio riguardante (per) costui;
poi mi farai quanta (quantunque) fretta vorrai».
La guida si fermò (stette), e io dissi a colui
che aspramente continuava a imprecare:
«Chi sei tu che a questo modo mi (altrui) rimproveri?».
Rispose: «Piuttosto chi sei tu che vai per l’Antenòra,
percuotendo la faccia a me, in modo tale che,
se io fossi vivo, sarebbe (fora) un’ingiuria troppo grave?».
La mia risposta fu: «Io sono vivo, e ti può riuscire gradito,
se desideri essere ricordato nel mondo (dimandi fama),
che io metta il tuo nome nei miei versi».
Ed egli disse a me: «Proprio del contrario ho desiderio.
Levati di qui e non darmi più fastidio,
poiché non valgono le tue lusinghe in questa bassura (lama)!».
Allora lo afferrai per la collottola e dissi:
«Sarà bene che tu dica il tuo nome,
o non ti rimarrà in testa (qui sù) nemmeno un capello».
Per cui egli mi rispose: «Per quanti (Perché) capelli mi strappi,
né ti dirò chi sono, né te lo rivelerò,
anche se mi piombi sul capo (mi tomi) mille volte».
Io avevo già attorcigliato (avvolti) i capelli nella mano
e gliene avevo strappato (tratti) più di una ciocca,
mentre egli guaiva come un cane abbassando gli occhi,
quando un altro dannato gridò: «Che cos’hai, Bocca?
non ti basta battere i denti per il freddo
e devi anche latrare? che diavolo hai (ti tocca)?».
Io dissi: «Ormai non ho più bisogno che tu parli,
traditore maledetto; poiché a tua infamia porterò
nel mondo notizie certe (vere) di te».
Rispose: «Vattene e racconta ciò che vuoi;
ma non tacere, se tu puoi uscire di qui,
di colui che poco fa (or) ebbe la lingua così pronta
Egli sconta qui il denaro (l’argento) ottenuto dai Francesi:
potrai dire ‘Io vidi Buoso da Duera nel luogo
in cui i peccatori patiscono il freddo (stanno freschi)’.
Se ti venisse chiesto ‘Chi altro c’era?’,
sappi che tu hai al tuo fianco Tesauro dei Beccheria
al quale i Fiorentini (Fiorenza) tagliarono la gola (gorgiera).
Credo che più in là vi sia Gianni de’ Soldanieri
e con lui Gano di Maganza e Tebaldello de’ Zambrasi,
che, mentre la gente dormiva, aprì le porte di Faenza».
Ci eravamo già allontanati da lui,
quando vidi due dannati nella stessa buca,
messi in modo tale che il capo di uno ricopriva come un cappello il capo dell’altro;
e con la stessa avidità con cui si mangia il pane quando si ha fame,
così quello che stava sopra addentava l’altro
nel punto in cui il cervello si congiunge (s’aggiugne) con il midollo spinale:
non diversamente da Tideo, che rosicò
per odio la testa di Menalippo,
faceva costui con il cranio e tutto il resto.
Io dissi: «O tu che attraverso un gesto così bestiale
manifesti il tuo odio per colui che stai mangiando,
dimmi il perché, con questo patto (per tal convegno),
che se tu ti duoli con ragione di lui,
venendo a conoscere (sappiendo) chi siete voi e quale sia la sua colpa,
io possa ancora ricompensartene (te ne cangi) sulla terra (nel mondo suso),
se non mi si secchi la lingua con cui parlo».
Continua a leggere »

D'agosto - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "D'agosto" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1925 e fa parte della raccolta Sentimento del tempo.



Indice




Testo

Avido lutto ronzante nei vivi,

Monotono altomare,
Ma senza solitudine,

Repressi squilli da prostrate messi,

Estate,

Sino ad orbite ombrate spolpi selci,

Risvegli ceneri nei colossei…

Quale Erebo t’urlò?



Parafrasi

(In agosto)
Una morte avida sorvola tra i vivi,

il mare è noiosamente calmo,
e mai deserto,

rintocchi ovattati provengono da chiese spente.

L'estate

fino alle ombre della sera logora la pietra,

scuote la quiete degli impolverati colossei...

Quale divinità ti ha generato?



Analisi del testo e commento

Come abbiamo già visto nella poesia Di luglio, per Ungaretti l'estate rappresenta più il male che il bene. La paragona dapprima alla morte personificata che sfiora le persone (i vivi); poi la definisce noiosa, poiché in estate il mare è una tavola e pure affollato e quindi non è né affascinante come un mare agitato né utile per isolarsi e per riflettere; dice che la luce del sole consuma la selce (roccia sedimentaria composta quasi esclusivamente da silice); disturba perfino la polvere dei colossei e infine si chiede chi mai l'abbia generata. Nomina la divinità greca Erebo in quanto è la personificazione dell'oscurità ed è anche usato per indicare gli Inferi, e poi anche perché da Egli nacquero numerosi figli come Nemesi (la vendetta), Apate (l'inganno), Ker (la morte violenta), Eris (la discordia), Thanatos (la morte) ecc.



Figure retoriche

Antonomasia = "Erebo" (v. 8).
Continua a leggere »

Tu ti spezzasti - Ungaretti: spiegazione, analisi e commento


La poesia "Tu ti spezzasti" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti e fa parte della raccolta Il dolore, pubblicata nell'immediato dopoguerra.



Indice




Testo

I molti, immani, sparsi, grigi sassi
Frementi ancora alle segrete fionde
Di originarie fiamme soffocate
Od ai terrori di fiumane vergini
Ruinanti in implacabili carezze,
- Sopra l'abbaglio della sabbia rigidi
In un vuoto orizzonte, non rammenti?

E la recline, che s'apriva all'unico
Raccogliersi dell'ombra nella valle,
Araucaria, anelando ingigantita,
Volta nell'ardua selce d'erme fibre
Più delle altre dannate refrattaria,
Fresca la bocca di farfalle e d'erbe
Dove le radici si tagliava,
- Non la rammenti delirante muta
Sopra tre palmi d'un rotondo ciottolo
In un perfetto bilico
Magicamente apparsa?

Di ramo in ramo fiorrancino lieve,
Ebbri di meraviglia gli avidi occhi
Ne conquistavi la screziata cima,
Temerario, musico bimbo,
Solo per rivedere all'ilmo lucido
D'un fondo e quieto baratro di mare
Favolose testuggini
Ridestarsi fra le alghe.
Della natura estrema la tensione
E le subacquee pompe,
Funebri moniti.

2.

Alzavi le braccia come ali
E ridavi nascita al vento
Correndo nel peso dell'aria immota.

Nessuno mai vide posare
Il tuo lieve piede di danza.

3.

Grazia, felice,
Non avresti potuto non spezzarti
In una cecità tanto indurita
Tu semplice soffio e cristallo,

Troppo umano lampo per l'empio,
Selvoso, accanito, ronzante
Ruggito d'un sole d'ignudo.



Analisi del testo e Commento

In questa poesia Ungaretti presenta il figlio Antonietto come un bimbo svelto, curioso di voler scoprire gli aspetti "favolosi" della flora e della fauna. Il ricordo del figlioletto è rievocato in lui per via del paesaggio brasiliano, ricco di colori accesi, di alberi sospesi, di fondi marini, aspro e possente. Ma al padre pieno di ansia e apprensione, Antonietto appariva debole come un "semplice soffio" e delicato come il "cristallo" di fronte alla natura tropicale immane, selvaggia, opprimente: non avrebbe potuto reggere il confronto e, quindi, non avrebbe potuto non "spezzarsi"...
Per Ungaretti la natura è spietata e vi è un qualcosa di crudele nella forza che sprigiona il paesaggio perché fa da contrasto alla fragilità del corpicino del figlioletto (morto a San Paolo, in Brasile, alla tenera età di 9 anni a causa di un'appendicite mal curata). E in un certo senso si chiede come sia possibile che vi sia così tanta forza da una parte e così tanta fragilità dall'altra.
Per il poeta è una coesistenza impossibile e, infatti, il suo bimbo cederà di fronte a questa natura spietata, giungendo audacemente di ramo in ramo alla cima per guardare il mare sottostante.



Figure retoriche

Personificazione = "sole ignudo" (v. 41).

Climax ascendente = "I molti, immani, sparsi, grigi sassi" (v. 1). Evidenzia la durezza e la solitudine del paesaggio.

Similitudine = "Alzavi le braccia come ali" (v. 30).

Metafora = "Correndo nel peso dell'aria" (v. 32).
Continua a leggere »

Inferno Canto 31 - Parafrasi

I Giganti, Gustave Doré

Dante e Virgilio lasciano Malebolge, e, superato l’ultimo argine roccioso, si ritrovano immersi nel crepuscolo e odono un suono di corno più terribile di quello lanciato da Orlando a Roncisvalle. Per la scarsa luce Dante crede di vedere le torri di una città che sono invece, gli spiega Virgilio, giganti conficcati attorno al pozzo dalla vita in giù: via via che si avvicinano diminuisce l’errore e aumenta la paura di Dante. Giunti ai margini del pozzo Virgilio mostra al suo allievo Nembrot, il gigante responsabile della costruzione della torre di Babele, reso ora incapace di parlare una lingua comprensibile, poi Fialte che sfidò Giove tentando di scalare l’Olimpo e ora è incatenato in modo da non potersi muovere, mentre Briareo, di cui Dante ha chiesto notizie, è immobilizzato più lontano e non è visibile. Accanto a Nembrot è conficcato Anteo, il gigante ucciso da Ercole, libero da catene perché non prese parte alla rivolta contro Giove: dopo averlo blandito, Virgilio gli chiede di trasportarlo sul fondo del pozzo. Anteo non può opporsi alla richiesta, quindi distende la mano e afferra Virgilio, che a sua volta stringe a sé Dante; infine depone i due sulla distesa ghiacciata di Cocito.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 31 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

La stessa lingua prima mi rimproverò (morse),
tanto da farmi arrossire di vergogna,
e poi mi riconfortò (la medicina mi riporse);
così sento raccontare che la lancia
di Achille, e di suo padre (Peleo), soleva essere causa
prima di un dannoso e poi di un benefico assalto (mancia).
Noi volgemmo le spalle (il dosso) alla miserabile bolgia,
percorrendo (su per) la spianata dell’argine
che la circonda, senza pronunciare parola.
Qui c’era meno buio che di notte e meno chiaro che di giorno,
così che la mia vista si spingeva avanti di poco;
ma udii risuonare un corno tanto fragorosamente,
che avrebbe fatto parere debole qualsiasi tuono,
e indirizzò in un sol punto i miei occhi
che seguivano il percorso del suono in senso opposto (per risalire alla sua provenienza).
Dopo la dolorosa disfatta, quando
Carlo Magno perdette la schiera dei paladini che combattevano per la fede,
Orlando non suonò così terribilmente.
Dopo aver voltato per poco tempo il capo nella direzione del suono (in là),
mi parve di vedere molte alte torri;
per cui: «Maestro, dimmi, che città (terra) è questa?».
Ed egli a me: «Poiché tu ti spingi con lo sguardo
troppo lontano attraverso le tenebre,
accade che nel dare a ciò che vedi una figura (maginare), lo fai in modo impreciso (abborri).
Vedrai bene, se arriverai fin là (là ti congiungi),
quanto il senso s’inganna da lontano;
perciò stimola (pungi) di più te stesso».
Poi mi prese affettuosamente per mano e
mi disse: «Prima che noi siamo più avanti,
affinché ciò che vedrai ti appaia meno sorprendente,
devi sapere che non si tratta di torri, ma di giganti,
e che essi sono disposti intorno alla parete (ripa) del pozzo,
(confitti) in tutta la loro lunghezza (tutti quanti) dall’ombelico in giù».
Come, quando la nebbia si disperde,
gli occhi a poco a poco ravvisano
le cose nascoste dal vapore che addensa (stipa) l’aria,
così penetrando con lo sguardo (forando) in quest’aria spessa e tenebrosa,
via via che mi avvicinavo all’orlo del pozzo,
si dissolveva l’equivoco (fuggiemi errore) e aumentava il timore;
poiché, come il castello di Monteriggioni è cinto di torri
disposte lungo il muro circolare,
così i giganti spaventosi, che (cui) ancora oggi
Giove sembra minacciare dal cielo quando tuona,
come torri sormontavano (torreggiavan) con metà del corpo (di mezza la persona)
la sponda che gira intorno (circonda) al pozzo.
E io già di uno (d’alcun) distinguevo (scorgeva) la faccia,
le spalle, il petto, gran parte del ventre
e le due braccia pendenti (giù) lungo i fianchi (per le coste).
Certo quando la natura cessò di produrre
siffatti esseri animati, agì con molta accortezza
perché sottrasse (tòrre) a Marte ministri di potenza indicibile.
E se la natura (ella) non si pente di (generare) elefanti e balene,
chi esamina a fondo, la giudica per questo (la ne tene)
più giusta e più saggia (discreta);
poiché dove lo strumento (l’argomento) dell’intelligenza
si aggiunge alla volontà malvagia e alla forza fisica,
gli uomini non possono opporre alcun argine.
La sua faccia mi appariva lunga e grossa
come la pigna (pina) di San Pietro a Roma,
e l’intera struttura (l’altre ossa) era proporzionale a questa;
cosicché la sponda del pozzo,
coprendo come un perizoma la parte inferiore del corpo,
ne lasciava apparire sopra l’orlo una mole tale,
che tre abitanti della Frisia non avrebbero potuto vantarsi di arrivare ai capelli;
poiché io del suo corpo vedevo trenta palmi abbondanti
a partire dal punto in cui l’uomo si affibbia il mantello verso il basso.
«Raphèl maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridare l’orribile (fiera) bocca,
alla quale non si addicevano parole (salmi) più dolci.
E la mia guida volgendosi a lui: «Anima sciocca,
accontentati (tienti) del corno e sfogati con quello
quando l’ira o qualche altra passione ti prendono (ti tocca)!
Cerca intorno al collo, e troverai la cinghia (soga)
che lo tiene legato, o anima confusa,
e vedrai il corno che ti attraversa il petto potente come una doga».
Poi mi disse: «Si rivela da se stesso per ciò che è (s’accusa);
costui è Nembrot, a causa del cui empio pensiero
nel mondo non si usa un linguaggio solo.
Lasciamolo stare e non parliamo inutilmente (a vòto);
poiché così è per lui ogni linguaggio umano
come per gli altri il suo, che non è conosciuto da nessuno».
Facemmo dunque un percorso più lungo,
volgendo a sinistra; e, a un tiro di balestra,
incontrammo l’altro gigante ancor più feroce e di maggior statura.
Chi fosse l’artefice (maestro) che lo legò (cigner)
io non so dire, ma egli aveva il braccio sinistro legato (soccinto)
davanti e il destro dietro con una catena
che lo teneva avvinto dal collo in giù,
in modo che essa si avvolgeva per cinque giri (infino al giro quinto)
intorno alla parte del corpo che era fuori del pozzo.
«Questo superbo volle sperimentare
la sua forza fisica contro il sommo Giove»,
disse la mia guida, «per cui ha un tale premio (merto).
Si chiama Fialte, e compì le grandi prove
quando i giganti fecero paura agli dèi;
le braccia che mosse, non muoverà più per l’eternità (già mai)».
E io a Virgilio: «Se fosse possibile (S’esser puote), vorrei
che i miei occhi avessero diretta esperienza
dello smisurato Briareo».
Ed egli rispose: «Tu vedrai qui vicino (presso di qui) Anteo,.
che parla e non è incatenato,
che ci porterà nel fondo di ogni colpa (ogne reo).
Il gigante che tu vuoi vedere, è molto più lontano ed è incatenato
e ha la stessa conformazione di questo,
a eccezione del fatto che appare più terribile nel volto».
Non ci fu mai un terremoto così violento (rubesto)
che scuotesse una torre con la stessa forza
con cui Fialte fu pronto a scrollarsi.
Allora io ebbi paura della morte più che mai,
e a farmi morire sarebbe bastata (non v’era mestier) la paura (dotta),
se non avessi visto le catene (ritorte).
Noi allora (allotta) avanzammo oltre,
e giungemmo vicino ad Anteo, che usciva fuori del pozzo (grotta)
di sette metri abbondanti (cinque alle), esclusa la testa.
«O tu che nella valle fortunata,
che rese glorioso (di gloria reda) Scipione,
quando Annibale fu volto in fuga insieme con il suo esercito,
un tempo (già) recasti come preda moltissimi (mille) leoni,
e che, se fossi stato presente alla grande (alta) guerra dei tuoi fratelli,
c’è ancora chi mostra di credere
che i giganti (i figli de la terra) avrebbero vinto:
calaci (mettine giù) dove il freddo (la freddura) fa ghiacciare (serra) Cocito
e non avere a sdegno di farlo.
Non ci costringere (Non ci fare) a ricorrere (ire) a Tizio o a Tifo:
Dante può darti ciò che nell’Inferno (qui) si desidera;
per questo abbassati e non torcere il volto.
Egli ti può ancora dar fama nel mondo,
poiché è vivo, e avrà ancora molto da vivere,
se la Grazia divina non lo chiama a sé prima del tempo».
Così disse il maestro; e Anteo stese rapidamente le mani,
di cui (ond’) Ercole sentì una volta (già)
la morsa (stretta) poderosa, e abbrancò la mia guida.
Quando Virgilio si sentì afferrare, mi disse:
«Avvicinati, affinché io possa prenderti»;
poi mi abbracciò in modo che lui ed io formavamo un solo fascio.
Come appare la Garisenda a osservarla
dal lato verso cui è inclinata, quando una nuvola
vi passi sopra, in modo che essa penda nella direzione contraria:
così Anteo apparve a me che stavo attentamente guardando
per vederlo piegare, e fu un momento di tale paura
che avrei voluto andare per un diverso cammino.
Ma con delicatezza ci depose
al fondo (ci sposò) che inghiotte (divora)
Lucifero e Giuda; né rimase a lungo così chinato,
e si raddrizzò (levò) come un albero di nave.
Continua a leggere »

Amaro accordo - Ungaretti: parafrasi, analisi e commento


La poesia "Amaro accordo" è stata scritta da Giuseppe Ungaretti e fa parte della raccolta Il dolore.



Indice




Testo

Oppure in un meriggio d'un ottobre
Dagli armoniosi colli
In mezzo a dense discendenti nuvole
I cavalli dei Dioscuri,
Alle cui zampe estatico
S'era fermato un bimbo,
Sopra i flutti spiccavano

(Per un amaro accordo dei ricordi
Verso ombre di banani
E di giganti erranti
Tartarughe entro blocchi
D'enormi acque impassibili:
Sotto altro ordine d'astri
Tra insoliti gabbiani)

Volo sino alla piana dove il bimbo
Frugando nella sabbia,
Dalla luce dei fulmini infiammata
La trasparenza delle care dita
Bagnate dalla pioggia contro vento,
Ghermiva tutti e quattro gli elementi.

Ma la morte è incolore e senza sensi
E, ignara d'ogni legge, come sempre,
Già lo sfiorava
Coi denti impudichi.



Parafrasi

Oppure come quando nelle ore più calde di un giorno d'ottobre,
dai tranquilli colli
e tra le dense nuvole che andavano ad abbassarsi
apparvero i cavalli di Càstore e Pollùce,
che spiccavano sopra le acque,
e alle cui gambe, affascinato,
si era avvicinato un bimbo.

(Per una spiacevole combinazione di ricordi
Verso ombre di banani
E di giganti erranti
Tartarughe entro blocchi
D'enormi acque impassibili:
Sotto altro ordine d'astri
Tra insoliti gabbiani)

Giungo fino alla pianura dove il bimbo,
giocando nella sabbia,
durante un temporale illuminato
dall'innocenza delle tue tenere mani
bagnate dalla pioggia controvento,
afferrava tutti e quattro gli elementi.

Ma la morte è spietata e senza sentimento
Non tiene conto delle leggi umane, come sempre,
Già ti sfiorava coi suoi denti
senza provare alcuna vergogna.



Analisi del testo

La prima strofa descrive una scena del presente: Ungaretti vede un bambino affascinato dalla statua che si trova a Roma.

La seconda strofa è un continuo rievocare di ricordi confusi e malinconici.

La terza strofa lo riporta indietro nel tempo, nel passato, quando il suo figlioletto era felice e giocava all'aperto ed Egli era altrettanto felice nel vederlo giocare.

La quarta strofa inizia con un "Ma" che riporta Ungaretti coi piedi per terra. La morte non si lascia intenerire nemmeno da un bambino che gioca (l'esempio di anima più pura al mondo) e sceglie le sue vittime senza badare all'età e senza fare distinzioni tra buoni e cattivi.



Figure retoriche

Iperbato = "I cavalli dei Dioscuri" (v. 4) e "Sopra i flutti spiccavano" (v. 7).

Enjambements = vv. 15-16; 18-19; 23-24.



Commento

In questa poesia il poeta racconta di un bimbo che si era fermato ad ammirare le statue dei Dioscuri in piazza del Quirinale a Roma. Quel bambino felice, sorridente e pieno di vita gli fa tornare in mente il suo Antonietto, con il quale si trovava nel paesaggio esotico brasiliano, e che morì all'età di 9 anni a causa di un'appendicite mal curata. I bambini sono delle creature innocenti, degli angeli, e nessuno di loro meriterebbe mai di morire così presto. È questo che vuole dire il poeta, che la morte è gestita in modo spietato quanto ingiusto. Solo la poesia è in grado di esorcizzare - almeno in parte - la morte "incolore e senza sensi" e il tormento che essa provoca.
Continua a leggere »
🧞 Continua a leggere su Scuolissima.com
Cerca appunti o informazioni su uno specifico argomento. Il nostro genio li troverà per te.




© Scuolissima.com - appunti di scuola online! © 2012 - 2025, diritti riservati di Andrea Sapuppo
P. IVA 05219230876

Policy Privacy - Cambia Impostazioni Cookies