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Taci, anima stanca di godere: parafrasi, analisi, commento - Camillo Sbarbaro



Testo

Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato...
Invece camminiamo.
camminiamo io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne, e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.



Parafrasi

O anima stanca di provare piacere e di soffrire (ti accosti rassegnata a queste due sensazioni, ormai), stai zitta.
Se ascolto non sento nessun suono da parte tua: né di rimpianto per la giovinezza degna di commiserazione, né una voce d'ira o di speranza, e neppure una voce che dichiari la tua insofferenza.
Giaci, sei abbattuta come il tuo corpo, ammutolita, in una rassegnazione senza speranze.
Non ci stupiremmo, anima mia, non è vero, se il cuore si fermasse, se ci fosse interrotto il respiro...
E invece procediamo, io e te avanziamo come sonnambuli.
E le piante sono piante, e gli edifici sono edifici, le donne che transitano sono donne, e tutto ciò che si vede è solamente ciò che è.
Questo alternarsi di felicità e di patimento non ci sfiora.
Gli incanti, le cose affascinanti e meravigliose del mondo non ci dicono più nulla, e il mondo è una immensa distesa arida. In questo deserto io osservo, con occhi asciutti di pianto, il mio essere.



Analisi del testo


Temi: l'alienazione come sentimento di estraneità da tutto, l'io ridotto a cosa e il mondo ridotto a deserto, la rassegnazione di fronte a tale condizione.

Anno: 1914.

Schema metrico: versi liberi, con prevalenza di endecasillabi; vi sono settenari, qualche novenario e altre misure più brevi.


In questo componimento si trovano i temi fondamentali della poesia di Sbarbaro e la sua tipica disposizione di fronte alla realtà. Il poeta stabilisce una sorta di colloquio interiore con la propria anima (notare il vocativo al verso 12), invitandola al silenzio, perché incapace oramai di reagire di fronte alle cose.

Taci = già questo "taci" nasce da uno sconfinato bisogno di non alzare mai la voce, in un libro dove il poeta vorrebbe confidarsi all'anima in tono estremamente basso. Di qui il titolo Pianissimo dato alla raccolta, di cui questo è il primo componimento.

L'anima, insensibile alla gioia e al dolore, stanca di ogni esperienza, tace, e neppure il mondo parla più al poeta; ne deriva la rassegnazione disperata del v. 10.

Muta e inerte, l'anima non esprime più alcun sentimento vitale, né per il passato (il «rimpianto»), né per il futuro (la «speranza»), né per il presente, sia come reazione critica (l'«ira») sia come ripiegamento impotente (il «tedio»).

L'anima è diventata pesante come il corpo e l'uso del verbo "giacere" (v. 8) indica l'abbattimento dell'uomo nella sua totalità, non senza una affettuosa, anche se dolente, solidarietà, sottolineata dal passaggio, nella strofa successiva, alla prima persona plurale (con ulteriore specificazione, al v. 16, dell'«io e te»).

A questo punto la vita diventa simile alla morte, né ci sarebbe da stupirsi se le funzioni vitali (il «cuore», il «fiato») si arrestassero e venissero meno. Tuttavia l'esistenza continua (si noti l'avversativa «Invece», in apertura di verso, in questa sua dimensione, paradossalmente, prima di vita: il verbo «camminiamo» del v. 15, ripetuto più volte all'inizio del verso successivo, indica non solo la monotonia ripetitiva delle azioni quotidiane, ma anche lo sforzo faticoso necessario per compierle  (la ripresa, preceduta dalla virgola che spezza il ritmo del verso precedente, sottolinea la durata lenta e faticosa del movimento). L'uomo è ridotto a sonnambulo, a spettatore estraneo della propria vita (v. 16), che si limita a riprodurre i gesti meccanici di un automa (= marionetta, tema della letteratura del Novecento).

I termini «gioia» e «dolore» (che riconducono la situazione a quella dei versi iniziali) ribadiscono l'estraneità dell'uomo nei confronti del mondo; un mondo che a perso le sue lusinghe (il canto delle sirene, in senso metaforico), riconducendosi a un assoluto silenzio, che è l'equivalente della morte.

Questo senso di vuoto e di estraneità si cristallizza nell'immagine del «deserto», il cui termine appare isolato nel v. 24, quasi a sottolineare il vuoto che lo circonda e l'impossibilità di colmarlo.

Gli «asciutti occhi» indicano l'incapacità di piangere (o l'esaurimento di tutte le lacrime), che chiude la poesia nel segno di una totale aridità.

L'affanno del vivere è visibile oltre nei versi 15-16 («camminiamo / camminiamo») e alla tautologia (= affermazione vuota di informazioni aggiuntive) dei versi 17-20 («gli alberi son alberi, le case son case...») anche nella parte finale, che resta dolorosamente stupita e sorpresa (vv. 23-25: «la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto»).



Figure retoriche

Similitudine = giaci come il corpo (vv. 8-9). Il paragone con il corpo mette in evidenza l'immagine della resa; vi è l'abbattimento quasi fisico dell'anima.

Ossimoro = rassegnazione disperata (v. 10). Sono due concetti contrari, la rassegnazione ci porta alla staticità, il disperato e alla ricerca di una soluzione quindi è dinamico.

Similitudine = come sonnambuli (v. 16). Inteso come spettatore della propria vita.

Metafora = perduto ha la voce la sirena del mondo (v. 22-23). È una creatura leggendaria che non può perdere la voce in quanto non esiste, ma in questo caso s'intendono le lusinghe.

Metafora = il mondo è un grande deserto (vv. 23-24). Per deserto s'intende la vita.

Anastrofe = asciutti occhi (v. 26). La posizione dell'attributo e del sostantivo è invertita.

Enjambement = vv. 1-2; 5-6; 8-9; 9-10; 12-13; 13-14; 17-18; 18-19; 19-20; 21-22; 22-23; 23-24; 25-26.



Commento

Parla dell'apatia di un uomo e della sua anima, stanca di sentire, sia in bene che in male, che è muta, non ha rimorsi né rimpianti ma è immobile. Nella seconda parte il poeta mette in ballo anche il corpo, se all'interno tutto è morto, il corpo continua a vivere e si rammarica di questo perché rappresenta una prigione dove lui è costretto a vagare senza meta né ambizione.
Alla fine anche il mondo esterno perde il suo significato, le cose sono tali e niente di più.
"La vicenda di gioia e di dolore non si tocca" può significare la superficialità, la riluttanza degli esseri umani a qualcosa di profondo.
"Perduto ha la voce la sirena del mondo" è una metafora, può indicare la perdita da parte di tutti gli esseri che compongono il mondo (quindi la voce del mondo) di un valore per cui valga la pena vivere e lottare.
"Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso" guardando l'aridità di questo mondo il poeta vede se stesso, fa un riferimento a quello che è l'inizio della poesia. È un cerchio che si chiude, lui e la sua anima si sentono tanto apatici perché è il mondo ad essere indifferente alla stessa realtà che vive.
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Dall'immagine tesa: parafrasi, analisi, commento - Clemente Rebora



Testo

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno.
Ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.



Parafrasi

A partire dal pensiero concentrato
studio con attenzione ogni singolo attimo
con la forza dell'attesa -
e non aspetto nessuno:
nell'ombra piena di tensione
osservo con attenzione il campanello
che diffonde in modo non avvertibile
un suono leggerissimo -
e non aspetto nessuno:
stando fra quattro mura
meravigliate della vastità
maggiore di quella di un deserto
io non aspetto nessuno:
ma deve venire,
verrà, se continuo,
a fiorire non visto,
verrà d'improvviso,
quando meno me l'aspetto:
verrà come riscatto
di tutto ciò che porta alla morte,
verrà a rendermi sicuro
del suo e del mio valore,
verrà come consolazione
delle sue e delle mie sofferenze,
verrà, anzi, forse sta già venendo
il suo sussurro.



Analisi del testo

Questo testo, datato 1920, è posto a conclusione dei Canti anonimi, come raccogliendo il senso profondo del breve libro.

METRICA: versi liberi, spesso però coincidenti con misure presenti nella nostra tradizione letteraria, come quinari, ottonari o più spesso settenari. Le rime sono variamente distribuite, presenti soprattutto nella parte conclusiva.

La poesia è strettamente collegata alla ricerca della verità da parte del poeta, alla speranza in una fede che ponga termine alle sue inquietudini e incertezze. L'argomento è costituito dall'attesa di Dio, l'unica in grado di dare un senso all'esistenza. L'«immagine tesa», ovvero la tensione dell'autore, è dovuta al carattere inesprimibile di questa attesa, che non ha un contenuto preciso e e non è una persona umana («non aspetto nessuno») e tuttavia presenta la certezza che qualcosa di decisivo sta per avvenire o apparire quando usa l'espressione «con imminenza d'attesa».

La condizione è resa da un'atmosfera impalpabile di sensazioni:
  • l'«ombra accesa», ossia illuminata, in cui il sostantivo definisce lo stato di isolamento e solitudine del poeta, mentre l’aggettivo sottolinea uno stato psicologico di calore, di “incandescenza”, di fronte all’imminenza dell’evento salvifico.
  • il verbo «spio», che riprende e intensifica il precedente verbo «vigilo», indica il carattere impaziente e ansioso dell'attesa; 
  • Il polline rappresenta un’idea di fertilità e una promessa di vita; tema che viene ripreso e compiuto nel successivo «sbocciare» (v. 16), riferito al poeta: come se il polline del suono del campanello abbia infine fecondato l’attesa.


Il senso profondo di stupore - trasferito alle pareti della casa, che perdono così la loro consistenza materiale - si dilata in uno spazio privo di confini, paragonato a un «deserto» dove l'unica visitatrice sarà la Grazia divina.

La negazione dell'attesa («non aspetto nessuno»), ribadita per ben tre volte (vv. 4,9 e 13), non la mette quindi in discussione, ma ne sottolinea piuttosto l'immaterialità e l'indeterminatezza, il carattere tutto incorporeo e spirituale. Essa è comunque contraddetta dall'avversità che apre la seconda parte (il «ma» del v. 14), in cui la venuta di questa misteriosa Presenza è data per certa, come un evento improvviso e ormai incombente. Si noti la variazione e la progressione del medesimo verbo: «deve venire», come segno anche di una volontà e di una esigenza impossibile da sopprimere; e poi «verrà», come compimento quasi profetico del desiderio nella certezza futura. Il verbo, ripetuto cinque volte, si trasforma alla fine in un presente dubitativo («forse già viene»), riferito alla voce sommessa («il suo bisbiglio») dell'«attesa».

Il bisbiglio finale è un indizio della presenza di Dio, e questo è confermato dalle parole che Rebora disse a Montale: "La voce di Dio… è sottile, quasi inavvertita, è appena unronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto."



Figure retoriche

Ossimoro = ombra accesa (v. 5). L'ombra identifica il buio e quindi non potrebbe essere illuminata.

Sinestesia = spio il campanello (v. 6). Il verbo "spiare" ha un valore visivo, mentre il campanello rimanda a un dato uditivo.

Sinestesia = un polline di suono (v. 8). "Polline" è legato alla vista, "suono" all'udito.

Personificazione = mura stupefatte (vv. 10-11). Viene attribuito un sentimento umano (lo stupore) a esseri inanimati (le mura).

Climax = quasi perdono… a farmi certo… come ristoro… Climax ascendente, dal nulla alla percezione dell’arrivo, alla certezza del possesso

Anafora = verrà (vv. 15-17-19-21-23-25). Si ripete per sei volte per esprimere la tensione dell'attesa.

Enjambement = (vv. 1-2; 6-7; 10-11; 21-22; 23-24; 25-26).



Commento

Il testo non è di immediata comprensione anche se si può intuire che il protagonista è l'autore stesso e che sta aspettando qualcuno o qualcosa con tanta ansia. E poi qualche verso dopo se ne esce con una espressione insolita: "e non aspetto nessuno". Questo sta a significare che ciò che sta aspettando non è una figura umana ma qualcosa di spirituale, l'oggetto dell'attesa non può che essere Dio o, in altre parole, la grazia divina. Quindi questa poesia, che è stata scritta nel 1920, anticipa la sua conversione al cattolicesimo avvenuta parecchi anni più tardi, nel 1928. Ed è universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora.
Il poeta è teso e proteso verso qualcosa di imminente, che può giungere in qualsiasi momento, benché egli non aspetti nessuno in particolare. Così spia il campanello, che qualcuno potrebbe far suonare da un momento all'altro, un campanello che, simbolicamente, diffonde un suono impercettibile, anzi un polline di suono. Egli non aspetta un uomo o una donna: una presenza umana, da sola, non potrebbe contrastare il deserto delle quattro mura / stupefatte di spazio. Si tratta, quindi, di una presenza di altro genere, in grado di promuovere un vero rinnovamento interiore. In questo senso si spiegano le immagini del polline, elemento fecondatore, e dello sbocciare non visto e, soprattutto, la frase verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro; questi due versi, infatti, sembrano alludere alla ricchezza interiore che, per manifestarsi pienamente nell'uomo, deve rispecchiarsi in quella di Dio.
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Perlopiù o Per lo più: come si scrive?



La regola grammaticale

Se stavate cercando una regola grammaticale univoca per risolvere questo dubbio che attanaglia le parole la cui lettura a voce non dona nemmeno un aiuto fonetico, dovrete sapere che non esiste. Ogni parola fa storia a sé.


In questo caso si può scrivere perlopiù, nella forma univerbata, ma anche per lo più. Entrambe le forme sono corrette e presentano lo stesso significato.

Il rischio di commettere un errore qui è veramente minimo, a meno che non abbiate intenzione di scrivere perloppiù, in quel caso sarebbe un errore madornale.

Dovete fare attenzione a non confonderlo con l'avverbio per di più, che non possiede la grafia univerbata.


ESEMPIO:
- La mattina perlopiù faccio colazione al bar.
- Per lo più bevo acqua naturale, a volte birra.
- Il mio gatto mangia per lo più carne.
- Guardo molti film, per lo più thriller.
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Viatico: parafrasi, analisi e commento - Clemente Rebora



Testo

O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e nel conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio
grazie, fratello.



Parafrasi

O ferito in fondo alla piccola valle,
avrai chiesto aiuto con molta insistenza
se tre compagni di guerra integri
morire per te che quasi più non eri vivo.
Tra melma e sangue
come un albero abbattuto
e il tuo lamento straziante continuava,
senza pietà per noi rimasti in vita
a contorcerci perché non vedevamo l'ora che finisse,
velocizza la tua morte,
tu solo puoi mettere fine a questa sofferenza,
e ti sia di conforto
nelle tue condizioni di demenza ma ancora cosciente
in questo momento di attesa della morte
l’intorpidimento della sensibilità,
ma ora devi attendere quel momento in silenzio -
grazie, fratello.



Spiegazione

Dal fondo valle giungono verso la trincea le urla disperate di un fante ridotto ad un tronco senza gambe (perché le gambe non le ha più o non gli funzionano e riesce a muovere solo le braccia). Le sue strazianti invocazioni di aiuto prostrano i suoi compagni consci della loro impotenza ben sapendo che l’unico rimedio a quel dolore può essere solo una agonia affrettata.
Ciononostante, in tre, uno dopo l’altro, impietositi da quelle preghiere escono per soccorrerlo rimanendo uccisi.
Il ferito resta solo e senza conforto in un lago di sangue e melma, perché nessun altro è disposto a fare un ulteriore tentativo per un moribondo senza speranza.
Ma il suo straziante lamento non accenna a finire lasciando i compagni “rimasti” nella più tragica disperazione, a contorcersi ed a lacerarsi nell’impotente consapevolezza che il sacrificio di un quarto compagno a nulla servirebbe perché l’unico segno di vitalità di quel fratello morente è il suo lamento che non si affretta a morire.
In questo situazione di disperata follia i “rimasti” si rivolgono al ferito pregandolo di non lamentarsi e di affrettare la sua agonia perché lui può farla finita non avendo più alcuna speranza di poter sopravvivere.
Loro, invece, sebbene siano coinvolti in questa tragedia non vogliono rifare un ennesimo tentativo e resistono al richiamo di quei pietosi lamenti evitando la pazzia di un ulteriore e inutile gesto di generosità che li porterebbe verso una morte sicura come è già capitato ai tre compagni. Non potendo fare altro per lui, a loro volta, lo invocano pregandolo per pietà di cessare di lamentarsi nell’attesa che il suo cervello perda ogni sensibilità e cada nel sonno eterno. Quindi, con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore, in un disperato grido di umanità lo implorano dicendogli: “ lasciaci in pace - fratello” . Come a dire: non invogliarci a commettere un’altra pazzia perché sarebbe del tutto inutile.
Non c’è crudeltà in questa richiesta e non c’è codardia ma solo una disperata e atroce rassegnazione dell’umana impotenza che non fa che acuire e amplificare il dolore dei “rimasti” costretti a contorcersi in questa forzata passività che in tutta quella follia rappresentano l’ultimo labile confine della ragione. Subito oltre questo limite si entra nella pazzia e solo un pazzo poteva ancora avventurarsi nel tentativo di avvicinarsi al moribondo e sfortunato compagno, rimasto vivo solo nel suo lamento.



Analisi del testo

METRICA: versi liberi (quinari, settenari, endecasillabi liberamente alternati; il verso 6 è senario; tutti i versisono in rima o assonanza, ma senza schema fisso).

La poesia rientra nell'ampia produzione letteraria che si riferisce al primo conflitto mondiale; ma il suo tema più vero e profondo è costituito dall'orrore provocato dalla guerra, sul piano dello strazio fisico e del tormento spirituale. A differenza di altre poesie, qui la realtà non vuole essere a qualcosa di profondo o addolcita, ma viene mostrata ai nostri occhi con un linguaggio crudo e violento: il corpo di un soldato, ridotto a un tronco senza gambe, che giace morente e supplicante tra melma e sangue e tre suoi commilitoni che cercano di salvarlo dal fuoco nemico e nel tentativo muoiono.
Le frasi brevi e spezzate servono ad aggiungere ulteriore drammaticità alla situazione già critica per il linguaggio espresso.

Per viatico s'intende tutte le cose necessarie per il viaggio, ma anche il conforto, la consolazione per la durezza del cammino e, qui, il saluto e il congedo estremo. Nel linguaggio cattolico il "viatico" è la comunione che il sacerdote dà al fedele in punto di morte.

Il "quasi più non eri" del v. 4, indica non solo l'imminenza della morte, ma anche la mutilazione e l'orrenda deformazione, in opposizione ai "tre compagni interi", morti però anch'essi per salvarlo.

Il riferimento a un episodio frequente nelle guerra di trincea (il tentativo di soccorrere un compagno ferito e di riportarlo dentro le proprie linee) accentua la concretezza della situazione, sottolineando il carattere disumano della guerra, in cui ogni rapporto di fratellanza e di solidarietà appare irrimediabilmente sconvolto e stravolto.

L'impostazione del discorso risulta tragicamente assurda e paradossale, specie al v. 13, nell'espressione violentemente ossimorica della "demenza che non sa impazzire". È intesa come una condizione di demenza che non arriva alla totale perdita della coscienza, secondo alcuni va invece riferita ai superstiti, che, vittime della demenza della guerra, desiderano invano impazzire, perdere coscienza, avere anch'essi il conforto del sonno sul cervello.

Lo strazio e il tormento di cui è vittima il compagno caduto si traducono allora in una richiesta di pietà per i rimasti (v. 8), straziati a loro volta da un tomento indescrivibile, in cui si mescolano in modo intrecciato sia sentimenti altruistici che egoistici.

L'orrore della sofferenza non risparmia nessuno, rendendo uguali chi sta per morire e chi è costretto ad aggrapparsi alla speranza di una dolorosa sopravvivenza. Solo la morte, nell'augurio finale, può recare a tutti un momentaneo conforto e sollievo (quello rappresentato dal "viatico"), inducendo anche a scoprire nel verso finale, un'ultima e intensissima forma di umana pietà e solidarietà.

Il "grazie, fratello" finale ha molteplici significati: in senso patriottico potrebbe essere un grazie per aver combattuto e vissuto insieme l'orrore della guerra, un grazie per aver fatto capire quando sia terribile morire e ancor di più attendere l'inarrivabile momento della morte.
Da notare che la parola "fratello" viene usata, non casualmente, sia in apertura sia in chiusura della lirica.



Figure retoriche

Enjambement = (vv. 2-3-4, 8-9, 12-13).

Ossimoro = demenza che non sa impazzire (v. 13).



Commento

Questa poesia colpisce profondamente perché in essa traspare un dolore e una sofferenza inimmaginabili che non colpivano solo i feriti e i moribondi. A volte, più ancora colpivano i "rimasti", i sopravvissuti, obbligati ad assistere impotenti alla lunga straziante agonia di un compagno mutilato nel suo corpo di vent'anni in maniera irrimediabile, lasciato da solo senza un minimo di conforto o aiuto, da solo nel suo atroce dolore e nella sua disperata solitudine di chi sa che sta morendo e non rivedrà mai più le sue persone più care. Immedesimandomi nella parte di quei sopravvissuti e di quel moribondo, non saprei dire chi soffre di più. Penso che non ci sia peggior tortura che vedere morire un proprio compagno col quale si sono condivisi anni di sacrifici, di rischi e di ogni sofferenza e, nel contempo, credo non ci sia peggior fine di quella descritta nella poesia. Vedere un proprio compagno così vicino e non potergli essere accanto per confortarlo, sentire i suoi lamenti e non poter fare nulla per lui, penso che sia molto di più di una tortura.
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Contradditorio o Contraddittorio: come si scrive?


Si scrive Contradditorio o Contraddittorio? Ovvero con quante t va scritto il termine che viene usato per indicare fatti o parole contrastanti, che si contraddicono a vicenda?


Si scrive contraddittorio, con due d e due t.

Non si scrive contradditorio o contradittorio.



La regola grammaticale

Il termine richiede sempre il raddoppiamento della "d" per l'origine latina del suffisso contra- (contrad in latino), la cui "d" finale per assimilazione diventa uguale alla consonante iniziale della parte della parola: contrabbando, contraccolpo, contraddire.
Si aggiungono anche due "t" perché il gruppo latino ct di dictorius diventa, anch'esso per assimilazione, tt (così come factus diventa fatto).


ESEMPIO:
- Sono un tipo contraddittorio, ogni tanto mi reinvento: credo che faccia parte della natura dell'uomo.

- Per cogliere nel segno è necessario contraddirsi. Perché l'universo è contraddittorio.

- Fece un discorso talmente contraddittorio che alla fine ingarbugliò le parole e non seppe più come venirne fuori.
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Turbine: parafrasi, analisi e commento - Clemente Rebora


Questa poesia di Clemente Rebora è conosciuta con due titoli, "Dall'intensa nuvolaglia" (è l'originale ed è tratto dal primo verso), mentre in una riedizione più tarda del testo, il poeta ha aggiunto il titolo "Turbine".


Testo

Dall’intensa nuvolaglia
Giù – brunita la corazza,
Con guizzi di lucido giallo,
Con suono che scoppia e si scaglia –
Piomba il turbine e scorrazza
Sul vento proteso a cavallo
Campi e ville,e dà battaglia;
Ma quand’urta una città
Si scàrdina in ogni maglia,
S’inombra come un’occhiaia,
E guizzi e suono e vento
Tramuta in ansietà
D’affollate faccende in tormento:
E senza combattere ammazza.



Parafrasi

Da un fitto strato di nuvole, la corazza di acciaio brunito e scintillante (per il bagliore dei lampi), con grande fragore e scoppi dei tuoni si abbatte verso il basso come un cavaliere in groppa al suo cavallo infuria sugli ampi spazi delle campagne, dando battaglia.
Ma quando colpisce una città, spezza le maglie (parte che formano l'armatura) e diventa scuro come un'occhiaia (lividi scuri dovuti alla stanchezza), e trasforma sia lampi, sia i tuoni, sia il vento in angoscia per le persone affaccendate dalla quotidianità ed agendo in modo nascosto e inavvertito uccide senza neppure combattere.



Analisi del testo

È il terzo dei 72 componimenti raccolti nei Frammenti lirici; un testo molto denso, che fonde la raffigurazione del paesaggio (qui, sconvolto dal temporale) con la risonanza interiore di esso.

Temi: il grigiore e l'alienazione della vita contemporanea, la dissoluzione dei valori e dell'energia morale. 
Anno: 1913.
Schema metrico: versi vari, con prevalenza novenari e ottonari, con schema ABC ABC ADAE FDFB.


Il testo si suddivide in due parti, separate dalla congiunzione "ma" del v. 8; gli ultimi tre versi costituiscono l'epilogo.
  • Nella prima sequenza (vv. 1-7) si osserva la tempesta (il turbine, v. 5) nel momento in cui si sfoga liberamente sulla campagna: i lampi (v. 3), i tuoni (v. 4) e il vento (v. 6) scatenano la potenza della natura.
  • La seconda sequenza (vv. 8-12) raffigura l'abbattersi del temporale sulla città, quando la pioggia scende frangendosi fra le vie e i palazzi, mentre il vento, trovando ostacoli innaturali, forma gorghi e mulinelli.
  • Nell'epilogo (vv. 12-14) si passa dalla raffigurazione naturalistica alla riflessione morale e psicologica.

Sul piano stilistico, all'inizio le sensazioni si vanno accumulando; il lettore giunge d'un fiato fino al punto e virgola del v. 7.

Quando ricomincia la lettura, la forte pausa del "ma" attenua il ritmo, proprio come rallenta la forza temporalesca: le ondate della burrasca si frangono sulla città, diminuiscono il loro impeto, pur senza cessare (infatti il testo consta di un solo, lungo periodo, frenato ma non interrotto).

Sul piano fonico, 12 versi su 14 presentano la vocale "a" in posizione di ultima sillaba tonica (cioè accentata), con effetti di drammatizzazione.
La scelta del lessico, e soprattutto dei verbi, risponde a esigenze di violenza semantica e di rilevanza fonica. Ciò è più evidente nei verbi di movimento: «scoppia e si scaglia» (v. 4), «piomba» e «scorazza» (v. 5), «urta» (v. 8), «si scàrdina» (v. 9). Le esigenze foniche di violenza e di eccesso si esprimono soprattutto nei verbi inizianti con s- (cfr. vv. 4, 5 e 9) e nelle allitterazioni (rilevante in particolare quella sulla doppia z: vv. 2, 3, 5, 11, 14).

La sintassi è a sua volta tesa a causa della posticipazione del verbo (vv. 1-5 e 14).



Figure retoriche

Allitterazione = con suono che scoppia e si scaglia (v. 4). Ripetizione della consonante "s".

Metafora = piomba il turbine e scorrazza. (v. 5). Come se il vento si stesse spostando a cavallo.



Commento

Un fatto naturale diviene spunto per una riflessione morale. Un improvviso temporale diviene l'occasione per denunciare la caduta dei valori, per condannare il grigiore e l'alienazione contemporanea: il disagio esistenziale dell'uomo. Le affollate faccende in tormento spersonalizzano gli uomini e li rendono fragili e incerti. Messo a contatto con la città estesa e impersonale, persino il temporale muta, alla fine, la propria natura.
All'inizio esso si presentava come una gioiosa giostra cavalleresca, un turbine elegante e velocissimo sui campi. Ma poi esso diviene qualcosa di molto diverso, che ammazza, in quanto trasmette ansietà alla gente di città, intralciata nei propri pressanti affari. L'agire fisico della tempesta (tema della prima sequenza) si muta così nella violenta lacerazione interiore che essa produce nell'individuo (tema della seconda sequenza). La sconfitta è inevitabile: il vento non ha resistenze e quindi non può più combattere la sua epica battaglia, in quanto nessuno è pronto a raccoglierne la sfida, ma continua ugualmente nella sua opera devastatrice.
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O pioggia feroce: analisi e commento - Clemente Rebora



Testo

O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell'anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s'empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.
Ma per noi, fredda amazzone implacata,
o pioggia di scuri e di frecce
tu sei redentrice adorata
del rinnegato bene;
per noi, che sentiamo insolubil mistero
quando la vita si sdraia alle cose,
mentre l'eterno in martirio di prove
ci sembra spontanea purezza del vero,
tu sùsciti come il silenzio
dove natura è più forte,
operi come la morte
dove immortale è il pensiero.
Oh, lava e scarnifica e spazza
chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:
sgrumando la lugubre scoria
che c'inviliva alla gente,
snuderai l'oro e la gloria
che non si vendon né recan piacere,
ma splendono d'un balenìo
che irraggia invisibile sugli altri con Dio.



Analisi del testo e commento


METRICA: versi liberi.

Irregolari ma numerose le rime, oltre alle assonanze e consonanze. Esse esaltano in Rebora, la tensione del dettato poetico, riportandolo ai suoi nuclei essenziali ed evitando i rischi di una eccessiva dispersione.



Il significato della pioggia

La pioggia è definita feroce, ossia crudele e implacabile, ed è una cosa comune nelle città. Il significato spirituale e religioso dell'acqua, come purificazione (si pensi al valore cristiano del battesimo), agisce qui con particolare intensità e violenza, con un accanimento, che è direttamente proporzionale alla sporcizia delle strade e alla falsità della gente (in cui le persone sono paragonate a dei morti viventi).
Il sole riesce a far brillare anche le cose più ripugnanti, esaltando le apparenze superficiali, che nascondono le colpe e i finti rimorsi.
La pioggia si infiltra invece dentro le cose e le scarnifica, toglie le scorie e le impurità, e mette a nudo le povere glorie, le finte virtù e la miseria reale di un'esistenza falsa e artificiale.



Tensione morale e crudezza del linguaggio

La visione del mondo di Rebora non è pacifica e serena, ma acre e impietosa. La tensione morale che la anima si esprime attraverso un linguaggio poetico crudo e risentito, in cui le azioni e i sentimenti umani sono rappresentati in modo duro e scontroso.
Ciò si può notare dall'uso di parole che possiedono una connotazione moralistica forte e incisiva, in senso negativo ("lordure" fa rima con "impure", poi abbiamo i sostantivi rughe, rogne e pattume ecc.).
Sono parole dal suono cupo e stridente, che già Dante aveva adoperato nella divina commedia («rime aspre e chiocce»). Altra rima simile nel testo è ai versi 33-34 «spazza / bazza».
Anche i verbi possiedono una tonalità cruda: scarnifichi, rodi, spazzi, sgrumando ecc.



Figure retoriche

Allitterazione = cruda grondande tua striglia. Ripetizione della r (v. 15)

Assonanze = mistero / vero (vv. 25-28); cose / prove (vv. 26-27).

Antitesi = il similoro / di tutti (vv. 10-11) e l'oro de la gloria (v. 37.)

Analogia = pioggia redentrice (vv. 22-23). Analogia con la figura di Cristo, il Redentore.
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Biografia: Ardengo Soffici

Ardengo Soffici nasce sull'Arno (Firenze) nel 1879. È stato uno scrittore, saggista, poeta e pittore italiano.

È uno dei primi intellettuali italiani a recarsi a Parigi, dove soggiorna tra il 1899 e il 1907.
Qui entra in contatto con pittori impressionisti e postimpressionisti e fa conoscere in Italia l'opera dei "nabis" e di Cézanne, e a inizio la sua vocazione pittorica. Ma è attento anche alla produzione poetica postsimbolista e a Rimbaud dedica un saggio nel 1911. Notevoli, in genere, i suoi lavori di critica d'arte, per l'intuito vivace con cui segue e presenta artisti, movimenti, teorie: Il caso Rosso e l'Impressionismo (1909), Cubismo e Futurismo (1914), il saggio sui Primi princìpi di una estetica futurista (1920).

In questo inizio secolo così tumultuoso Soffici collabora a pieno ritmo con riviste francesi ("La Critique Indépendante", "L'Oeuvre") e italiane ("Leonardo", "La Voce") e in un primo momento è portato ad attaccare il Futurismo. In seguito si batte per un'assimilazione del Futurismo al Cubismo, con gli scritti apparsi su "Lacerba", la rivista fondata con Papini e Palazzeschi a Firenze nel 1913, e con alcune opere pittoriche, come Cocomero e liquori del 1914.

L'intensa attività di pittore e teorico dell'arte si riflette anche nell'opera in versi del Soffici poeta. Ecco allora nascere lo sperimentalismo futurista di Bif & zf + 18. Simultaneità e chimismi lirici (1915). In questa movimentata stagione elabora anche una serie di prose liriche e diaristiche, che si trovano nel mezzo fra la descrizione magmatica di un mondo pieno di cose, fatti, passioni, e le illuminazioni frammentarie della memoria: Ignoto toscano (1909), Arlecchino (1914), Giornale di bordo (1915), Kobilek. Giornale di guerra (1918), La ritirata del Friuli (1919), La giostra dei sensi (1919), alle quali si deve aggiungere il romanzo Lemmonio Boreo.

Il successivo ritorno all'ordine e l'adesione entusiasta al fascismo (dopo aver partecipato volontario alla guerra) coincidono con l'esaurirsi della sua vena più felice, accompagnato da una pesante ripresa di modi e forme della tradizione, sia pittorica che letteraria.

Muore a Forte dei Marmi (Lucca) nel 1964.
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Noia: Analisi e commento - Ardengo Soffici


Pubblicata sulla rivista «Lacerba», il 13 marzo 1915 e successivamente riedita in Bif & zf + 18. Simultaneità e chimismi lirici, Edizione della Voce, Firenze 1915.



Testo

Dalle 8,45 alle 10,10
ho visto il mondo insanguinato
nel rettangolo di un vetro vermiglio
con queste epigrafi in lettere di maiolica bianca:
Antagra Bisleri,
guarisce la gotta e la diatesi urica;
Nocera Umbra,
(sorgente angelica)
acqua minerale da tavola gazosa e digestiva.
Non c'è più speranza di vivere
nell'assooluto della gioia o dell'alto spleen,
fuori delle contingenze.
Il prisma dei tempi e dei sentimenti
muore al dettaglio, arenato come il sifilitico sole:
il calendario è al bigio fisso.

La modernità è lontana come il melodramma di di Ramsete II;
le più grandi città non sanno disfarsi della primavera,
che ritorna ogni anno come un usciere con la sua citazione verde di praterie;

gli archi elettrici
fanno l'articolo della luna, casa fondata nell'anno I dell'Eternità,

e le stelle
trovan sempe una pozzanghera che le specchia o un bell'occhio che le sposa.

I tramways son rondini gialle
stridenti radendo le strade;
i treni girellano per le campagne come seminari in fila;
le automobili sono burrasche primitive di vento e polvere;
e i tauben, il nome stesso dice che sono colombe.
Il cielo solo appare una crema impazzata;
ma anche i biglietti di banca
odoran di fiori di mandorlo.

Tutto si ripete e ricalca le vie di ogni giorno.
L'orologio che non batte le ore
che ogni sessanta minuti precisi,
e non si riposa mai,
né fa lo scherzo di mettersi a girare all'indietro,
è il simbolo legalizzato di questa vita
che ci annoia.

Tutti gli usci son chiusi come l'apocalisse;
ogni camera ha un segreto idiota
di bidets, di camicie mauve, di pelli sudate, di giuramenti e di fotografie.

- Fiordi! non mi sc river più che tu mi ami:
il cuore ha chiuso gli sportelli, come le banche,
per una moratoria di tristezza.

Sans blague!
La vita non è più che un fatto diverso
diffuso nel tempo dai cronisti dei grandi quotidiani;
l'iimbecillità è la legge mostruosa del Tutto-Nulla.
L'ultima girandola della fantasia
brucia in silenzio nelle vetrine dei pasticceri
e delle modiste,

colori in guerra di cioccolatini e di nastri:
blu, giallo, argento, celeste, e fiamme di forti liquori.

L'universo, oh, se sparisse ad un tratto,
fantasma fallito!
Un'alchimia nuova creerebbe albe e tramonti
artificiali di magnesio,
stagioni di bengala e d'acetilene.

Vestito da clown allora,
infarinato, dipinto,
con un ciuffo scarlatto e un cuore
verde fra ciglio e ciglio,
poter ballare, cantare, ridere:
ultimo dio in maschera sur un filo
teso tra il principio e la fine,
su questo gorgo nero d'umanità; che domanderebbe il bis.



Analisi del testo e commento


METRICA: versi liberi.

La poesia ci presenta immagini della vita cittadina, ambiente caro ai futuristi, in quanto strettamente collegato alla loro idea di "modernità". Ma l'atteggiamento di Soffici, in proposito, finisce per risultare contraddittorio, se paragonato con le soluzioni estreme proposte da Marinetti.
Non solo Soffici ripristina la forma sintattica, ma riporta nei suoi versi la dimensione dell'io, per esprimere, sia pure in modo particolare, una condizione psicologica: quella della noia, che dà titolo al componimento, costituendo la ripresa di un motivo tipicamente baudelairiano (un chiaro riferimento è il termine «spleen» al v. 11).

Lo stato d'animo del poeta deriva, per così dire, dalle resistenze del passato nei confronti del presente; la «modernità» risulta negata (= è lontana, al v. 16) dal ritorno di sensazioni e immagini proprie del repertorio tradizionale. Ad esempio nel verso 17 dice «le più grandi città» (simbolo del presente meccanico e tecnologico) «non sanno disfarsi della primavera» (simbolo della tradizione sentimentale-romantica); questo viene definito contaminazione delle immagini in quanto per Marinetti sono due registri di immagini inconciliabili.

Anche le macchine per una sorta di regressione, si presentano come elementi della natura: dai tramways (tram) paragonati alle rondini gialle, si passa ai tauben (forse auto) paragonati alle colombe. Un altro esempio sono anche i «biglietti di banca», che simboleggiano l'affarismo e il capitale, ma per il poeta «odoran di fiori di mandorlo» (vv. 29-30).

Da notare l'uso diffuso nei versi 23-27 delle più tradizionali similitudini e immagini metaforiche, al posto dell'analogia.

Tutte queste contraddizioni servono a rappresentare l'atmosfera monotona e soffocante della città: le insegne del mondo industriale sono svilite dalla volgarità dei loro contenuti, gli usci chiusi simboleggiano la mentalità egoistica borghese che riduce il suo mondo alla casa, non manca nemmeno una critica per i quotidiani che anziché descrivere la realtà la sminuiscono fino a renderla banale. Il tutto si riassume nell'arresto della vita.

Tutte queste convenzioni e ripetizioni dei gesti hanno nell'orologio il simbolo legalizzato di questa vita noiosa, ma si tratta della legge del Tutto-Nulla, in cui Tutto si ripete e si rovescia nel Nulla. La noia e il grigiore della vita tolgono ogni speranza di vivere, muoiono anche gli ideali, le aspirazioni e i più nobili sentimenti come la felicità e il dolore.

Anche la fantasia esce sconfitta e morente dalle vie cittadine (i negozi sono la sua ultima girandola), mentre il poeta sogna la scomparsa del vecchio mondo (che chiama fantasma fallito) e la creazione di una nuova realtà, in cui la natura sia interamente sostituita da un'alchimia di effetti artificiali (un riferimento al sogno di modernità dei futuristi).


Il ruolo del poeta è minacciato e sminuito, sebbene in passato fosse stato un simbolo di guida stimato dai più potenti, nell'epoca moderna si maschera ridimensionandosi alla figura di un semplice clown intento ad intrattenere (poter ballare / cantare / ridere) e non ad essere preso sul serio. Il cammino del poeta è quello di chi è nato gloriosamente ma è destinato ad estinguersi. Questo è il presagio distruttivo che Soffici intuisce e vuole in quale modo prevenire incitanto i lettori a riconsiderare i valori della poesia.



Figure retoriche

Metafora = i tramways son rondini gialle (v. 23).

Similitudine = i treni girellano per le campagna come seminari in fila (v. 25).

Metafora = le automobili sono burrasche primitive di veneto e polvere (v. 26)

Similitudine = gli usci son chiusi come l'apocalisse (v. 38)
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Appunti di Epica


Il genere epico deriva dalla parola greca "epos", cioè parola, discorso, racconto o verso di poesia. Per testo epico si intende un componimento narrativo, in genere ampio, in versi. L'epica narra vicende appartenenti al passato, facendo ricorso al mito, per dare nobiltà alla narrazione. Essa esalta uomini o popoli con determinati valori, come il coraggio, la lealtà, la forza.



Iliade




Odissea 




Eneide

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Avanguardie storiche (letteratura)


Il termine "avanguardia", è nel linguaggio militare, un reparto che precede il grosso dell'esercito, per proteggerlo da attacchi di sorpresa. Nell'Ottocento la parola acquistò anche un significato politico, designando quei gruppi estremisti che predicavano la lotta per liberare gli oppressi. Il termine avanguardie fu poi esteso (1864) dal poeta Charles Baudelaire, con senso ironico, agli artisti più rivoluzionari del suo tempo.

Agli inizi del Novecento il termine indica scrittori e artisti assai polemici verso tradizione, regole, forme e contenuti abituali delle opere d'arte. Essi rifiutavano la civiltà, quella occidentale, in ogni forma. L'elemento che principalmente distingue l'avanguardia è la rottura del canale di comunicazione con pubblico comune; lo scrittore d'avanguardia mira a creare un'opera illeggibile per questo tipo di pubblico. Si battevano per un linguaggio più istintivo e diretto, rigettando l'idea borghese dell'opera d'arte come prodotto da vendere e consumare. Si disinteressavano del bello e del buono, anzi, cercavano di provocare disgusto e scandalo. Il desiderio di un'assoluta originalità espressiva portò le avanguardie a un'idea di arte totale, capace di fondere tutti i generi e tutti gli stili. Il suo scopo non era più dire qualcosa di comprensibile, ma sperimentare un modo diverso di vivere e creare.



Le avanguardie storiche di primo Novecento

Le avanguardie di primo Novecento (le cosiddette avanguardie storiche) sorgono nell'ambito del Decadentismo, come gruppi di contestazione ancor più radicale (rispetto alle novità di Simbolismo ed Estetismo) dell'arte e della cultura tradizionali.
  • In alcuni casi l'elaborazione delle singole avanguardie interessa tutte le arti (pittura, letteratura, musica, teatro): è il caso di Futurismo, Surrealismo, Espressionismo. Alla loro base c'è infatti una visione complessiva, una filosofia del mondo, che dà vita poi a modi e linguaggi diversi di sperimentazione.
  • Altri movimenti d'avanguardia si sono limitati invece a un solo ambito: il Fauvismo e il Cubismo riguardano per esempio la sola lettura; l'acmeismo russo la poesia; la scuola dodecafonica (o scuola di Vienna, dei compositori Schonberg e Webern) la sola musica.


I movimenti avanguardisti


L'Espressionismo
L'Espressionismo tedesco mirava ad esprimere ciò che vi era di più profondo nell’uomo. Le radici di questo movimento vanno ricercate nel senso di sfiducia generata dal crollo delle illusioni e dei miti del progresso che colse, particolarmente negli anni precedenti la prima guerra mondiale, larghi strati degli intellettuali borghesi, i quali si ponevano su un piano di protesta contro l’ipocrisia. Era il loro modo di reagire, un modo confuso ma carico di un vero dramma umano. L’Espressionismo tedesco si può distinguere in tre momenti: il primo dominato dal gruppo cosiddetto Il Ponte ("Die Brücke"), il secondo legato ad una polemica a sfondo sociale, il terzo di cui il massimo esponente è stato Kandinsky. Del gruppo del PONTE(1905), facevano parte Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluff, Otto Mueller. Essi davano ai loro quadri una forma approssimativa, distruggevano la forma sino a giungere a macchie caotiche. Del gruppo fondato da Kandinsky nel 1912, facevano parte Franz Marc, Feininger, Campendonck, Paul Klee. Kandinsky nel suo libro sulla Spiritualità dell'arte iniziava a delineare le prime teorie sull'astrattismo. Egli credeva che l’unica realtà esistente fosse la “realtà interiore”, ribadendo l’impossibilità di “aderire” alla società del suo tempo, trasferendo su tela la sua volontà di nutrirsi soltanto di segni, di ritmi, di colori non avviliti dalla rappresentazione del mondo esteriore. La rivolta degli espressionisti fu una rivolta solitaria, infatti affinché potesse trasformarsi in rivoluzione era necessario l’innesto delle forze popolari che mancò del tutto.


I Fauves
Dal 1904 al 1908 venne creato un movimento pittorico detto Fauvisme. I maggiori esponenti furono Matisse, Braque, Marquet, Manguin. Ciò che distinse i Fauves dagli impressionisti fu l'indipendenza dal dato reale e ciò spiega le fortissime simpatie che essi provarono per ogni specie di arte primitiva e il loro conseguente rifiuto delle leggi prospettiche e quindi di profondità, volume, chiaroscuro.
Fu una pittura fatta di sensazioni rapide, violente, trasposizione lirica della visione naturale, mediante colori puri e accostati secondo leggi nuove, antinaturalistiche. Essi si rifacevano a Van Gogh , Gauguin, Toulouse-Lautrec, ai simbolisti e ai divisionisti, pur condannandone il tono letterario. In queste diverse esperienze i Fauves mantennero intatto un'eccezionale freschezza d'ispirazione. Dopo un periodo di stretta unione e dopo aver dato una serie di opere tra le più belle di quegl'anni: Luxe, calme et voluptè, di Matisse; La plage de Fècampm, di Marquet, il movimento ebbe bruscamente termine. I Fauves avvertirono ben presto il pericolo di cadere in formule meccaniche e artificiose e si volsero in altre direzioni; tra essi solo il più grande, Matisse, restò sostanzialmente aderente anche in seguito alle premesse fauves.


Il Dadaismo
Il Dadaismo fu uno dei principali movimenti artistici della prima metà del '900. Ebbe origini in Svizzera nel 1916 e si sviluppò anche a Parigi, in Germania, in Italia e persino in America. La data d'inizio del Dadaismo si considera il 5 febbraio, quando a Zurigo nacque Cabaret Voltaire. L'evento fu opera di un gruppo di intellettuali europei rifugiatisi in Svizzera per sfuggire alla guerra. Del nucleo originario facevano parte Hans Arp, Hugo Ball, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter. Aspetti tipici delle serate del Cabaret Voltaire erano l'assenza di regole e limiti, il ricorso a provocazioni e dissacrazioni di ogni genere e la combinazione di linguaggi artistici diversi. Le caratteristiche principali del Dadaismo erano la negazione dell'arte in quanto espressione dei valori e delle convenzioni borghesi, che frenano la libertà espressiva; l'atteggiamento irrazionale e dissacratorio, in quanto strumento adatto a perseguire il fine di distruggere l'arte; la poetica della casualità, il "caso" come migliore garanzia per produrre opere d'arte originali e vicine alla vita; la fusione tra le varie arti, con un riferimento particolare alla poesia, alla pittura e alla musica.


Il Surrealismo
Il Surrealismo fu un movimento artistico-letterario nato in Francia nel 1924 ad opera di André Breton con la pubblicazione del "Manifeste surréaliste". Vero e proprio movimento d'avanguardia che ebbe la sua massima espansione nel periodo fra le due guerre. Fu una evoluzione del Dadaismo ma contrariamente a quest’ ultimo, che ebbe l'obiettivo di abbattere tutte le "restrizioni" artistiche radicate da secoli, il Surrealismo rovesciò l'idea distruttiva dadaista attribuendo all'arte un ruolo edificante suggerito dall'interiorità dell'uomo. Elementi sostanziali del pensiero surrealista furono la riconsiderazione della componente irrazionale della creatività umana e la volontà di esprimere, attraverso l'arte, le manifestazioni del subconscio: un rifiuto della logica umana e delle restrizioni della civiltà a favore di una totale libertà di espressione che trova riferimento teorico nelle innovative ricerche psicanalitiche di Freud. Il Surrealismo rivalutò il sogno, l'irrazionalità, la follia, gli stati di allucinazione, cogliendo l'essenza intima della realtà. I più grandi successi del surrealismo si ebbero nelle arti figurative, dove la fusione tra realtà e sogno si esplicò nel libero accostamento di materiali diversi. Fra i pittori che aderirono al movimento ricordiamo, J. Miró, M. Ernst, S. Dalí, G. de Chirico, R. Magritte.


Il Futurismo
Il Futurismo fu il primo movimento d'avanguardia italiano del Novecento. Il suo centro di irradiazione principale fu Milano, soprattutto grazie all'impegno del poeta Filippo Tommaso Marinetti. Fu lui a pubblicare il Manifesto del Futurismo nel 1909, primo di una lunga serie di manifesti programmatici.
Negli anni tra il 1909 e il 1910, attorno a Marinetti si riunirono, a Milano, Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi Russolo, seguiti da Giacomo Balla e Gino Severini. Nelle intenzioni degli artisti futuristi fu centrale l'esaltazione del mondo moderno e di tutte le sue espressioni: la velocità, il mondo delle macchine, l'industrializzazione delle città. Più in generale, nel Futurismo è presente un approccio ottimista, positivo, verso il progresso che interessa tutti i primi vent'anni del secolo. In questa loro visione si avvertì l'esigenza di un taglio netto, violento, con la tradizione e con l'arte del passato. Urgeva la ricerca di forme più adatte a interpretare i tempi nuovi. E queste forme furono la rappresentazione del movimento, il dinamismo, la velocità, la vibrazione della luce.


L'Astrattismo
L'Astrattismo, movimento che si sviluppò nell’arte europea agli inizi del Novecento, consistette in una semplificazione e stilizzazione delle forme, mettendo in secondo piano o eliminando del tutto la rappresentazione. Il momento della sua nascita è datato tra il 1911-1912, quando Kandinsky dipinse “Primo Acquerello Astratto”. Nell'Astrattismo venne messo in primo piano ciò che la pittura comunicava sul piano delle sensazioni. Questo tipo di pittura fu considerata una rivoluzione: l’arte perse il suo compito di rappresentare la realtà, compito che venne svolto dalla fotografia. Eliminato il soggetto e la sua rappresentazione, l’arte volle esprimere la vita psicologica ed emotiva dell’uomo. Anche il colore guadagnò nell’Astrattismo una piena dignità e non è più subordinato alla forma o al disegno. Questo movimento è divisibile in due correnti principali: L’ Astrattismo lirico, nel quale prevalse la funzione espressiva e simbolica del colore. I maggiori esponenti di questa corrente furono Kandinskij, Klee, Licini; e l’ Astrattismo geometrico
nel quale fu preponderante la funzione geometrica delle forme; si basò sullo studio della percezione e sul pensiero razionale. Si trattò di un ritorno alla linea geometrica fondamentale e all’uso dei colori primari: giallo, blu e rosso. I maggiori esponenti di questa corrente furono Mondrian, Malevic, Von Doesburg.


Il Cubismo
Il Cubismo nacque intorno al 1907 ad opera di Pablo Picasso e Georges Braque. La data d'inizio corrispose all'anno di completamento, da parte di Picasso, del celebre quadro Les Demoiselles d'Avignon. In esso l'artista sperimentò per la prima volta, in maniera sistematica il procedimento di semplificazione, deformazione e moltiplicazione dei punti di vista propria del cubismo. Il Cubismo si proponeva di offrire all'osservatore una visione totale della realtà, a prescindere da come essa si presentava allo sguardo. A questo scopo gli oggetti venivano raffigurati come se fossero stati colti da più angolature e punti di vista. L'organizzazione in una stessa immagine di lati diversi di uno stesso oggetto era, però, in contraddizione con le leggi della prospettiva tradizionale, che imponevano all'artista la scelta di un unico punto di vista centrale. Rappresentare un oggetto da diversi lati comportava un procedimento di scomposizione e ricomposizione dell'oggetto sulla tela. I quadri cubisti raffigurano forme di oggetti reali scomposte in frammenti geometrici elementari. I frammenti in molti casi assomigliano a sfaccettature di cubi o a elementi sferici, da cui la denominazione. Tra i generi pittorici tipici del Cubismo figurano interni di stanze, nature morte e ritratti.
I soggetti più ricorrenti sono personaggi in poltrona, tavolini con vassoi e bottiglie, composizioni di strumenti musicali, giornali e carte da gioco.


Comune a tutte queste avanguardie è il lavoro collettivo, per gruppi, spesso in senso organizzato e omogeneo; ciò implica il focalizzarsi di uomini e tendenze in alcuni centri (Parigi, Vienna, Zurigo, Monaco, San Pietroburgo, Berlino, Milano), le capitali europee dell'avanguardia. Alle origini di ogni movimento c'è di solito un piccolo gruppo o anche un solo intellettuale che promuove un manifesto, in cui viene delineato il programma attorno al quale si coagulano altri artisti. Ogni avanguardia, inoltre, gestisce una o più riviste, su cui viene approfondito il programma teorico e sono pubblicate alcune opere esemplari. Si verifica però anche il caso di alcuni grandi autori, come Joyce o Kafka, che rimangono isolati, non collegati a un gruppo esistente: tuttavia le loro proposte risultano così nuove e importanti da potersi senz'altro definire d'avanguardia.
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Bombardamento - Zang Tumb Tumb: Filippo Tommaso Marinetti


Marinetti descrive il bombardamento ad opera dei Bulgari della città turca di Adrianopoli, a cui assistette, come inviato del giornale Gil Blas, durante la guerra tra queste nazioni (nota come seconda guerra balcanica), nel 1912.


Testo

ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare
spazio con un accordo tam-tuuumb
ammutinamento di 500 echi per azzannarlo
sminuzzarlo sparpagliarlo all´infinito
nel centro di quei tam-tuuumb
spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati)
balzare scoppi tagli pugni batterie tiro
rapido violenza ferocia regolarita questo
basso grave scandere gli strani folli agita-
tissimi acuti della battaglia furia affanno
orecchie occhi
narici aperti attenti
forza che gioia vedere udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare
a perdifiato sotto morsi shiafffffi traak-traak
frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie
salti altezza 200 m. della fucileria
Giù giù in fondo all'orchestra stagni
diguazzare buoi buffali
pungoli carri pluff plaff impen-
narsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack
ilari nitriti iiiiiii... scalpiccii tintinnii 3
battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac
[ LENTO DUE TEMPI ] Sciumi Maritza
o Karvavena croooc-craaac grida delgli
ufficiali sbataccccchiare come piatttti d'otttttone
pan di qua paack di là cing buuum
cing ciak [ PRESTO ] ciaciaciaciaciaak
su giù là là intorno in alto attenzione
sulla testa ciaack bello Vampe
vampe

vampe vampe

vampe vampe

vampe ribalta dei forti die-

vampe

vampe
tro quel fumo Sciukri Pascià comunica te-
lefonicamente con 27 forti in turco in te-
desco allò Ibrahim Rudolf allò allò
attori ruoli echi suggeritori
scenari di fumo foreste
applausi odore di fieno fango sterco non
sento più i miei piedi gelati odore di sal-
nitro odore di marcio Timmmpani
flauti clarini dovunque basso alto uccelli
cinguettare beatitudine ombrie cip-cip-cip brezza
verde mandre don-dan-don-din-bèèè tam-tumb-
tumb tumb-tumb-tumb-tumb-tumb-
tumb Orchestra pazzi ba-
stonare professori d'orchestra questi bastona-
tissimi suooooonare suooooonare Graaaaandi
fragori non cancellare precisare ritttttagliandoli
rumori più piccoli minutisssssssimi rottami
di echi nel teatro ampiezza 300 chilometri
quadri Fiumi Maritza
Tungia sdraiati Monti Ròdopi
ritti alture palchi logione
2000 shrapnels sbracciarsi esplodere
fazzoletti bianchissimi pieni d'oro Tumb-
tumb 2000 granate protese
strappare con schianti capigliature
tenebre zang-tumb-zang-tuuum
tuuumb orchesta dei rumori di guerra
gonfiarsi sotto una nota di silenzio
tenuta nell'alto cielo pal-
lone sferico dorato sorvegliare tiri parco
aeroatatico Kadi-Keuy



Analisi del testo e commento


Temi: il dinamismo, la violenza e la spettacolarità della guerra.
Anno: 1914

Da Zang Tumb Tumb, pubblicato nel 1914 nelle Edizioni futuriste di Poesia, dopo qualche anticipazione su Lacerba, il poemetto in prosa parola libera si divide in dieci parti.

Il componimento offre una rappresentazione, in parte verbale e in parte visiva (con l’uso di parole in neretto e maiuscole e con la particolare disposizione delle parole sulla pagina), del bombardamento subito nell’ottobre 1912 da Adrianopoli, una città turca, a opera dei bulgari. Il passo costituì il cavallo di battaglia di Marinetti declamatore.

Il brano celebra il rito igienico della guerra, del quale vuole esprimere sulla pagina scritta tutta la forza dinamica. La violenza e la ferocia della guerra sono recepite da Marinetti come musica, come spettacolo bellissimo e purificatore.
Lo stile sostiene il messaggio: le parole in libertà servono a commentare come didascalie l’avvenimento guerresco. L’autore vuole rappresentare le sensazioni suggerite dal bombardamento nella maniera più oggettiva e fedele possibile. Non descrive, perciò, ma raccoglie con ossessiva attenzione le impressioni, le immagini, i suoni e i colori di una giornata di guerra. Le forme sulla pagina imitano lo sconquasso provocato dai bombardamenti.
Sono ripetuti ed evidenziati i sostantivi chiave, che esprimono le virtù e i valori che si vogliono celebrare.


Sul piano linguistico, spiccano tre fenomeni:
- la mancanza di punteggiatura;
- l’uso ossessivo dell’onomatopea, che diviene pienamente comprensibile solo se il brano viene letto ad alta voce e recitato.
- infine l’uso dell’accumulo verbale: incontriamo serie di verbi all’infinito /sventrare, balzare, scandere ecc.), sequenze di vocaboli che si richiamano per analogia (azzannarlo, sminuzzarlo, sparpagliarlo; oppure alture, palchi, loggione).


Malgrado tutto Marinetti non riesce però a ricorrere in maniera esclusiva alle parole in libertà.
Nel testo incontriamo infatti frasi di sapore tradizionale (non sento più i miei piedi gelati), incentrate su quell’io che, in teoria, la sua poetica rifiuta.
L’autore vorrebbe eliminare gli avverbi, e invece si lascia sfuggire un "comunica telefonicamente" e gli avverbi di luogo (su giù là là intorno in alto), che accentuano il senso del movimento spaziale.
La stessa caduta della punteggiatura è compensata dall'uso degli spazi bianchi, che hanno, in fondo, la medesima funzione di scandire i temi della letteratura.

Lo sforzo è quello di rendere il dinamismo della materia e la simultaneità delle sensazioni, trasferendole sul piano acustico e visivo, in cui i vari elementi tendono a mescolarsi e a compenetrarsi.
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Il Manifesto tecnico della letteratura futurista, Filippo Tommaso Marinetti


Dopo aver indicato la portata ideologica della sua operazione nel Manifesto del futurismo, nel maggio 1912, compare per le "edizioni futuriste di Poesia" il "Manifesto tecnico della letteratura futurista" di Filippo Tommaso Marinetti. Esso presenta un programma tecnico con proposte riguardanti lo stile, la sintassi e l'uso delle parole.


Spiegazione e commento

Marinetti enuncia qui - da un punto di vista operativo e appunto tecnico - i procedimenti su cui intende basarsi la nuova letteratura futurista. Il punto da cui iniziare deve essere la distruzione della sintassi, intesa come impalcatura o impianto concettuale, che rende possibile, attraverso un'articolazione logica del pensiero, la trasmissione e le ricezione della stessa comunicazione letteraria.

Di qui la necessità di avanzare delle proposte alternative e sostitutive:

1) I sostantivi vanno messi a caso, di primo impulso, di istinto, senza rispettare il minuzioso ordine della sintassi.

2) I verbi devono essere coniugati all'infinito per comunicare il senso della durata. In questo modo si sottrae all'azione la sua connotazione particolare, specifica e circoscritta, accentuandone la durata e l'atemporalità.

3) Si devono abolire gli aggettivi perché sminuisce il valore del sostantivo. Inoltre gli aggettivi posseggono certe sfumature che richiedono un certo tempo per essere capite, un tempo che per i futuristi non c'è perché corrono veloci, hanno una visione dinamica.

4) Si deve abolire l'avverbio perché danno informazioni aggiuntive superflue.

5) Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè le analogie di parole unite dal trattino (es. porta-rubinetto) senza l'uso della congiunzione (come, quale, così) che collega le due parole.

6) Si deve abolire la punteggiatura perché non essendoci più gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni se ne può fare benissimo a meno. La punteggiatura può essere sostituita dai segni matematici (+ - : = ><) e i segni musicali. Per Marinetti la punteggiatura rende la comunicazione lenta e difficile, mentre invece è necessaria una maggiore forza espressiva.

7) Si deve fare ricorso all'analogia con paragoni sempre più vasti come gli autori e non come gli autori del passato che si limitavano a paragonare gli uomini agli animali.

8) Le parole e le immagini non devono essere suddivise in categorie perché sono tutte sullo stesso piano. È quindi l'intuizione che coglie l'elemento della vita e lo riproduce. Bisogna rifiutare tutto ciò che impedisce la vita, si va avanti per intuizione; bisogna andare avanti e non impedire la vita, e ciò bisogna farlo anche con la letteratura.

9) Per dare dinamismo bisogna agire sulla trama delle relazioni analogiche, in quanto simula il movimento, la velocità, la simultaneità.

10) All'ordine dell'arte tradizionale si contrappone un massimo di disordine.

11) I futuristi non cercano il "bello", anzi lo disprezzano, "cercando coraggiosamente il brutto".


Il discorso tende poi progressivamente ad estremizzarsi: dall'analogia si passa a una "gradazione di analogie sempre più vaste”; dalla distruzione della sintassi si giunge a teorizzare le "parole in libertà" che rendono possibile il trionfo dell'"immaginazione senza fili".

Se dovessimo riassumere tutto questo in una sola frase dovremo dire che: "La forma e l'eleganza sono morte e che l'istinto è l'unica forza vitale esistente."
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Il Manifesto del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti


Con il titolo Fondazione e Manifesto del Futurismo, l'intervento che rappresenta l'atto di nascita del movimento marinettiano, apparve sul quotidiano francese «Figaro» il 20 febbraio 1909.

Una delle maggiori novità del Futurismo è l'uso del manifesto come mezzo, contemporaneamente, d'intervento polemico, di progetto teorico, d'indicazione di obiettivi da perseguire. Il linguaggio dei manifesti futuristi accoglie le varie scritture dell'area industriale: programmi bilanci e consuntivi aziendali, relazioni scientifiche, documenti di partito, piattaforme di rivendicazione sindacale. Non a caso i manifesti futuristi vengono definiti tecnici. Sono di solito strutturati in tre parti (analisi della situazione, proposta teorica, individuazione degli strumenti utili) e guardano all'arte, nei suoi vari ambiti, come un’attività programmabile e riproducibile.

Un punto importante è che i manifesti futuristi si presentano come documenti collettivi e come una piattaforma comune, alla quale in seguito altri possono aderire.

Presentandosi come manifesti, essi annunciano un programma e lo fanno senza perdersi in argomentazioni razionali o esempi. Il linguaggio, fatto di frasi dirette e assertive, a passo di carica, senza sfumature, imita la velocità emblema stesso del Futurismo.

Il più famoso dei manifesti futuristi è quello di fondazione, pubblicato da Marinetti prima in un volantino di due pagine, e poche settimane dopo su Le Figaro (febbraio 1909). Ne proponiamo la parte centrale:

1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patritottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili de loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.
È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo» perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquarii.
Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri.
Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli.



Spiegazione e commento

Il manifesto ha un significato soprattutto ideologico, in quanto enuncia i principi fondamentali della rivoluzione futurista.

L'argomentazione del discorso dei futuristi è radicalmente opposta alla mentalità del passato, che considerano "imbalsamata" e la identificano con la morte. Un esempio di cultura imbalsamata sono i musei, le biblioteche, le accademie. Secondo i futuristi la vita si trova nel movimento, nell'azione più energica, frenetica e spavalda.

Il punto 3 del Manifesto del Futurismo elenca una serie di cose che vogliono esaltare e sono il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di cosa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno; in tutto ciò si può notare il passaggio dal piano spirituale-intellettuale a quello ginnico-sportivo, fino all'aggressività e alla violenza (viste come conseguenze estreme, l'amore per la lotta e l'esaltazione della guerra).

Anche sul piano artistico il programma è basato su un netto capovolgimento dei canoni tradizionali: dall'ammirazione delle opere antiche si passa all'estetica della velocità. Essa celebra la bellezza della "macchina" e si propone come segno della modernità.

Il "Noi" con cui è avviato il discorso collega l'appello marinettiano all'autorità del gruppo; quello di una nuova generazione di poeti, definiti simbolicamente "incendiari".



Altri manifesti del futurismo

Un altro celebre manifesto fu Uccidiamo il chiaro di luna!, uscito come volantino e poi, nell’ottobre del 1909, in Poesia: esso aggregava in una visione interdisciplinare letterati, pittori e musicisti. Trattava il tema dell'uccidere la contemplazione e l’estasi, la poesia lirica e i suoi femminili languori.
Tra gli altri manifesti si ricordano: il Primo manifesto politico (1909) e il Secondo manifesto politico futurista (1912); Contro Venezia passatista (1910), di Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo; il Manifesto dei pittori futuristi (1910); Il Manifesto tecnico della letteratura futurista, pubblicato come prefazione all’antologia.
I poeti futuristi (uscita a Milano per le Edizioni futuriste di Poesia, 1912) è l'ultimo Manifesto tecnico e suggerisce anche i modi applicativi del paro liberismo: secondo lo stile proprio del manifesto futurista, la scrittura viene cioè utilizzata in funzione attiva, come spinta all’agire. Un suo seguito è l’altro manifesto marinettiano Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà (1913).
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Una mela al giorno leva il medico di torno - Significato


Una mela al giorno leva il medico di torno è uno di quei proverbi della lingua italiana che sentiamo di frequente, specie in televisione quando si parla di virus e influenza o nelle riviste che affrontano l'argomento salute e benessere. Quello che ci si chiede è cosa rende la mela così speciale e perché non si dice lo stesso per altri frutti come la banana o la pesca.


Significato

Quello che non tutti sanno è che la mela possiede proprietà benefiche ben superiori ad altre tipologie di frutta e se addirittura esiste un proverbio che lo afferma, vuol dire che il suo valore già si conosceva da molto tempo addietro. Mangiando altra frutta potrete ottenere tutti i singoli benefici della mela, ma questo è l'unico frutto che le racchiude tutti al suo interno.

Qui di seguito ne riportiamo alcuni:

1) La mela contiene contiene vitamine importanti come provitamina A, vitamine B1 (che combatte inappetenza, stanchezza e nervosismo), B2 (che facilita la digestione, protegge le mucose della bocca e dell’intestino e rinforza capelli e unghie), B6, E e C (che migliora notevolmente il nostro sistema immunitario).

2) Previene le malattie cardiache.

3) Ha poche calorie. Una mela di dimensioni medie ha fra le 70 e le 100 Calorie.

4) Le mele prevengono molti tipi di tumori come il cancro al colon, il cancro della prostata ed il cancro al seno. Però lo studio americano fa riferimento solo ed esclusivamente alla buccia delle mele.

5) Aggiustano i valori del colesterolo. Riduce il colesterolo cattivo e aumenta quello buono

6) Prevengono le carie. Il succo di mele ha proprietà che possono uccidere fino all'80% dei batteri, inoltre contiene l'acido ossalico che sbianca i denti. Così toglie anche il dentista di torno!

7) Protegge da malattie cerebrali. Questa è una cosa che pochi sanno ma forse è la più importante.

8) È l'ideale per i diabetici perché ha pochi zuccheri e tiene sotto controllo la glicemia.

9) Fa bene ai polmoni. Si ritiene che mangiando mele si riesce a respirare meglio.

10) Sono buone!! Ce ne sono di vari gusti e colori (verdi, rosse, gialle) e non a caso si tratta di uno dei frutti più apprezzati dagli italiani.


Appunto perché gli effetti benefici delle mele sono tanti, il proverbio ci scherza su, lasciando intuire che mangiandole quasi non serve nemmeno recarsi periodicamente dal dottore per farsi visitare, perché si starà sempre bene... e che il cibo, quello sano e naturale, è la migliore medicina!



Origine

L'origine di questo proverbio è incerta, come tutti i proverbi d'altronde, e anche se non lo si può attribuire a nessuno con certezza, vi sono state varie persone del passato che l'hanno usato, seppure in forma leggermente diversa, ma con lo stesso significato.

Molte fonti dicono che il primo uso conosciuto di questo proverbio fu di Pembrokeshire (Galles) nel 1866 :
Eat an apple on going to bed And you'll keep the doctor from earning his bread.


Altre fonti attribuiscono il proverbio a Benjamin Franklin, affermando che lo abbia incluso nel "Poor Richard's Almanack" (pubblicato dal 1732 al 1758).


Il Dizionario dei cliché sostiene che le versioni di questo detto risalgono al diciassettesimo secolo o prima, e che fece la sua comparsa nella proverbiale raccolta di John Ray del 1670.
He that would an old wife wed, Must eat an apple before he goes to bed


Ancora un'altra fonte sostiene che il proverbio risalga all'antica Roma.



Uso

Una frase in forma di filastrocca che si utilizza molto spesso quando si dice a qualcuno che deve mangiare più frutta, quindi la mela, che è disponibile tutte le stagioni dell'anno.

- Basta dolciumi per spuntino, ho comprato apposta delle mele! E come dice il famoso proverbio: una mela al giorno toglie il medico di torno...
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Valige o Valigie: come si scrive?


Si scrive Valige o Valigie? Qual è il corretto plurale di valigia?
Certamente in caso di dubbio possiamo anche usare i sinonimi (bagaglio, borsone, trolley), ma è un termine talmente comune, specie nei periodi di vacanza e ferie, che la brutta figura si può considerare solo rimandata. Tra l'altro la regola grammaticale è pure semplice da capire e ricordare.


La regola grammaticale

La grammatica italiana stabilisce che
  • se la c e la g di "-cia" e "-gia" sono precedute da una vocale (ciliegia, camicia, fiducia), allora la i resta nel plurale;
  • se invece la c e la g di "-cia" e "-gia" sono precedute da una consonante (faccia, arancia), allora la i si elide.


Quindi il termine corretto è valigie perché prima della desinenza -gia di "valigia" troviamo la vocale "i", invece valige è assolutamente sbagliato anche se fino alla metà del secolo scorso era di uso comune.

Si tratta di una regola puramente ortografica, difatti pronunciando la parola "valigie" ad alta voce, nemmeno si nota la presenza o meno della vocale "i".

Tale regola si applica anche per le parole che terminano in -scia, che al plurale diventa -sce.



Esempio

Ecco alcuni esempi frequenti:

Precedute da consonante
freccia » frecce
coscia » cosce
pioggia » piogge

Precedute da vocale
ciliegia » ciliegie
camicia » camicie
valigia » valigie
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Il palombaro: analisi e commento - Corrado Govoni


Il palombaro è una poesia visiva di Corrado Govoni ed appartiene alla raccolta Rarefazioni e parole in libertà (1915).


Testo

alghe vermi verdi

cordone ombelicale
lunga lenza

burattino per il teatro muto dei pesci
acrobata profondo
spauracchio

becchino mascherato che ruba cadaveri di annegati

uomo pneumatico
assassino ermetico

accetta boia sottomarino

attinia

ceppo insanguinato dove lasciarono i capelli serpini le sirene decapitate

innaffiatoio
incudine

oloturia
sacco verminoso di conciaiuolo

primavera metallizzata dei coralli

ostriche cofani di sputi e di perle

medusa
ombrello di mendicanti
giostra fosforescente di cavallucci marini

cavallino indomabile
esca

stella carnivora...



Analisi del testo

È uno degli esempi più noti delle «tavole parolibere» di Govoni, che, pur ricollegandosi al Futurismo (basato sulle parole in libertà e il verso libero), si differenzia per la maniera inconfondibile del tratto e del segno. Se quello di Marinetti e dei seguaci futuristi è uno stile scattante, aggressivo e dinamico, quello di Govoni è invece un disegno infantile accompagnato da una scrittura altrettanto infantile, che fanno parte della sua formazione crepuscolare.

Il termine "rarefazioni", che compare nel titolo della raccolta, costituisce la spia indicativa di una poetica ancora attenta alla staticità di atmosfere sospese e un po' evanescenti.

Si tratta di una poesia visiva, ciò vuol dire che è costituita da disegni e da didascalie associate a ciascun disegno. Il testo non avrebbe alcun senso senza la parte raffigurata e viceversa. Questo stile è coerente con la poetica futurista, perché i futuristi basano la loro poetica sulle parole in libertà e il verso libero, mentre in questa poesia l'autore fa uso di punti tipografici differenti, elimina i verbi, la punteggiatura, le congiunzioni e dispone il testo e le raffigurazioni in modo totalmente libero.
I disegni di oggetti domestici e familiari offrono all'autore lo spunto per didascalie, che, interpretando i particolari in senso analogico (si leggano le diverse definizioni del «palombaro», a destra della figura), ne offrono anche interpretazioni ironiche o degradanti (le «ostriche» diventano «cofani di sputi e di perle»). Da notare come le parole e i disegni siano disposti in modo ondulante, per ricreare la sensazione di essere in un fondale marino.

Certamente la figura centrale della composizione è il palombaro, arricchito di aggettivi ben definiti: dapprima sono buoni (spauracchio, burattino, acrobata profondo) e poi diventano ostili (becchino mascherato, assassino ermetico, boia sottomarino).

Dalla radice etimologica stessa della parola si può dedurre qualcosa: palombarius, lo sparviero (= uccello rapace). Il palombaro e lo sparviero sono accomunati dall'immagine di chi si precipita o s'immerge per raggiungere la preda. È uno spauracchio perché è fonte di terrore assiduo e sempre incombente; è uomo pneumatico perché lo scafandro del palombaro è colmo d'aria; assassino ermetico perché lo stesso è chiuso ermeticamente; è boia sottomarino perché con un'accetta sembra un boia!

Ma è davvero così? "Il Palombaro" allude ad altro: non è esclusivamente un uomo in mezzo ad un oceano limitato da creature marine viventi. È ben altro...
"Il Palombaro" è come la poesia stessa: egli rappresenta tutta la produzione letteraria delle parolibere, che minacciosamente si immergono nel panorama letterario mondiale. Queste rinnegano tutta la produzione poetica antecedente, da Omero a D'Annunzio. Con le "tavole parolibere" si pensa di portare progresso attraverso la consapevolezza che la poesia in versi non abbia più alcuna utilità (pneumatico, cioè cosciente di se stesso, del suo obiettivo). Questo "uomo pneumatico" è visto da tutto il campo poetico come un assassino (perché fa massacro di tutta la letteratura precedente), ermetico (perché è denso di espressioni analogiche e simboliche, non sempre di facile interpretazione, quindi enigmatico, strano, alieno).



Figure retoriche

Analogia = ombrello mendicante. Il riferimento va alla forma a ombrello della medusa.

Metafora = primavera metallizzata dei coralli. Il riferimento va ai rametti di corallo, forse per il loro colore o per la loro apparente immobilità.

Analogia = attinia. All'autore ricorda un ceppo, cioè la base del fusto dell'albero, insanguinato, perché di colore rossastro.

Analogia = oloturia. Esso è un cetriolo di mare e lo definisce un "sacco verminoso di cenciaiuolo".

Analogia = lenza. Il riferimento va al cordone ombelicale, il collegamento tra mamma e bambino. In questo caso è il collegamento fra il palombaro e la superficie del mare.



Commento

"Il palombaro" descrive l'immersione di un palombaro nel fondale marino.

La poesia visiva potrebbe apparire, a chi la guarda con occhio poco attento, un testo per bambini. In realtà è proprio il contrario: il messaggio contenuto in questo tipo di poesia è criptico ed enigmatico... si può provare a darle un senso, ma si tratterebbero solo di una personale interpretazione.

Ad esempio, viene nominato il «sottomarino» e sappiamo che la poesia è stata scritta nel 1915. Siamo nel pieno della 1° Guerra Mondiale: i tedeschi guidati da Hindenburg avviano il blocco navale contro la Gran Bretagna, dando inizio alla guerra sottomarina indiscriminata. Ecco perché era cara a Govoni la scena del Palombaro/Sparviero. Probabilmente voleva denunciare gli atti compiuti nei Mari del Nord sia dall'Asse che dagli alleati; e a gran voce Govoni propaganda nel suo stile una pace senza indennità né annessioni.
Palombaro potrebbe essere lo straniero che terrorizza, tiranneggia, saccheggia, massacra. E viene definito dall'autore: spauracchio, becchino ruba-cadaveri, uomo pneumatico, assassino ermetico. Il palombaro è colui che distrugge indistintamente tutto ciò che è bello e inquietante, che depreda, che decapita. È il portatore del caos.
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Crepuscolo ferrarese: analisi e commento - Corrado Govoni


Crepuscolo ferrarese è una poesia che appartiene alla raccolta di liriche Fuochi d'artificio (1905). Nonostante abbia ancora un tono crepuscolare appare evidente anche l'adesione di Govoni al Futurismo per l'analogia fra elementi concreti e astratti.


Testo

Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.

Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.

La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.

I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.

Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata.

Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola


agita l’ali come un uccelletto
che in un laccio per i piedi sia stretto.

Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.

Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.

Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.

Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.

La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.



Parafrasi

Il gatto si stiracchia e sbadiglia sopra il davanzale che ha un vetrata cosparsa di bolle che sembrano lacrime.
Nel vaso di coccio ricoperto di muschio vi è un geranio che dona vivacità al colore degli altri fiori.
La tenda della camera esposta all'aria ha ricamate sopra delle rose di mussola.
I ritratti che sembrano contenere in sé tante storie passate, messi uno accanto all'altro in forma di ventaglio, sembrano esporre le memorie che contengono.
Sulla superficie dello specchio liscia come quella del mare calmo, il lume appare immobile come una nave affondata.
Intanto sul tetto di di una piccola chiesa nelle vicinanze, c'è un'asta con una banderuola di latta che segna la direzione dei venti, che agita le sue ali quasi come se fosse un piccolo uccello legato alle zampe con un laccio.
Nei cieli altissimi, dalle mura della città, si vedono fantastici aquiloni che volteggiano in aria.
Si sente il leggero garrire delle rondini nel nido e il verso di un grillo che fa sentire la sua presenza dentro l'orto.
E per sfondo un cielo che dà l'impressione di racchiudere nella sua rete d'oro la terra come un insetto canterino.
Dentro lo specchio (rappresentato come se fosse una superficie marina), tra giallastre spume riemerge il lume che sembra un polpo per le sue lunghe braccia.
La tristezza del poeta è stanca e si appoggia a una spalliera, nel mentre si sentono i rintocchi delle campane delle chiese il cui suono sembra quello di una ninna nanna serale.



Analisi del testo

METRO: Strofe di endecasillabi a rima baciata (AA, BB, CC ecc.). Le strofe sono dodici ed ognuna è composta da due versi che presentano una certa immagine.

Le cose e le atmosfere rappresentate in questa poesia, come suggerisce il titolo stesso sono ancora quelle "crepuscolari", sia per quanto riguarda gli oggetti domestici (i ritratti e la psiche), sia per il paesaggio circostante (la prossima chiesuola). La tecnica utilizzata è quella dell'elencazione, infatti le immagini vengono presentate come a caso, passando dall'interno all'esterno e viceversa. Fra l'interno e l'esterno vi è una sorta di linea di confine: dentro vi è la «tenda» e appena fuori il «davanzale», su cui stanno il gatto e la pentola d'argilla con i gerani.

Inoltre ci sono immagini tratte dalla realtà concreta e immagini astratte come le sensazioni che appartengono al mondo interiore del poeta. Per esempio, gli ultimi due versi rappresentano visivamente la tristezza, che è astratta, come fosse una persona vivente che, per la stanchezza, si appoggia a una spalliera, e poi il suono delle campane delle chiese che, come fossero delle mamme che cullano il bimbo, cullano la sera.



Figure retoriche

Ossimoro = pentola d'argilla / il geranio rinfresca. È un opposizione semantica, la pentola è un arnese che serve per scaldare e cuocere, mentre il gerano al suo interno dà una sensazione di freschezza.

Personificazione
= la tristezza (v. 23). Sembra una fanciulla stanca.

Personificazione = chiese (v. 24). Sembrano a una mamma che culla il proprio bambino.



Commento

Il poeta descrive un paesaggio quotidiano nell'ora del crepuscolo. La descrizione parte dal salotto, come è tipico dei crepuscolari, però non gli è sufficiente e così va oltre, e passa alla descrizione degli elementi esterni che circondano la casa, cioè le finestre, il gatto, i fiori. La sua descrizione non è lineare, ovvero non elenca per primi gli elementi interni e poi quelli esterni o viceversa, ma li descrive entrambi anche contemporaneamente come un osservatore distratto e indifferente all'ordine delle cose. Inoltre gli elementi caratteristici delle poesia di Govoni sono il colore, l'attenzione per i fiori e i loro colori, e i suoni, degli animali e delle campane, che nonostante la malinconia finale riescono a rallegrare un poco il suo animo.
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