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Alla sera, Ugo Foscolo: parafrasi, analisi, commento

sera-nuvole

Alla sera è un sonetto di Ugo Foscolo composta nel 1803 e facente parte dell'edizione definitiva delle "Poesie", di cui ne è la prima poesia della raccolta. Il poeta si rivolge alla sera dicendole che gli è cara perché è l'immagine della quiete della morte dove tutto di annulla. Mentre è assorto nel pensiero del nulla eterno il tempo fugge e con lui le preoccupazioni che lo assillano.





Alla sera: scheda poesia

Titolo Alla sera
Autore Ugo Foscolo
Genere Sonetto
Raccolta Poesie
Data 1803
Corrente letteraria Romanticismo
Temi trattati La sera vista come un momento di pace ed equilibrio per riflettere




Alla sera: testo poesia

Forse perché della fatal quiete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.



Parafrasi

O Sera, forse perché sei l'immagine della definitiva pace voluta dal fato, che arrivi a me così gradita.
Sia quando d'estate t'accompagnano le nubi estive e i tiepidi venticelli, sia quando dal cielo nevoso porti sul mondo tenebre lunghe e minacciose, scendi a me sempre gradita e governi con dolce serenità le vie nascoste del mio cuore.
Tu mi fai vagare col pensiero su quelle orme che conducono al nulla eterno; e intanto fugge questo tempo malvagio, e con lui vanno via gli affanni, nei quali esso si distrugge insieme a me; e mentre medito la tua pace si placa quello spirito ribelle che mi bolle dentro.



Analisi e commento

Schema metrico: 14 versi endecasillabi suddivisi in due quartine e due terzine. Lo schema delle rime è ABAB, ABAB, CDC, DCD.

Il sonetto inizia con un "forse", che è un avverbio dubitativo, per sottolineare il fatto che il poeta ha riflettuto su questo argomento e solamente dopo a iniziato a scrivere il testo. Secondo Ugo Foscolo il momento migliore della giornata è la sera perché finalmente si può riposare dopo il lavoro e gli impegni della vita. Tutti quei rumori fastidiosi della vita quotidiana si placano e ciò che rimane è solo pace e tranquillità.
Tuttavia, pensando alla sera, è difficile non pensare anche alla morte. Sì, può sembrare un salto un po' brusco perché il poeta non la nomina mai direttamente, ma è così. Attraverso due espressioni, si può intuire il riferimento alla morte e sono: "Fatal quiete" e "Nulla eterno". La sera è l'immagine del riposo eterno, cioè della morte, detta fatale perché stabilita dal fato. La sera scende sempre cara e desiderata dal poeta perché è l'immagine di quiete senza fine. Anche la morte ha qualcosa di simile alla sera, perché garantisce una pace simile, ma in modo definitivo. È come dire: "Ehi, hai fatto abbastanza per oggi. Ora puoi finalmente riposare".
Il sonetto sembra essere diviso in due parti. Le due quartine descrivono il modo in cui il poeta percepisce la sera, come un momento di pace che arriva indipendentemente dal tipo di sera: sia quando è calda e serena sia quando è fredda e buia. Ma poi, nelle due terzine, il poeta ci spiega perché la sera è così speciale per lui: perché è come un'anticipazione della morte. È come se ci dicesse che la morte, in fondo, non è così spaventosa perché porta con sé la fine di tutte le lotte e le sofferenze della vita, dunque il poeta vede la sera più come una liberazione che come una condanna.
Mentre si abbandona alla contemplazione della sera, che infonde un segno di pace al poeta, sembra che si plachi quello spirito guerriero (ribelle) che si agita con violenza nel suo animo.



Figure retoriche

  • Ossimoro = "fatal quiete" (v.1).
  • Metafora = "fatal quiete" (v.1); "e le secrete vie del mio cor soavemente tieni" (vv. 7-8).
  • Allitterazione della M e della N = "immago, me, vieni" (v.2); "tenebre e lunghe all’universo meni" (v.6); "vanno, nulla, eterno, intanto" (v. 10).
  • Anastrofe = "della fatal quïete / Tu sei l’immago" (vv. 1-2); "a me sí cara vieni" (v.2); "inquïete tenebre e lunghe" (vv. 5-6); "ch’entro mi rugge" (v.14).
  • Apostrofe = "O Sera!" (v.3).
  • Iterazione = "E quando" (v.3 e v.5).
  • Parallelismo = "nubi estive e i zeffiri sereni" (v.4), soggetto + attributo.
  • Sineddoche = "zeffiri" (v. 4); il plurale per il singolare.
  • Allitterazione della S = "sempre, scendi, secrete" (v.7).
  • Perifrasi = "nulla eterno" (v.10).
  • Antitesi = "guardo" e "dorme" (vv. 13-14); "pace" e "spirito guerriero" (vv. 13-14).
  • Chiasmo = "io guardo" (soggetto + verbo, v.13) e "dorme quello spirto" (verbo + soggetto, vv. 13-14).
  • Allitterazione della R = "mentre, guardo, dorme, spirto, guerrier, entro, rugge" (vv. 13-14).
  • Enjambement = "inquiete / tenebre" (vv. 5-6); "secrete / vie" (vv. 7-8); "orme / che vanno" (vv. 9-10); "fugge / questo reo tempo" (vv. 10-11); "dorme / quello spirto guerrier" vv. 13-14).
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Uno, nessuno e centomila: riassunto breve e commento

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Uno, nessuno e centomila è un romanzo psicologico di Luigi Pirandello uscito a puntate nel 1926 all'interno della rivista "La Fiera Letteraria".





Uno, nessuno e centomila: riassunto breve

Vitangelo Moscarda, chiamato affettuosamente Gengè da amici e parenti, è un uomo benestante e istruito, proprietario di un banco dei pegni. Un giorno, mentre si specchia, sua moglie Dida gli fa notare che ha il naso storto, una cosa che lui non aveva mai notato prima!
Questo semplice commento lo porta a una grande riflessione: gli altri lo vedono in modo diverso da come lui si vede. Questa scoperta cambia completamente la sua visione della vita. Decide di rompere con il suo vecchio sé, condizionato dalla nascita, dall'educazione e dall'ambiente, e di esprimere liberamente la sua vera personalità. Vuole liberarsi dalle aspettative degli altri, a cominciare dalla moglie.
Invece di fuggire come aveva fatto in passato, decide di mostrare la sua autenticità in modo surreale, parlando solo con il suo cane e facendo gesti di altruismo e generosità. Questi atti, anziché fargli ottenere l'approvazione, lo fanno considerare pazzo da tutti. La moglie e gli amministratori cercano di dichiararlo incapace di intendere e volere per poter prendere il controllo del suo patrimonio.
L'unica persona che sembra capirlo è Anna Rosa, un'amica della moglie. Ma le sue strane idee confondono talmente Anna Rosa da farla reagire violentemente, sparandogli due colpi di pistola. Durante il processo, Anna Rosa cerca di difendersi, ma Vitangelo si assume tutte le colpe.
Come segno di pentimento, seguendo i consigli di un amico, decide di costruire un ospizio per i poveri e vi si ritira, vivendo senza nome, come un nessuno, in armonia con la natura e lontano dalle convenzioni sociali.



Commento

Il protagonista del romanzo è Vitangelo Moscarda, un uomo di mezza età che inizia a interrogarsi sulla sua identità e cerca di capire meglio l'esistenza dopo aver ricevuto un semplice commento della moglie riguardo la forma del suo naso. Le sue idee stravaganti lo portano a fare cose assurde, ma decide anche di cambiare la sua vita per non essere più visto come un semplice usuraio, cercando di aiutare gli altri. Ma i suoi tentativi falliscono e le persone intorno a lui finiscono per ritenerlo pazzo. Nonostante tutto, non rinuncia mai alle sue idee, finendo per rovinarsi la vita: la moglie lo lascia, perde il controllo della banca e si ritrova solo. La sua identità si dissolve lentamente, fino a diventare uno, nessuno, centomila.
Il libro l'ho trovato interessante perché ha analizzato bene la psicologia del protagonista e fa riflettere sulla complessità dei pensieri altrui. Tuttavia, non mi ha coinvolto come mi sarei aspettato, perché non ho trovato giusto che qualcuno rovini la propria vita e quella altrui per riflessioni riguardanti l'esistenza e le relazioni.
Il romanzo di Pirandello è stato elaborato per molto tempo e parla della scomposizione della personalità. Se il nostro "io" è quello che gli altri vedono, la nostra identità si frammenta in molte immagini. Vitangelo scopre che la moglie ama un'immagine falsa di lui, non lui stesso. La vita, per Pirandello, è un flusso continuo che non si conclude mai, è il perpetuo divenire delle cose. Solo annullandosi in esse, Vitangelo può esistere davvero, anche solo per un attimo.
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Ciàula scopre la Luna: figure retoriche

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Ciàula è un giovane povero che lavora duramente in una miniera di zolfo in Sicilia. È l'aiutante di Zi' Scarda, un minatore anziano. Una sera, il sorvegliante Cacciagallina vuole farli rimanere a lavorare oltre l'orario, ma solo Zi' Scarda e Ciàula accettano. Nonostante sia esausto, Ciàula obbedisce. Ha paura del buio fuori dalla miniera a causa di un incidente passato. Mentre esce, rimane stupito dalla luce della luna, di cui non aveva mai veramente prestato attenzione. Sedendosi a guardarla, scopre la sua bellezza e si mette a piangere per l'emozione di questa nuova scoperta.





Ciàula scopre la Luna: figure retoriche

In questa pagina trovate tutte le figure retoriche contenute nella novella Ciàula scopre la Luna di Luigi Pirandello. Nel testo si alternano figure retoriche semplici, cioè di immediata individuazione, a figure retoriche complesse, cioè che richiedono una certa attenzione per poter essere individuate.



Onomatopea

Ciàula significa cornacchia nella lingua siciliana e il protagonista imita il verso del volatile e poi l'autore utilizza il verbo del verso dell'animale. In entrambi i casi si tratta di onomatopea.
Cràh! cràh!
crocchiare



Similitudine

Numerose sono le similitudini contenute nel testo, d'altronde è la figura retorica che con maggiore facilità anche un pubblico non particolarmente colto riesce a individuare facilmente.
sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai
a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto
come una carità che gli facessero
ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno
come un cane
come se qualcuno lo avesse inseguito
come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana
si apriva come un occhio chiaro
come se il sole fosse rispuntato
come in un fresco luminoso oceano di silenzio



Metafora

Segnaliamo anche due metafore, ovvero espressioni che hanno un senso solamente se spiegate metaforicamente, perché altrimenti non avrebbero alcun senso.
oceano di silenzio
gli stava di faccia la Luna



Allegoria

Tre elementi contenuti nel testo rappresentano qualcosa che non viene spiegata direttamente, sebbene ci si può arrivare ugualmente al loro significato.
La luna = speranza
Il buio = la paura
L'esplosione della mina = tristezza e solitudine



Ossimoro

Ciàla sapeva muoversi nel buio delle caverne in modo sicuro anche quando non riusciva a vedere nulla, come se fosse cieco. Le due parole sono in contrapposizione tra loro in quanto non riuscire a vedere all'interno di una miniera potrebbe essere pericoloso e addirittura mortale.
cieco e sicuro
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Ciàula scopre la luna, Luigi Pirandello: riassunto e commento

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Ciàula scopre la Luna è una novella di Luigi Pirandello contenuta nella raccolta "Novelle per un anno" del 1907. Narra la storia di un ragazzo con la paura del buio che vede per la prima volta la luna.





Ciàula scopre la luna: scheda novella

Titolo Ciàula scopre la luna
Autore Luigi Pirandello
Genere Novella
Raccolta Novelle per un anno
Data 1907
Corrente letteraria Verismo
Personaggi Ciàula, Zi' Scarda, Cacciagallina
Luogo In una zolfara della Sicilia
Temi trattati Lo stupore di un giovane affascinato dal bagliore della luna




Ciàula scopre la luna: riassunto

Giunta la sera, i minatori decidono di smettere di lavorare pur non avendo ancora terminato di estrarre il necessario zolfo per la fornace. Ciò fa andare su tutte le furie il loro sorvegliante, Cacciagallina, che, vedendoli intenzionati a svignarsela, impugna una pistola e spara alcuni colpi nel tentativo di farli ritornare nella cave, ma questi tra una spinta e una spallata si fecero strada verso l'uscita e in lontananza si prendevano gioco della sua autorità. L'unico tra i minatori che riuscì a fermare fu Zi' Scarda, un anziano minatore cieco in un occhio che si era lasciato prendere senza nemmeno ribellarsi, rifiutandosi di lasciarsi coinvolgere dalla gioventù irrequieta dei suoi compagni di lavoro. Cacciaguida ugualmente lo rimproverava usando il plurale, come se oltre a lui ci fossero ancora gli altri minatori.
Mentre gli altri tra una pausa e l'altra si accendevano una sigaretta o bevevano del vino, Zi' Scarda aveva sviluppato l'abitudine di far scendere una lacrima dalla sua guancia per trovare conforto nel suo sapore salato, frutto della fatica e della sofferenza quotidiana nel lavoro nelle miniere di zolfo. Nonostante la sua età avanzata lo tenevano ancora lì a lavorare duro anche per onorare la memoria del figlio morto a causa di una mina, lasciando orfani 7 figli e una nuora da mantenere. E non si preoccupava dei rimproveri del suo superiore, dato che anch'egli aveva modo di sfogarsi con qualcuno più debole di lui: Ciàula.
Il garzone dei picconieri, Ciàula, aveva poco più di trent'anni ed era un uomo sciocco e ingenuo, che si esprimeva quasi come gli animali e questo lo portava a essere vulnerabile, però lavorava duramente. Aveva paura del buio della notte, ma non quello delle grotte sotterranee dove passava la maggior parte del suo tempo, bensì del buio della notte che c'era all'esterno della miniera.
Questa paura gli è presa a causa di un tragico incidente del passato, la morte del figli di Zi' Scarda, infatti in quell'occasione si ruppe la sua lumierina. Dunque, la sera in cui rimasero solamente Zi' Scarda e Ciàula a lavorare, il vecchio maltrattava il ragazzo facendogli portare un carico strapieno di zolfo nonostante il giovane gli chiedesse di non continuare ad aggiungerne altro. Il carico avrebbe dovuto portarlo all'esterno della miniera, percorrendo una salita, e solitamente era solito fare questo passaggio facendo il solito verso della cornacchia, ma stavolta non gli veniva bene perché cominciava a sentire la paura del buio esterno. Stavolta però, non fu come quella volta, in quanto Ciaulà aveva trovato conforto nella luce della luna del quale ne rimase affascinato per la sua bellezza. La scoperta della luna lo colpì profondamente, portandolo a versare lacrime senza nemmeno rendersene conto, e ad ottenere anche una sorta di pace interiore.



Analisi e commento

Sebbene il titolo della novella riporta il nome Ciàula e nel testo è scritto con la lettera iniziale maiucola, non è il vero nome del protagonista, bensì il suo soprannome. Ciàula è un termine della lingua siciliana che sta per "cornacchia", infatti il protagonista in certe situazioni imita il verso dell'animale per comunicare, in particolare nelle situazioni disagianti.

La salita di Ciaula fuori dalla caverna è come un nuovo inizio, come una inascita. Uscire all'aria aperta è come liberarsi, lasciando dietro la vecchia vita che metaforicamente rappresentava la morte, ovvero il non vivere. D'altronde, non si può definire vita passare tutto il tempo in un luogo chiuso e perdipiù lavorando. Il buio della notte dava continuità al buio esterno, ma la luce della luna ha spezzato questa catena e ha perfino fatto commuovere Ciàula che, era a conoscenza dell'esistenza della luna, ma non pensava fosse così meravigliosa e in grado di fargli perfino passare la paura del buio notturno.



Descrizione dei personaggi

  • Ciàula: è il protagonista della novella e si tratta di un giovane che aveva più di trent'anni ma secondo l'autore poteva averne sette (forse in riferimento alla sua intelligenza) o settanta (forse in riferimento al suo aspetto). Si esprime imitando il verso della cornacchia e viene maltrattato e sfruttato da tutti in miniera.
  • Zi' Scarda: è il più vecchio minatore della miniera, nonostante sia cieco in un occhio lo lasciano continuare a lavorare per sfamare la famiglia del figlio che è morto a causa di una mina. Tuttavia, nonostante l'età lavora anche meglio di un giovane e ha il passatempo di gustarsi le sue lacrime.
  • Cacciaguida: è colui che dovrebbe controllare i lavoratori che portano a termine il loro compito ma riesce solo a farsi rispettare dal vecchio Zi' Scarda e da Ciàula.
  • Altri minatori: appena finisce la loro giornata lavorativa, pur non avendo completato il compito giornaliero, si allontanano dalla miniera tra risa e scherni verso Cacciaguida.



Ciaula e Rosso Malpelo

Leggendo la novella di Pirandello, non può che ritornare in mente la novella di Giovanni Verga, altro scrittore siciliano, intitolata Rosso Malpelo. Le due novelle presente molti punti in comune ma anche delle importanti differenze.

Ciàula è ingenuo, sporco e lavora dentro una miniera proprio come Malpelo. Tuttavia, Malpelo ha un caratteraccio, invece Ciàula per quanto strano è tutto sommato un tipo tranquillo. Se Ciàula è più simile ad animale addomesticabile, Malpelo viene definito una bestia per la sua natura grezza e anche un po' selvaggia. Inoltre, mentre Ciàula ha paura del buio della notte, Malpelo non ha paura di nulla, nemmeno di perdersi nella labirintica miniera e di morire perché nessuno sarebbe andato a cercarlo.
Vi sono somiglianze anche nel comportamento di alcuni personaggi, infatti Malpelo riceveva le botte e poi le dava a sua volta a Ranocchio. Invece, in questa novella i rimproveri li riceve prima il vecchio Zi' Scarda che a sua volta li dà a Ciàula caricandolo di lavoro.
Un'ultima differenza si ha nel finale della novella, infatti Malpelo si perde nell'oscurità della miniera, dato che di lui non si avranno più notizie; invece, Ciàula trova (in contrapposizione a perdersi) il bagliore della luna (in contrapposizione all'oscurità).
Un'altra differenza riguarda gli altri minatori che, nella novella di Verga rimangono impauriti perlo spirito di Malpelo che si aggira per la miniera, mentre nella novella di Pirandello l'umore degli altri minatori è totalmente opposto: se la ridono e si prendono anche gioco del loro sorvegliante.



Figure retoriche

  • Onomatopea = "Cràh! cràh!"; "crocchiare".
  • Similitudine = "sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai"; "a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto"; "come una carità che gli facessero"; "ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno"; "come un cane"; " come se qualcuno lo avesse inseguito"; "come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana"; "si apriva come un occhio chiaro"; "come se il sole fosse rispuntato"; "come in un fresco luminoso oceano di silenzio".
  • Metafora = "oceano di silenzio"; "gli stava di faccia la Luna".
  • Allegoria = la luna simboleggia la speranza, il buio simboleggia la paura, l'esplosione della mina simboleggia la tristezza e la solitudine.
  • Ossimoro = "cieco e sicuro".
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Figure retoriche: I poeti lavorano di notte di Alda Merini


La poesia di Alda Merini è davvero straordinaria. Il titolo stesso, "I poeti lavorano di notte", suggerisce un contenuto potente. Questa frase descrive il ruolo del poeta come qualcosa di speciale: una persona che si ritira nella notte per scrivere quando il mondo diventa silenzioso.





I poeti lavorano di notte: figure retoriche

In questa pagina trovate tutte le figure retoriche contenute nella poesia I poeti lavorano di notte di Alda Merini. Tra le figure retoriche più rilevanti vi sono la similitudine e la sinestesia. Per ulteriori informazioni vi rimandiamo alla scheda principale dedicata alla poesia I poeti lavorano di notte, con testo, parafrasi, analisi e commento.



Anafora

La prima anafora riprende le parole del titolo nel primo verso v.1 e in parte si ripete nel v.5.
I poeti lavorano

La seconda anafora è una ripetizione dell'avverbio nel v.2 e v.3.
Quando



Allitterazione

Nel v.3 è presente l'allitterazione della consonante L.
il, della, folla



Similitudine

Nei versi vv. 6-7 Alda Merini paragona i poeti agli uccelli della notte.
come falchi notturni od usignoli dal dolcissimo canto



Climax

Il climax ascendente viene usato per descrivere
notte (v.1)
buio (v.5)
silenzio (v.9)



Sinestesia

Nei vv. 10-11 è presente una sinestesia perché il rumore appartiene alla fera sensoriale dell'udito, mentre la cupola che è dorata di stelle appartiene alla sfera sensoriale della vista.
"rumore di una dorata cupola di stelle" (vv. 10-11)



Antitesi

Ai poeti vengono accostate due parole in contrasto tra loro perché dove c'è rumore non può esserci silenzio.
"silenzio" (v.9)
"rumore" (v.10)



Enjambement

Eccovi gli enjambement più evidenti presenti nel testo, ovvero l'interruzione del verso che prosegue nel successivo.
"usignoli / dal dolcissimo canto" (vv. 6-7)
"più rumore / di una dorata cupola di stelle" (vv. 10-11)
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Figure retoriche: Meritamente , però ch'io potei

Meritamente-Foscolo

Il sonetto parla di un amore che è finito, un sentimento così potente che cambia completamente la prospettiva del poeta sul mondo. Le immagini delle onde e del vento rappresentano la sua disperazione profonda. Il poeta si trova in esilio volontario a causa della situazione politica che vede l'ingresso degli austriaci in Italia, ma questo significa anche essere lontano dalla donna che ama e si sente in colpa verso di lei per aver scelto di abbandonarla.





Meritatamente , però ch'io potei: figure retoriche

In questa pagina trovate tutte le figure retoriche contenute nel sonetto Meritatamente , però ch'io potei di Ugo Foscolo. Tra le figure retoriche più importanti individuate nel testo segnaliamo la personificazione e l'anastrofe. Per leggere testo, parafrasi e commento della poesia vi rimandiamo invece alla scheda principale di Meritatamente , però ch'io potei.



Allitterazione

L'allitterazione della R è presente nei primi due versi e serve ad aggiungere una sorta di ruvidezza o asprezza al tema trattato.
"meritatamente, però" (v.1)
"abbandonarti, grido, frementi" (v.2)

L'allitterazione della S è presente nella parte centrale del testo, più precisamente nei versi vv. 4-5. Serve ad accentuare il senso di lamento e tristezza nel testo attraverso il suono sibilante della "S" che crea un'atmosfera di sospensione, malinconia e dolore.
sperdono, soldi, sperai

Negli ultimi due versi è presente l'allitterazione della M e della N.
"speme, amor, ombre, inferne, seguirammi, immortale, onnipotente" (vv. 13-14).



Personificazione

Nel v.4 i venti del Tirreno sono definiti sordi perché disperdono i pianti del poeta senza "sentire" il dolore che egli sta provando.
sordi



Anastrofe

Nel v.4 le due parole sono scritte in ordine invertito, l'ordine corretto sarebbero dovuto essere "i venti del Tirreno".
del Tirreno i venti

Nel v.8 l'ordine delle parole è invertito per attirare l'attenzione sul pronome personale complemento "me" così da rendere più evidente al lettore il suo senso di colpa. Infatti, avrebbe dovuto scrivere "sospirando me", che vuol dire "ansimando me" oppure "rimpiangendomi".
Me sospirando



Anafora

Nei versi v.5 e v.9 viene ripetuto lo stesso verbo all'inizio del verso.
Sperai



Iperbato

Nei vv.10-11 l'aggettivo eterne è riferito alle foreste.
e le eterne ... foreste



Similitudine

Nel v.11 il poeta si paragona a una fiera, termine per molti è noto per il primo canto dell'inferno dantesco, e vuol dire a una bestia selvatica. L'aggettivo dimostrativo "qual" ha la stessa funzione del "come".
qual fiera



Metafora

Nel v.12 è presente una metafora dato che le cose elencate possono consolare il cuore solo metaforicamente parlando, e sempre metaforicamente il cuore è definito sanguinante, ovvero lacerato dalla sofferenza.
Sarien ristoro al mio cor sanguinente



Enjambement

Di seguito trovare i versi e le parole che vengono spezzate per poi continuare nel verso successivo.
"potei / abbandonarti" (vv. 1-2)
"frementi / onde" (vv. 2-3)
"i pianti miei / sperdono" (vv. 3-4)
"queste / rupi" (vv. 9-10)
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Meritamente, però ch'io potei, Ugo Foscolo: parafrasi e commento

poesia-abbandono-amore

Meritamente, però ch'io potei è una poesia di Ugo Foscolo composta nel 1802 apparsa per la prima volta nel "Nuovo Giornale dei Letterati" di Pisa, e successivamente è stata contenuta nella raccolta "Poesie di Ugo Foscolo".





Meritamente, però ch'io potei: schema poesia

Titolo Meritamente, però ch'io potei
Autore Ugo Foscolo
Genere Sonetto
Raccolta Poesie di Ugo Foscolo
Data 1802
Corrente letteraria Romanticismo
Temi trattati Il senso di colpa per aver abbandonato la donna amata




Meritamente, però ch'io potei: testo poesia

Meritamente, però ch’io potei
Abbandonarti, or grido alle frementi
Onde che batton l’alpi, e i pianti miei
Sperdono sordi del Tirreno i venti.

Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
In lungo esilio fra spergiure genti
Dal bel paese ove or meni sì rei,
Me sospirando, I tuoi giorni fiorenti.

Sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
Rupi ch’io varco anelando, e le eterne
Ov’io qual fiera dormo atre foreste,

Sarien ristoro al mio cor sanguinente;
Ahi, vòta speme! Amor fra l’ombre inferne
Seguirammi immortale, onnipotente.



Parafrasi

Giustamente, ora che ho potuto lasciarti, grido alle agitate onde che si infrangono sulle rocce alpine e i miei pianti si disperdono tra i sordi venti del Tirreno. Ho sperato poiché uomini e Dei mi hanno condotto all'esilio tra genti traditrici dall'Italia dove ora tu trascorri i giorni della tua giovinezza rimpiangendomi. Ho sperato invano che il tempo, gli eventi dolorosi e queste rupi che ora attraverso con affanno, e le foreste sempreverdi in cui io dormo come un animale selvatico, fossero di conforto al mio cuore pieno di ferite. Ah, falsa speranza! L'amore onnipotente ed immortale continuerà a seguirmi tra le ombre degli Inferi.



Analisi e commento

Schema metrico: sonetto con rima ABAB ABAB CDC EDE.

Con l'invasione degli austriaci nel Bel Paese, ovvero l'Italia, Ugo Foscolo ha scelto volontariamente l'esilio piuttosto che essere considerato uno straniero all'interno della propria patria, dunque era questo il suo modo di protestare e di ribellarsi per essere in pace con se stesso. Ma qui il tema è un altro, si sta parlando di esilio amoroso, infatti il poeta che si è sentito costretto a lasciare l'Italia ha dovuto anche abbandonare la sua amata. Questa scelta non è vista nemmeno dal poeta stesso come saggia e giusta, ragion per cui inizia il sonetto con l'avverbio "meritatamente", che vuol dire che egli riconosce di meritare questo senso di colpa, per averla lasciata ed essersi allontanato dall'Italia. Il poeta sa che la sua donna sta soffrendo nella sua ancora giovane età per un amore interrotto a causa di circostanze esterne alla loro relazione. Il poeta sperava che il tempo e la nuova vita in un nuovo Paese potessero essergli di conforto e invece non riesce a trovare pace a causa dell'angoscia, il cui animo tormentato è descritte attraverso il mare burrascoso e le onde che vanno a sbattere rumorosamente contro le rocce e poi anche attraverso il vento che è definito sordo nei confronti del suo dolore. Insomma, il poeta ha cullato questa speranza che si è rivelata inutile e sostiene che questo senso di colpa se lo porterà anche dopo la morte, ed egli sa già che verrà collocato negli Inferi, cioè all'inferno, la destinazione di chi in vita ha agito per malvagità. Dunque, questa poesia è un'ammissione di colpa e solitamente si è soliti dire che ammettere le proprie colpe prima di morire è un modo per ottenere la grazia divina ed essere perdonati per i propri sbagli.

Il titolo fa pensare al poeta latino Properzio, mostrando quanto Ugo Foscolo amasse i grandi scrittori del passato. Mentre la donna amata pare possa essere Antonieta Fagnani Arese, una nobildonna milanese per cui il Foscolo scrisse numerosi componimenti. Il luogo scelto da Foscolo per l'esilio volontario pare fosse Nizza, e il periodo pare fosse l'inverno del 1799-1800.



Figure retoriche

  • Allitterazione della R = "meritatamente, però" (v.1) e "abbandonarti, grido, frementi" (v.2).
  • Personificazione = "sordi" (v.4).
  • Allitterazione della S = "sperdono, soldi, sperai" (vv. 4-5).
  • Anastrofe = "del Tirreno i venti" (v.4); "Me sospirando" (v.8).
  • Anafora = "Sperai" (v.5; v.9).
  • Iperbato = "e le eterne ... foreste" (vv. 10-11)
  • Similitudine = "qual fiera" (v.11). Cioè come una bestia selvatica.
  • Metafora = "Sarien ristoro al mio cor sanguinente" (v.12).
  • Allitterazione della M e della N = "speme, amor, ombre, inferne, seguirammi, immortale, onnipotente" (vv. 13-14).
  • Enjambement = "potei / abbandonarti" (vv. 1-2); "frementi / onde" (vv. 2-3); "i pianti miei / sperdono" (vv. 3-4); "queste / rupi" (vv. 9-10).
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I poeti lavorano di notte, Alda Merini: parafrasi e commento

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I poeti lavorano di notte è una poesia della poetessa italiana Alda Merini e che fa parte della raccolta "Destinati a morire".





I poeti lavorano di notte: testo poesia

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere iddio
ma i poeti nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.



Parafrasi

I poeti si dedicano al loro lavoro durante la notte, quando non sono sottoposti alla pressione del tempo, quando non c'è anima viva e finisce il tormento delle ore che passano. Lavorano nell'oscurità come falchi notturni o usignoli che cantano dolcemente, temendo di mancare di rispetto a Dio. Tuttavia, nonostante il loro silenzio, i poeti generano un rumore molto più intenso di una cupola dorata di stelle.



Analisi e commento

La poetessa Alda Meriti ci dà la sua descrizione riguardante la professione del poeta. Secondo Alda, i poeti (proprio come lei) lavorano maggiormente di notte perché è il momento dell'ispirazione poetica in quanto possono beneficiare della quiete e della solitudine per scrivere senza distrazioni esterne. La professione del poeta non ha un orario di lavoro ben definito, sono loro stessi che scelgono quando e quanto scrivere, e come già detto prediligono le ore notturne, proprio come alcuni uccelli che dominano i cieli notturni: il falco e l'usignolo. Il loro lavoro artistico e creativo e così puro ed eccezionale che persino i poeti stessi si preoccupano che quello che stanno facendo possa essere vista da Dio come un'offesa, nel senso che sembra quasi che stiamo emulando il lavoro del padre eterno, ovvero la "creazione del mondo secondo la Genesi". Molto potenti sono i versi conclusivi di questa poesia, nel quale la poetessa spiega che i poeti, pur lavorando nel silenzio, attraverso l'uso delle parole possono creare molto rumore (suscitare polemiche, attirare seguaci, diventare fonte di ispirazione per i lettori) e anche più di un cielo (cupola) nel quale brillano numerose stelle. Né il cielo stellato né i poeti fanno rumore, è solo un modo per dire che entrambi lasciano il segno in chi si imbatte in loro influenzandoli nel profondo.



Figure retoriche

  • Anafora = "I poeti lavorano" (v.1; v.5); "quando" (vv. 2-3).
  • Allitterazione della L = "il, della folla" (v.3).
  • Similitudine = "come falchi notturni od usignoli" (v.6).
  • Climax ascendente = l'intera poesia descrive con un'intensità crescente la professione dei poeti attraverso tre espressioni notte (v.1); buio (v.5); silenzio (v.9).
  • Sinestesia = "rumore di una dorata cupola di stelle" (vv. 10-11). Sfera sensoriale dell'udito e della vista.
  • Antitesi = "silenzio" (v.9); "rumore" (v.10).
  • Enjambement = "usignoli / dal dolcissimo canto" (vv. 6-7); "più rumore / di una dorata cupola di stelle" (vv. 10-11).
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La sposa bambina, Beppe Fenoglio: riassunto e commento

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La sposa bambina è un racconto dello scrittore italiano Beppe Fenoglio che fa parte della raccolta "Un giorno di fuoco" (1963).





La sposa bambina: riassunto

Catinina era una bambina di tredici anni, figlia di genitori che lavoravano al mercato, ed Era conosciuta come "mezza zingara" a causa delle sue origini. Passava le giornate giocando con i suoi amici maschi sotto le tende dei banchi del mercato. Un giorno, mentre stava giocando a biglie, sua madre la chiamò per tornare a casa, interrompendo il gioco.
A casa trova un vecchio con i baffi che sembrava puzzare come il venditore di acciughe, insieme al padre di lei e alla sua sorella maggiore. Pensò che dovevano dei soldi al vecchio, ma in realtà lui era lì per chiederla in sposa per suo nipote, un diciottenne che vendeva stracci. Inizialmente Catinina non è favorevole all'idea del matrimonio, ma è disposta a cambiare idea se l'abito fosse stato di colore rosso. La madre le spiega che l'abito di colore rosso non era adatto per le nozze, ma ci pensa la sorella convincerla ad accettare ricordandole che con il matrimonio ci sono anche tanti confetti, di cui lei ne è evidentemente ghiotta.
Si sposano in chiesa e il pranzo di nozze al ristorante, tutto pagato dal vecchio (il suocero). Verso sera ilgiovane sposo e la sposa bambina partono con il carretto per il viaggio di nozze, che in realtà è un viaggio di lavoro per vendere degli stracci. Durante il viaggio, il marito si arrabbia con lei, prima perché la vede continuamente mangiare delle caramelle e poi per non aver usato il "voi" (in segno di rispetto). Quando giungono a Savona, Catinina vede per la prima volta il mare, ma si allontanano nuovamente da esso perché il parente del marito che dovevano andare a trovare abitava in collina.
Durante la festa, Catinina si diverte, ma non si accorge di trascurare il marito, che è anche geloso nel vederla ridere e scherzare con altri uomini più vecchi. Quando tornano in camera, lui la picchia e poi nella notte non consumano l'unione matrimoniale essendo ancora fisicamente troppo giovane (lo sarà l'anno seguente). Al mattino, Catinina ferita fisicamente e anche psicologicamente chiede al marito (pentito) di voler tornare nella sua casa a Murazzano in quanto si è resa conto a sue spese il prezzo dell'essere di buonumore e ha perso pure la voglia di rivedere il mare. Il giorno dopo, il panettiere di Murazzano disse a Catinina che non poteva lasciare il marito, essendo proprio questa la legge del matrimonio.
Il panettiere convince il marito a fare promesse per migliorare la casa e così vanno ad aggiungersi la luce e il balcone, su specifica richiesta di Catinina. Ma ci volle un anno perché il balcone fosse pronto e nel frattempo Catinina ebbe il suo primo di nove figli. Non si preoccupava molto del neonato e continuava a giocare a biglie proprio come faceva prima. Quando il bambino piangeva, la vicina la chiamava, ma lei rispondeva di voler giocare l'ultima biglia.



Analisi del testo

Il racconto è ambientato nel Piemonte del primo Novecento e le vicende si svolgono soprattutto all'esterno, ad esempio in strada Catinina gioca a biglie e anche il percorso del viaggio insieme al marito; mentre le poche vicende che si svolgono nei luoghi interni, riguarda la casa dove gli propongono il matrimonio e la casa del parente dello sposo nel quale fanno festa.

La storia ha come protagonista Catinina, una bambina di soli tredici anni. Ci sono altri personaggi importanti come lo sposo, la famiglia di Catinina, un vecchio, un parente dello sposo e il panettiere del paese di Murazzano.

Il tema principale di questo racconto è quello delle ragazzine e addirittura bambine, la cui giovinezza è negata in quanto devono sin da giovanissime prendersi cura del marito, ottenuto tramite un matrimonio combinato. Si tratta di una pratica ancora presente in alcuni paesi del mondo, soprattutto nei paesi arabi e asiatici.



Commento

Questo racconto suscita una serie di emozioni contrastanti. Da un lato, c'è la tristezza nel vedere una bambina costretta a sposarsi così giovane per motivi economici o sociali, senza alcuna considerazione per i suoi desideri o la sua felicità. E la convincono ad accettare facendo leva sulla sua ingenuità (tipica dei bambini) e per il fatto che sia semplice da corrompere (con dei confetti).

Dall'altro lato è sconvolgente pensare che una ragazza così giovane debba affrontare una vita così difficile e priva di scelte, e difatti quando ne ha l'occasione riprende a giocare a biglie, non avendo ancora acquisito il senso di responsabilità di una donna adulta che sceglie di sua volontà, insieme al marito, di avere un bambino. Dunque, per lei il figlio è solamente un peso, un fastidio, e non un dono, proprio perché gli è stato imposto.

Quel che crea disturbo e disorientamento al lettore è il modo inquietante in cui gli altri personaggi del racconto (la comunità) accettano passivamente la situazione senza considerare il benessere della ragazza. È un richiamo alla necessità di difendere i diritti fondamentali dei bambini, compreso il diritto a un'infanzia sicura e protetta.
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Classicismo in letteratura: riassunto breve

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Il classicismo è una corrente di pensiero sviluppatosi tra il XVI e il XVII secolo in Europa, che coincide approssimativamente con il Rinascimento italiano.





Classicismo: etimologia e origine

Il termine "classicismo deriva dal latino "classicus", che vuol dire "classico", e con esso s'intende l'atteggiamento culturale e sociale ispirato ai modelli tipici dell'antichità classica, in particolare quelli dell'antica Grecia e dell'antica Roma. Nell'antica Roma i cittadini era suddivisi per censo e i classicus erano coloro che appartenevano alla prima classe ed erano generalmente considerati di livello superiore, almeno per quanto riguarda il punto di vista sociale, morale e intellettuale. Fu usato per la prima volta da Aulo Gellio nel secondo secolo d.C. per indicare autori eccellenti ed esemplari, da prendere a modello.



Caratteristiche del classicismo letterario

Il classicismo letterario è emerso come risposta al Barocco, che era considerato eccessivamente elaborato. Nel classicismo, l'obiettivo era imitare gli antichi come modello da cui trarne ispirazione e ricerca della perfezione.
La poesia classica adotta uno stile elegante, armonioso, chiaro, con parole selezionate con cura e che sono state usate per secoli.
Il classicismo tornò in auge nel tardo Settecento, diventando noto come Neoclassicismo, e si oppose in modo polemico al Romanticismo.



Chi sono i principali esponenti del classicismo letterario?

Gli scrittori latini come Virgilio e Orazio furono tra i primi ad adottare lo stile classico, ispirandosi alla tradizione greca. Nel 1500 in Italia, il Bembo ha creato una sorta di elenco di autori importanti, definendo l'importanza di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa. Con il passare del tempo, questa lista si è ampliata, includendo anche autori come Dante, Ariosto, Tasso, Macchiavelli, Goldoni, Parini, Alfieri, Foscolo, Manzoni, Leopardi.
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Romanticismo in letteratura: riassunto breve

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Il romanticismo è un movimento letterario sviluppatosi alla fine del '700 con lo Sturm und Drang (tempesta e impeto), movimento preromantico di cultura polemicamente ribelle ai precetti del razionalismo illuministico.





Romanticismo: etimologia e origine

Il termine "romanticismo deriva dal sostantivo inglese "romantic", a sua volta da "romance" (romanzesco, non reale, pittoresco), utilizzato verso la metà del XVIII secolo per definire gli elementi caratterizzanti un certo tipo di letteratura. Nel corso del secolo tale significato si è esteso a indicare uno stato d’animo basato su tali caratteri (es. sei una persona romantica!). Infine, negli ultimi decenni dello stesso secolo, il termine si diffuse in Germania, in particolare da Herder che lo usò come sinonimo di "medievale" per distinguere la poesia sentimentale dei moderni da quella tradizionale dell'arte classica.



Come i romantici consideravano il passato?

I romantici esaltano il passato, in particolare il periodo storico del medioevo, che invece non piaceva agli illuministi. I romantici si distinguono dagli illuministi per l'atteggiamento nei confronti dell'antichità, dal momento che non la considerano un modello da imitare, ma una fase storica da conoscere in ogni suo aspetto, avendo come punto di riferimento positivo la Grecia e come esempio negativo, da disprezzare, Roma.



Come i romantici consideravano la Natura?

I romantici hanno esaltato la natura come fonte di sfogo per la disperazione sentimentale e per la malinconia e il senso di solitudine che pervadevano l'animo del poeta romantico. Essi erano affascinati dalla bellezza selvaggia e incontaminata dei paesaggi naturali, e li raffiguravano in modo spaventoso e ocuro per delinearne l'animo tormentato, come ad esempio il mare in tempesta.



L'attenzione assoluta verso l'Io

I romantici davano molta importanza all'Io interiore, cioè alla parte più profonda e individuale di sé stessi. Pensavano che un poeta dovesse esprimersi non seguendo il ragionamento razionale come facevano gli illuministi, ma lasciandosi guidare dall'istinto, dalla passione e dai sentimenti.



L'assoluto e l'infinito

Nel Romanticismo, un tema molto importante è la teorizzazione dell'assoluto, che è come un'infinità che si trova dappertutto, soprattutto nella natura. Secondo un filosofo romantico l'assoluto coincide con la natura e la natura coincide con Dio. Questa idea fa provare all'uomo una forte e costante tensione verso l'immensità e l'infinito.



Generi letterari del romanticismo

I principali generi letterari sviluppatori durante il periodo del romanticismo sono i romanzi e la poesia lirica.
  1. I romanzi diventano molto popolari, specialmente i romanzi storici. In questo periodo, la storia viene vista in modo diverso e si esplorano nuovi approcci, ovvero non seguendo un modello stabilito e adottando un linguaggio medio (parole di uso comune ma non troppo familiari).
  2. La poesia lirica è un tipo di scrittura poetica che spesso viene accompagnata dalla musica. Questi versi esprimevano i sentimenti personali dell'autore e non erano troppo lunghi. Anche se sembra una novità, in realtà seguiva un modello già presente, come i sonetti di Petrarca.



Chi sono i principali esponenti del romanticismo letterario?

Di seguito trovate l'elenco dei principali esponenti del romanticismo letterario (scrittori e poeti):
  • Romantici italiani: Giacomo Leopardi, Ugo Foscolo, Giovanni Berchet;
  • Romantici britannici: Walter Scott, Mary Shelley; George Gordon Byron
  • Romantici francesi: Victor Hugo, Stendhal, Honoré De Balzac;
  • Romantici russi: Aleksander Puškin;
  • Romantici tedeschi: Johann Wolfgang von Goethe;
  • Romantici statunitensi: Edgar Allan Poe, Hermann Melville.
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A Terza, David Maria Turoldo

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A Terza è una poesia di David Maria Turoldo contenuta nella raccolta "O sensi miei".





A Terza: testo poesia

A me un paese di sole
una casa
leggera, un canto
di fontana giù
nel cortile.
E un sedile di pietra.
E schiamazzo di bimbi.
Un po' di noci
in solaio,
un orticello
e giorni senza nome
e la certezza
di vivere.



Parafrasi

Datemi un paese soleggiato, ed una semplice casa in cui stare, dove nel cortile è presente il suono armonioso dell'acqua della fontana, un sedile in pietra e tanti bambini che giocano. Con delle noci nel solaio, un orto da coltivare e dove il passare dei giorni non ha importanza dato che si ha la certezza di vivere.



Analisi e commento

Innanzitutto, cosa significa "A Terza"? È una poesia legata all'orario della vita monacale: a terza sono le nove del mattino. Nella riforma di San Benedetto, i monaci hanno iniziato a pregare in momenti specifici durante il giorno, seguendo il calendario romano. Avevano le preghiere del mattino, chiamate Lodi, subito dopo l'alba, poi Prima, verso le 6 del mattino, seguita da Terza alle 9, Sesta a mezzogiorno, Nona alle 3 del pomeriggio e infine i Vespri al tramonto.

Questa poesia la si può dividere in due parti. Nella prima parte lo scrittore sembra accontentarsi della semplicità: un cielo soleggiato, una casa che non rappresenta un peso (basti pensare a chi la compra facendo un mutuo perché non ha i soldi necessari per comprarla), il suono dell'acqua in movimento di una fontana nel cortile interno della casa, un sedile di pietra (rappresenta il passato, una struttura solida solida che regge nel tempo) su cui potersi sedere per pensare e veder giocare allegramente dei bambini (che rappresentano il futuro), delle noci nel solaio, un orticello. Queste sono tutte cose realizzabili, il poeta non sta chiedendo nulla di impossibile. Tuttavia, nella seconda parte stravolge tutto quando detto prima desiderando cose impossibili come la spensieratezza di vivere senza pensare troppo ai giorni che mancano alla morte.



Figure retoriche

  • Metafora = un paese di sole (v.1).
  • Sinestesia = canto di fontana (vv. 3-4). L'autore combina sensazioni diverse, come il suono della fontana con il movimento dell'acqua.
  • Accumulazione = l'intera poesia è un elenco di cose che desidera il poeta.
  • Ossimoro = "giorni senza nome" (v. 11). I giorni della settimana hanno un nome perché in questo modo è più facile organizzare il tempo e gli impegni, ma il poeta gli attribuisce l'espressione "senza nome", che è in contrasto con l'uso abituale che si fa coi giorni, proprio per sottolineare una ricercata spensieratezza.
  • Enjambement = "una casa / leggera" (vv. 1-2); "un canto / di fontana" (vv. 3-4); "giù / nel cortile" (vv. 4-5); "di noci / in solazio" (vv. 8-9); "certezza / di vivere" (vv. 12-13).
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Una strana gioia di vivere, Sandro Penna

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Una strana gioia di vivere è il titolo della raccolta di poesie di Sandro Penna datata 1949-1955. Di seguito trovate tutti i testi delle 30 poesie dell'autore.



Elenco poesie della raccolta

I
La tenerezza tenerezza è detta
se tenerezza cose nuove dètta.
II
Oh non ti dare arie
di superiorità.
Solo uno sguardo io vidi
degno di questa. Era
un bambino annoiato in una festa.
III
La tua giusta fierezza
per il mio gesto vile
pareva senza asprezza
dorata dal tuo stile.
IV
Come è bello seguirti
o giovine che ondeggi
calmo nella città notturna.
Se ti fernú in un angolo, lontano
io resterò, lontano
dalla tua pace, – o ardente
solitudine mia.
V
O solitario intorno a una fontana.
Il poetico nudo della leva
militare nel tuo cuore ardeva
più che la Venere Botticelliana.
VI
Le stelle mi guardavano se a tratti
socchiudevano gli occhi come fanno i gatti.
VII
Era la vita tua lieta e gentile.
Quando a un tratto arrivò, gonfio d'amore,
un lombrico vestito da signore.
E' quieta la tua vita e senza stile.
VIII
Il ciclista polverosa
castità offre alla sposa.
IX
Passando sopra un ponte
alto sull'imbrunire
guardando l'orizzonte
ti pare di svanire.
Ma la campagna resta
piena di cose vere
e tante azzurre sfere
non valgono una festa.
X
Tra due malandri in fiore
deriso era il mio cuore.
Nel sonno al loro viso
perdonai con amore.
XI
Il fanciullo magretto torna a casa
un poco stanco e molto interessato
alle cose dell'autobus. Pensa
– con quella luce che viene dai sensi
dai sensi ancora appena appena tocca –
in quanti modi adoperar si possa
una cosa ch'è nuova e già non tiene
se inavvertito ogni tanto egli tocca.
Poi si accorge di me. E raffreddato
si soffia il cuore fra due grosse mani.
lo devo scendete ed è forse un bene.
XII
Della romantica tuta
oh non amai solo la scorza.
Ma proprio la dolcezza ch'è sperduta
fra le montagne della forza.
XIII
Per averlo soltanto guardato
nel negozio dove io ero entrato
sulla soglia da dove egli usciva
è rimasto talmente incantato
con gli occhi tonti ferma la saliva
che il più grande gli fece: Hai rubato?
Poi ne ridemtno insieme tutti e tre
ognuno all'altro tacendo un perché
uniti da quell'ultimo perché
che lecito sembrava a tutti e tre.
XIV
Un po' di pace è già nella campagna
L'ozio che è il padre dei miei sogni guarda
i miei vizi coi suoi occhi leggeri.
Qualcuno che era in me ma me non guarda
bagna e si mostra negligente: appare
d'un tratto un treno coi suoi passeggeri
attoniti e ridenti – ed è già ieri.
XV
La luna ci guardava assai tranquilla
al di là dello schermo ov'egli attento
seguiva le incredibili vicende
col suo profilo di bambino, caro
.a quella luna già, ma assai lontano
solo mezz'ora prima…
XVI
Un amore perduto quanta gioia
di nuove sensazioni in me sorprende.
Ma l'amore è perduto.
E la pena riprende.
XVII
Cercando del mio male le radici
avevo corso tutta la città.
Gonfio di cibo e d'imbecillità
tranquillo te ne andavi dagli amici.
Ma Sandro Penna è intriso di una strana
gioia di vivere anche nel dolore.
Di se stesso e di te, con tanto amore,
stringe una sola età – e te allontana.
XVIII
Oh se potessi io lo compererei.
Solo cosi forse mi calmerei.
XIX
Dacci la gioia di conoscer bene
le nostre gioie, con le nostre pene.
XX
Notte bella, riduci la mia pena.
Tormentami se vuoi. ma fammi forte
XXI
Ma insieme a tanto urlare di dolore,
te scomparso del tutto dai miei occhi,
perché restava in me tanto fervore
ch'io posavo ogni giorno in altri occhi?
Rimase in me di te forse una scia
di pura gioventù se tu scomparso
dalla mia scena la malinconia
restava come neve al sol di marzo?
XXII
Se l'inverno comincia sulle calde
e sporche mani un odore di arance
al quieto sole della festa arde
nell'aria come qualcosa che piange
XXIII
«Cullo una solitudine mortale
nel mortale mattino, che da sempre… »
Il verso dell'amico si era imposto
da qualche giorno. Il fiume, come un olio
lucido e calmo nello stanco agosto…
Forse mia madre era perduta. Solo
lucido e calmo mi era intorno, specchio
a quello specchio nell'ampio silenzio,
quegli che poi doveva il mio silenzio
– già triste come di un lontano assenzio –
rompere con tanto mio consenso…
(Il suo odore, la sera, come un cane
sporco e fedele dopo le campane).
Notte d'inverno, la tua dolce boria
fa lontana, fa buffa questa storia.
XXIV
Un dì la vita mia era beata.
Tutta tesa all'amore anche un portone
rifugio per la pioggia era una gioia.
Anche la pioggia mi era alleata.
XXV
Con il cielo coperto e con l'aria monotona
grassa di assenti rumori lontani
nella mia età di mezzo (né giovane né vecchia)
nella stagione incerta, nell'ora più chiara
cosa venivo io a fare con voi sassi e barattoli vuoti?
L'amore era lontano o era in ogni cosa?
XXVI
Il gatto che attraversa la mia strada
o bianco o nero stasera mi aggrada.
Ma non mi aggradi tu stanca puttana:
chiuditi con un altro nella tana.
XXVII
Come è bella la luna di dicembre
che guarda calma tramontare l'anno.
Mentre i treni si affannano si affannano
a quei fuochi stranissimi ella sorride.
XXVIII
E l'ora in cui si baciano i marmocchi
assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. lo, mostro da niente.
XXIX
Come è forte il rumore dell'alba!
Fatto di cose più che di persone.
Lo precede talvolta un fischio breve,
una voce che lieta sfida il giorno.
Ma poi nella città tutto è sommerso.
E la mia stella è quella stella scialba
mia lenta morte senza disperazione.
XXX
La rosa al suo rigoglio
non fu mai cosi bella
come quando nel gonfio orinatoio
dell'alba amò l'insonne sentinella.
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Amavo ogni cosa del mondo, Sandro Penna

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Amavo ogni cosa del mondo è una poesia di Sandro Penna così breve da essere composta solamente da due versi ma carichi di intensità.





Testo poesia

Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo
che il mio bianco taccuino sotto il sole.



Analisi e commento

Il poeta dice di amare tutto ciò c'è nel mondo, dunque fa riferimento perfino alle cose più piccole e che potrebbero sembrare insignificanti alle altre persone. Si tratta di un amore puro e sincero che però è rivolto al passato (andavo) attraverso l'uso del tempo imperfetto del modo indicativo e questa non è una scelta ben precisa. L'imperfetto, infatti, viene spesso utilizzato per descrivere azioni passate abituali, ricorrenti o in corso, in contrasto con il passato remoto che indica azioni finite e concluse. Nel secondo verso continua ad esaltare la semplicità, con l'immagine di un taccuino bianco e quindi ancora vuoto (non ancora scritto) che è posato in un posto, probabilmente all'esterno, in un punto in cui arrivano i raggi del sole. Dunque, il poeta vuole dirci che gli basta l'amore per la poesia e un senso di benessere interiore, perché quando si ama si sta bene anche con se stessi, e poi la luce del sole per scrivere nuove poesie proprio come fatto per questa.



Figure retoriche

  • Iperbole = "Amavo ogni cosa nel mondo" (v.1). Si tratta di un'esagerazione, dato che non si può amare ogni cosa (per esempio l'odore della puzzola, gli escrementi di un topo, e inoltre nel mondo ci sono cose di cui nemmeno siamo conoscenza, pertanto non può sapere se le ama oppure no).
  • Antitesi = il primo verso è in antitesi con il secondo, nel primo verso vi è il tutto (ogni cosa), nel secondo verso vi è limitatezza (non avevo che).
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Il nome, Cesare Pavese: riassunto e commento


Il nome è il titolo di un racconto di Cesare Pavese contenuto nella raccolta Feria d'agosto.





Il nome: riassunto

Il racconto è narrato in prima persona, dunque il protagonista potrebbe essere l'autore stesso (Cesare Pavese). Egli ricorda vagamente i suoi compagni di avventure di un tempo, ma un nome che non potrà mai dimenticare è quello di Pale (diminutivo di Pasquale). Pale è noto per essere disubbidiente nei confronti dei suoi genitori e perché scappa di casa quando suo padre lo punisce, per poi fare ritorno solo dopo alcuni giorni per evitare ulteriori punizioni. La madre di Pale lo rimprovera pubblicamente, dando vita a scene di conflitto udibili in tutto il paese. Tuttavia, era usanza tipica delle madri quella di richiamare i propri figli urlando anche a grande distanza.
Il narratore, insieme a Pale, passa un giorno alla ricerca di una vipera nelle colline circostanti. Dopo una lunga e infruttuosa ricerca, Pale si ferma improvvisamente davanti a un roveto e sussurra qualcosa, nel mentre sentono l'urlo della madre di Pale proveniente dal paese che lo chiama ripetutamente. Temendo che la vipera possa venire a conoscenza del nome di Pale, i due decidono di interrompere la ricerca e fuggire. Durante la corsa, i due gridano "vipera!" per divertimento, ma il protagonista non era spaventato da essa bensì sentiva il senso di colpa per aver offeso la natura.
Alla fine della giornata, i due si siedono sul ponte, dove il protagonista chiede a Pale perché non risponda alle chiamate della madre. Pale risponde in modo evasivo. Subito dopo gli chiede anche se è vera la diceria che se la vipera sente un nome, poi lo va a cercare. Pale spiega che la vipera, secondo lui, desidera solo attaccare coloro che la cercano e non importa se chi la stava cercando fosse un bravo ragazzo. Il racconto si conclude con il narratore che si avvia verso casa e Pale che resta da solo sul ponte.



Commento

La vita dei giovani di un tempo era piena di avventure, erano liberi di allontanarsi da casa a patto che avvertissero i loro cari prima di uscire e che tornassero sempre per l'ora stabilita, in genere quella di pranzo o di cena. Nulla a che vedere con oggi dove i giovani sono cullati dai propri genitori. Certo, sicuramente non è bello leggere che uno dei ragazzini veniva picchiato dai suoi genitori, quindi, ogni generazione ha la sua croce. Se si sono fatti (forse) passi avanti sugli abusi, forse se ne sono fatti alcuni indietro per quanto riguarda il responsabilizzare i giovani. Il tema principale del racconto però è un altro: la ricerca della vipera!
Si tratta di un gioco, o forse sarebbe meglio chiamarla prova di coraggio, nel quale dei ragazzini vanno per le campagne sollevando sassi e legni e frugando tra le foglie in cerca di una vipera. Perché proprio la vipera? La vipera è un serpente, pertanto fa già paura così com'è, ma è anche velenoso. Ed è proprio la paura, che tra l'altro trovano eccitante quando si mettono in fuga, a spingerli a scegliere questo tipo di gioco.
Ciò che mi ha colpito in questa poesia non è tanto il gioco della vipera, in fondo, chi più chi meno ha provato eccitazione in qualche gioco giovanile pericoloso rischiando anche di farsi male, ad esempio scendere le scale con la bici, salire su un palo, fare un salto da un alto muretto e così via. Dunque, quel che mi ha colpito è il modo in cui Pale snobba il richiamo dei genitori come se si trovasse meglio lontano da loro, come se avesse le idee chiare (almeno nella sua testa), per esempio quando dice «Cosa vuoi che capiscano le donne», dove si riferisce a sua madre classificandola come donna e in quanto tale un essere inferiore non in grado di comprendere.
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Il vecchio muratore: poesia di Gianni Rodari


Il vecchio muratore è una poesia di Gianni Rodari che descrive la condizione di un lavoratore, nel caso specifico quella di un muratore, che si riscopre vittima dell'ingiustizia della società.





Il vecchio muratore: testo poesia

Ho girato mezzo mondo
con la cazzuola e il filo di piombo,
ho fabbricato con le mie mani
cento palazzi di dieci piani:
tutti in fila li vedo qua
e mi fanno una grande città.
Ma per me e per la mia vecchia
non ho che questa catapecchia.
Sono di legno le pareti,
le finestre non hanno vetri
e dal tetto di paglia e di latta
piove in tutta la baracca.
Dalla città che ho costruito,
non so perché sono stato bandito.
Ho lavorato per tutti: perché
nessuno ha lavorato per me?



Analisi e commento

Fino a qualche tempo fa chi praticava la professione di muratore veniva sfruttato, cioè spesso lavorava senza essere messo in regola (lavoro in nero, senza contributi) oppure era costretto a lavorare più ore rispetto a quelle per cui era pagato, senza invece ottenere un compenso extra per le ore di straordinario, e poi era anche un mestiere con scarse o assenti misure di sicurezza. Adesso la situazione è decisamente migliore, almeno per quanto riguarda la sicurezza e lo stipendio.

Le competenze dei muratori sono fondamentali per la creazione e il mantenimento delle infrastrutture di base di una comunità, tra cui case, scuole, ospedali, strade e altro ancora. Fatta questa breve premessa, adesso andiamo a spiegare nel dettaglio il testo di questa poesia dal sapore amaro.

La poesia viene raccontata in prima persona da un vecchio muratore che per lavoro ha dovuto viaggiare in diverse parti del mondo portando con sé la sua attrezzatura (cazzuola e filo di piombo) e che ha costruito centinaia di edifici, anche di dieci piani, e adesso si trova nel luogo esatto dove ne ha costruiti così tanti a schiera che sembra che la città l'abbia creata lui partendo da zero.
Tuttavia, egli e sua madre (la mia vecchia) continuano a vivere in una catapecchia, realizzata con materiali economici e così malridotta al punto che quando piove l'acqua entra dentro.

Dunque, il vecchio muratore si chiede come sia possibile che dopo aver costruito un'intera città sia stato messo ai margini (bandito) da essa, ovvero perché tutti adesso possiedono un'abitazione nuova mentre lui è rimasto con quella che ha sempre avuto fin dall'inizio? E termina la poesia con un ulteriore domanda che fa riflettere sulle disparità economiche e sociali: perché se lui ha pensato di costruire la casa per tutti, nessuno ha pensato di costruire la casa a lui?

Il drammatico finale è dovuto allo stile di vita dei muratori, e dei lavoratori più umili e sfruttati dell'epoca. Essi lavoravano alla giornata, dunque guadagnavano il sufficiente per vivere, ma non abbastanza per acquistare una nuova casa, e pur avendo le capacità per costruirsela da soli, non avevano il tempo per realizzarla dato che il loro tempo lo dedicavano interamente al lavoro. C'è anche da mettere in conto che con gli anni i soldi accumulati tendono ad avere un potere d'acquisto inferiore, ecco perché molti cercano di investirli in qualcosa. Ovviamente la poesia tende ad esagerare la triste vita del vecchio muratore… ma con le dovute proporzioni può essere paragonata a quella del pensionato che, dopo tanti anni di lavoro può finalmente smettere di lavorare e godersi la pensione, ma la pensione è così bassa da non riuscire ad arrivare a fine mese ed è costretto a continuare a lavorare o a chiedere aiuto.
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La neve, Attilio Bertolucci: testo, parafrasi, commento

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La neve è una poesia di Attilio Bertolucci contenuta nella raccolta "Lettera da casa" del 1951.





La neve: testo poesia

Come pesa la neve su questi rami
come pesano gli anni sulle spalle che ami.

L’inverno è la stagione più cara,
nelle sue luci mi sei venuta incontro
da un sonno pomeridiano, un’amara
ciocca di capelli sugli occhi.
Gli anni della giovinezza sono anni lontani.



Analisi e commento

Schema metrico: due strofe, la prima di due versi e la seconda di cinque versi. Nella prima strofa la rima è baciata (rami / ami), nella seconda strofa è solo in un caso alternata (cara / amara).

In questa poesia il poeta sembra affrontare il tema dello scorrere inesorabile del tempo e dei suoi effetti sulle persone e sulle cose. È ambientata nella stagione invernale e lo possiamo intuire sia dal titolo (la neve), sia leggendo i primi versi del testo nel quale la neve sugli alberi va appesantendo i loro rami, sia dal poeta stesso che la identifica come la sua stagione preferita. Dunque, la stagione invernale viene vista in modo dolce (caro) perché gli rievoca il piacevole ricordo di quando un pomeriggio si era appisolato ed è stato risvegliato dalla sua amata con le ciocche di capelli che sfioravano i suoi occhi ancora chiusi. Ma si tratta anche di una stagione complicata (amara), perché gli anni della giovinezza sono ormai lontani, quindi si vive di ricordi e poi perché non la si vive con leggerezza, ma proprio come quei rami che devono sostenere il peso della neve. In altre parole, il peso della neve rappresenta il peso degli anni che passano e diventano sempre più pesanti e gravano anche sulle persone che amiamo (spalle che ami), cioè sui familiari e nel suo caso la moglie.



Figure retoriche

  • Anafora = "come" (vv. 1-2);
  • Metafora = "pesano gli anni sulle spalle" (v.2);
  • Sinestesia = "un'amara ciocca di capelli" (vv. 5-6);
  • Enjambement = "un'amara / ciocca" (vv. 5-6).
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Felicità raggiunta, Eugenio Montale: parafrasi, analisi, commento

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Felicità raggiunta è una poesia scritta da Eugenio Montale nel 1925 e contenuta nella raccolta poetica Ossi di seppia.





Felicità raggiunta: scheda poesia

Titolo Felicità raggiunta
Autore Eugenio Montale
Genere Poesia
Raccolta Ossi di seppia
Data 1925
Corrente letteraria Ermetismo
Temi trattati Lo stato d'animo e sentimento di felicità




Felicità raggiunta: testo poesia

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e' dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.



Parafrasi

Felicità raggiunta, si cammina per te sul filo del rasoio.
Agli occhi sei una debole luce che può spegnersi da un momento all'altro, per il piede sei fragile come un sottile strato di ghiaccio che si incrina facilmente; pertanto è bene che chi tiene a te non ti sfiori nemmeno.
Se giungi sulle anime di tristezza e le illumini, il tuo sorgere (della felicità) è dolce e suscita un senso di commozione come i nidi sui cornicioni (cimase) delle case.
Ma nulla può ricompensare il dolore del bambino a cui sfugge il pallone tra le case.



Analisi e commento

Schema metrico: Due strofe di cinque versi per maggioranza in endecasillabi con rima ABCAB DEDED.

Il poeta ci descrive la sensazione che si prova quando si è raggiunto la felicità, cioè quello stato d'animo che regala piena soddisfazione. Sogniamo tutta la vita di essere felici, ma cosa è realmente la felicità? I soldi? La salute? L'amore? Ѐ un mix di tutto questo o niente di tutto questo? Montale ci avverte dicendo che quando si è felici bisogna stare molto attenti, perché la felicità è difficile da ottenere e basta poco per perderla e il poeta descrive questo rischio usando un detto popolare simile a "camminare sul filo del rasoio", oppure che è "una luce fioca e incerta" che può spegnersi da un momento all'altro e lasciarci nel buio totale, oppure come uno strato di "ghiaccio molto sottile" su cui si sta camminando ma a ogni passo si vanno formando delle crepe aumentandone il rischio di cadere nell'acqua gelata.
Poi continua dicendo l'effetto che fa la felicità sulle persone che fino a un momento prima erano infelici: la felicità illumina le loro anime in modo dolce e questa sensazione ricorda la serenità di un nido posizionato su un cornicione di una casa.
E infine descrive la perdita della felicità di un bambino, forse perché i bambini sono delle creature semplici rispetto agli indecifrabili adulti che non sanno nemmeno cosa vogliono e cosa fare per essere felici. A un bambino basta davvero poco per essere felice, come ad esempio possedere un pallone, con cui poter giocare da solo o coi propri amici, e niente lo può rendere più infelice del farlo finire accidentalmente all'interno di una abitazione, che equivale a perdere il pallone dato che all'epoca significava che glielo avrebbero sequestrato, bucato, in quanto far cadere un pallone in un'abitazione voleva dire danneggiare l'orto (fiori, ortaggi ecc.), rompere o sporcare qualcosa, dunque creare un danno e ricevere un rimprovero dal proprietario della casa e una punizione dai propri genitori per aver giocato in quell'area. In fondo, il bambino voleva solamente giocare, ma chi ha giocato a pallone in strada dovrebbe saperlo, il pallone rimbalzando può finire ovunque e anche nelle abitazioni. Il bambino è legato al pallone, perdere il pallone è una disgrazia per un bambino in quanto sa che non ne rivedrà un altro per molto tempo (quel pallone se lo era in un certo senso guadagnato). L'insegnamento che vuole darci il poeta è quello di non attaccarci troppo alla felicità essendo fragile, instabile, vacillante ecc.

Secondo Montale la vita è un mistero che non capiamo davvero. Per Montale, la felicità è quando riesce a creare vera poesia, quel momento di ispirazione poetica improvvisa; ma quando non riesce a cogliere l'essenza di qualcosa, sente che non è più poesia e questo lo fa soffrire come un bambino che perde il pallone tra le case. Per il poeta la vera felicità risiede nel desiderio, non nell'avere, poiché la realtà può annullarla. La felicità non ha confini e il piacere viene dalla fantasia, non dalle cose possedute. Inoltre, Montale suggerisce che la felicità è legata al passato, non al futuro.



Figure retoriche

  • Metonimia = "si cammina per te sul fil di lama" (vv. 1-2); "sei barlume che vacilla" (v. 2); "teso ghiaccio che s’incrina" (v.3). Questi versi sottolineano quanto sia fragile la felicità, dunque il concreto per l'astratto.
  • Allitterazione della T = "felicità raggiunta" (v.1); te (v.2).
  • Ossimoro = "dolce e turbatore" (v.8).
  • Similitudine = "come i nidi delle cimase" (v.8).
  • Enjambement = "si cammina / per te" (vv. 1-2); "invase / di tristezza" (vv. 6-7); "il tuo mattino / è dolce" (vv. 7-8).
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Alle fronde dei salici, Salvatore Quasimodo: parafrasi e commento

salice-piangente-poesia

Alle fronde dei salici è una poesia di Salvatore Quasimodo scritta nel 1946 e contenuta nella raccolta "Giorno dopo giorno".





Scheda poesia

Titolo Alle fronde dei salici
Autore Salvatore Quasimodo
Genere Poesia
Raccolta Giorno dopo giorno
Data 1946
Corrente letteraria Ermetismo / Neorealismo
Temi trattati L'atrocità della guerra e l'invasione straniera




Testo poesia

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo telegrafo?
alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.




Parafrasi

In che modo noi poeti potevamo continuare a comporre poesie con l'invasione straniera nel suolo italico, con i morti abbandonati nelle piazze, sparsi sull'erba ghiacciata, col pianto innocente dei bambini, con l'urlo disperato della madre in cerca del figlio morto appeso al palo del telegrafo? Anche le nostre cetre, erano appese leggere ai rami dei salici, per un voto di silenzio, oscillando mosse dal vento angoscioso.



Analisi del testo e commento

Schema metrico: endecasillabi sciolti

La lirica è tra le più famose di Quasimodo, se non addirittura la più famosa, e si distacca leggermente allo stile dell'ermetismo per lasciarsi trasportare da quello nel neorealismo, dato che affronta il tema della narrativa di guerra e della resistenza.
Durante la seconda guerra mondiale, ci fu un periodo, compreso fra l'8 settembre 1943, inizio dell'occupazione tedesca in Italia (i tedeschi erano ex alleati dell'Italia), e il 25 aprile 1945, fine della guerra, in cui i poeti si sentivano soffocati dagli orrori della guerra che straziavano il paese e non riuscivano trovare ispirazione per scrivere poesie.

Dunque, la poesia inizia con la congiunzione "E", come se il poeta stesse riprendendo un discorso precedentemente sospeso, e si rivolge ai lettori. Inoltre, utilizza il plurale, perché vuole dare voce a tutta la categoria di poeti. Egli spiega che per i poeti era difficile continuare a comporre poesie dopo aver visto le conseguenze dell'oppressione straniera, anche se il poeta non fa alcun riferimento diretto al nazismo. Ma a cosa avevano assistito i poeti? Beh, la storia del nazismo, la conosciamo tutti: soldati tedeschi che torturavano e deportavano, senza fare alcuna distinzione fra donne e bambini (paragonati agli agnelli, simbolo di innocenza), di conseguenza il pianto delle loro madri con il cuore a pezzi, e nel testo viene riportato un episodio di una madre che vedendo il proprio figlio appeso a un palo del telegrafo (rievocando la crocifissione di Gesù) emette un urlo nero (cioè carico di dolore, essendo questo il colore del lutto) e poi i morti abbandonati nelle piazze e sull'erba che descrive come con l'aggettivo "dura di ghiaccio", cioè indurita dal gelo, dato che il 1944 ebbe un inverno molto rigido, ma anche perché sono immagini agghiaccianti.

Vi sono anche riferimenti biblici, in particolare al Salmo 136, nel quale viene narrato che gli antichi ebrei erano stati deportati come schiavi in esilio a Babilonia (586 a.C) e appesero ai rami dei salici le loro cetre con cui in patria erano soliti accompagnare i canti e le preghiere. Le appendevano come un gesto di speranza, nell'attesa che la guerra finisse e questa è una scena di silenzio che si contrappone alle urla e ai pianti di sofferenza e di dolore.



Figure retoriche

  • Allitterazione della R = "cantare, straniero, sopra, cuore, fra, morti" (vv. 1-3).
  • Metonimia = "piede straniero" (v.2); sopra il cuore (v.2). Rispettivamente l'oppressione dei soldati tedeschi e l'amore per la propria terra. Dunque, il concreto per l'astratto.
  • Analogia = "lamento d’agnello dei fanciulli" (vv. 4-5), animale simbolo dell'innocenza; "sull’erba dura di ghiaccio" (v.4), riferimento allo scenario che fa rabbrividire.
  • Personificazione = "triste vento" (v. 10).
  • Sinestesia = "urlo nero" (v.5), è il colore della morte.
  • Enjambement = "cantare con il piede straniero" (vv. 1-2); "lamento / d’agnello" (vv. 4-5); "urlo nero / della madre" (vv. 5-6); "al figlio / crocifisso" (vv. 6-7).
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Figure retoriche: Marzo di Giorgio Caproni

marzo-poesia

Cessata la pioggia tutto appare diverso, gli odori, i colori... d'altronde è una tipica pioggia del mese di marzo, dove pur essendoci un clima primaverile può capitare qualche acquazzone che svanisce subito per poi fare nuovamente spazio al sole splendente.





Marzo: tutte le figure retoriche

In questa pagina trovate tutte le figure retoriche contenute nella poesia Marzo di Giorgio Caproni. Tra queste la più importante è certamente la personificazione che dona vitalità all'opera. Invece, per quanto rigarda testo, parafrasi e commento vi rimandiamo alla scheda principale.



Metafora

I primi due versi della poesia (vv. 1-2) vanno a formare una metafora perché la terra non è un frutto appena sbucciata, nemmeno dopo che ha smesso di piovere. Non si tratta di una similitudine perché è priva del "come", e questa frase ha senso solo metaforicamente dato che si riferisce ai suoi intensi odori.
la terra è un frutto appena sbucciato



Personficazione

La prima personificazione si trova al verso v.3 dove dice che il fieno ha il fiato, ma si sta riferendo all'odore del fieno bagnato, e non all'aria che fuoriesce dalla bocca.
fiato del fieno

Nel v.4 la personificazione riguarda la risata del sole, nel senso che è splendente, quasi come se si stesse burlando della pioggia visto che andrà ad asciugare tutto quanto ha bagnato in precedenza, incluso la terra e il fieno.
ride il sole



Sinestesia

Nei versi 3-4 è presente una sinestesia perché si fa confusione tra olfatto (odore di bagnato) e gusto (sapore acre).
il fiato del fieno bagnato è più acre



Enjambement

Alcuni versi vengono interrotti per poi continuare in quello seguente. Questa figura retorica è chiamata enjambement.
"la terra / è un frutto" (vv. 1-2)
"Il fiato del fieno bagnato / è più acre" (vv. 3-4)
"il sole bianco" (vv. 4-5)
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