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Mastro Don Gesualdo, Giovanni Verga

Alle prime luci del giorno di San Giovanni un incendio allarma tutta Vizzini, il paese dove ha luogo la narrazione. Si tratta di una delle ville della famiglia Trao, in particolare, quella dei fratelli Don Ferdinando, Don Diego e Bianca. Essi sono di famiglia nobile, tuttavia la loro fortuna è andata persa a causa dell’ozio e il loro unico tentativo arricchirsi si basa su alcuni documenti di un litigio. Queste carte ora sono in pericolo a causa del fuoco che sta devastando l’ultima fortuna dei fratelli Trao e per cui Don Diego suona la campana più volte per chieder aiuto. Accorre Mastro Gesualdo, protagonista del romanzo, il vicino di casa il quale per paura che l’incendio coinvolga anche l’edificio in cui abita pattuglia un gruppo di uomini giunti lì per soccorrere.
Qualcuno grida di veder un ladro scappare dalla stanza di Bianca Trao per cui Don Diego si affretta verso la stanza. Aperta la porta, Bianca si trova accanto ad un altro uomo: il cugino – di secondo grado – Don Ninì con cui ha passato una notte di passione. Giunge la Giustizia in casa Trao composta di alcuni uomini attirati da degli spari. Infatti alcuni spararono due colpi perché pensavano di aver visto un ladro, ma questi altro non era che Don Ninì.
Saputa la verità Don Diego chiede consiglio ai parenti, le zie consigliano di affrontare la cosa direttamente con la madre di Ninì, la baronessa Rubieri. Costei è un personaggio dalla personalità risoluta, orgogliosa, determinata in ogni azione che intraprende e proprio per questo tutti sono come intimoriti alla sua presenza: il cugino Don Diego non sembra fare eccezione.
Egli si reca presso la cugina Rubiera per parlare di Bianca; poiché la donna è stata disonorata, ingravidata e poiché non dispone di una dote, è costretta a maritarsi con il cugino Ninì. Don Diego spiega tale situazione alla cugina Rubiera presso la villa della baronessa ma ella, inizialmente infuriata, rifiuta possibili nozze tra il figlio e cugina Bianca. Ciò è dovuto alla differenza di denaro tra le due famiglie: i Trao sono nella miseria mentre i Rubiera sono più che benestanti. Don Diego, alla risposta secca della cugina, si allontana con aria mortificata quasi esanime. La baronessa, vedendo il familiare in tali condizioni e pensando alla cugina in cinta, viene mossa a compassione e promette al cugino che lei stessa provvederà a maritare Bianca a un gentiluomo, cioè a una persona che possiede discreti liquidi.
La scelta ricade su Mastro Don Gesualdo Motta, un uomo dalle umili origini che ha fatto fortuna in poco tempo. Questi punta alle terre comunali che sono messe all’asta, quelle terre che sono tramandate di padre in figlio all’interno della famiglia Zacco. Non gli è tuttavia possibile possedere le terre se prima non fa parte dell’élite del paese: tutti i nobili si opporrebbero a lui per cui egli ha bisogno di acquisire un cognome nobile per possedere lo “status” di nobile.
Nel frattempo il canonico Lupi, amico di Gesualdo e compagno d’affari della baronessa Rubiera, intende combinare il matrimonio tra Bianca e Motta stesso. Egli si reca dalla baronessa Marianna Sganci, zia dei Trao e solita a collaborare alla giornata dedicato al santo patrono con donazioni. Come ogni anno, la baronessa Sganci ospita in casa tutti i nobili del paese durante la processione per San Giovanni e il canonico Lupi le propone di invitare anche Mastro Don Gesualdo Motta per il bene delle nipoti Bianca e Rubiera. Con le mani legate, la baronessa Sganci non può far altro che accettare.
La sera di San Giovanni, Gesualdo entra nella villa Sganci sotto gli occhi increduli di tutta la nobiltà. Egli arrossito viene condotto al posto riservato a lui cioè al balcone vicino a Bianca Trao. Giunge al palazzo anche il barone Ninì Rubiera senza la madre ed egli viene accolto benevolmente dalla zia Marianna. Anche per lui c’è una donna che i parenti hanno preparato per lui: è Donna Fifì e anche lei fa parte della nobiltà. I due giovani amoreggiano, ma vengono interrotti da Bianca, giunta vicino a loro perché desiderosa di incontrare Ninì. Il giovane barone afferma che non l’ha dimenticata ma è la madre di lui a non accettare la relazione.
I pettegolezzi sulle nuove coppie si diffondono a velocità spedita e così la famiglia Trao viene giudicata come infame poiché Mastro Don Gesualdo è agli occhi di tutti un approfittatore che vuole comandare il paese. Effettivamente se Motta riuscisse ad acquistare le terre comunali il suo potere sarebbe al di sopra di ogni altro nobile della località.
Don Gesualdo è indeciso se imparentarsi con i Trao o meno, anche perché nel suo cuore c’è già un’altra donna: Diodata, serva fedele e anch’essa innamorata di lui. Tornando a casa egli parla della situazione a Diodata, esprimendosi quasi con dei sensi di colpa, e le dice quanto questa opportunità di entrar a far parte della nobiltà sia un compenso a tutta la sua fatica. Dalla risposta della serva si scopre che Don Gesualdo ha avuto dall’amata due figli mandati in orfanotrofio. L’uomo promette alla serva che continuerà a mantenerla anche dopo sposatosi.
Alcuni dì dopo il fiume è in piena a causa di una forte tempesta: ciò causa danni considerevoli al ponte in costruzione la cui cauzione è stata pagata da Gesualdo. Il padre di questi, Mastro Nunzio, era stato incaricato alla costruzione del ponte, tuttavia, per risparmiare, egli non predispose l’edificazione ad eventuali piene del fiume. Molti materiali sono andati persi, la cittadina incolpa Mastro Don Gesualdo e quest’ultimo teme di perdere la cauzione. A salvarlo da questa situazione fu il canonico Lupi il quale negozia direttamente con l’amministrazione. Questo aiuto non è gratuito: Lupi si fa promettere che Don Gesualdo si sarebbe sposato con Bianca per avere l’appoggio della Baronessa Rubiera, dopo di che avrebbe acquistato le terre comunali in società con il canonico stesso.
Dalla negoziazione di Lupi con l’amministrazione Don Gesualdo comprende che imparentarsi con una nobile famiglia gli avrebbe spianato la strada per molteplici azioni finanziarie.
Il canonico intanto convince Bianca a sposare Gesualdo, non essendoci alternative migliori. Ella ne rimane persuasa ma trova l’attrito dei suoi due fratelli Don Ferdinando e Diego. Il fratello minore non riesce proprio ad accettare il matrimonio perché Gesualdo Motta non è un nobile, e nonostante sia malato e senza soldi per permettersi cure, non vuole i soldi dei Motta. Giunge la zia baronessa Sganci per spiegare al nipote che il matrimonio con Gesualdo è una fortuna incredibile che può risollevare l’intera famiglia. Don Diego anche resistente chiede a quattrocchi cosa vorrebbe la sorella e questa si dice con le mani legate. Anche la famiglia Motta è contraria al matrimonio e all’annuncio fatto da Gesualdo, tutti i parenti imprecano ferocemente.
Le nozze sono state dunque fissate e al matrimonio si presentano solamente uno zio ed una zia. La lunga tavola imbandita per tutti i parenti è completamente vuota. Lo scenario mette a disagio i novelli sposi. Vengono a rallegrare le nozze i servi di Don Gesualdo, le cui rozze maniere non risollevano l’animo di Donna Bianca, ma anzi la deprimono ancor di più. Una volta maritatosi è pronto per la conquista delle terre comunali e, infatti, si presenta all’asta per l’acquisto. A questo evento è presente pure il barone Ninì, Don Zacco e altri nobili del paese. Il barone Rubiera si sente offeso nel non riuscire a competere con una persona che è visto come un approfittatore dalla nobiltà, per cui si lancia nella folle impresa di acquistare le terre comunali nonostante la cifra incredibilmente alta. Ninì, preso dall’ira, offre sei lonze – cifra incredibilmente alta – e a quel punto Don Gesualdo offre sei lonze e quindici. L’offerta di Don Gesualdo contro il barone Rubiera mette tutta la nobiltà contr di lui così che l’amministrazione del comune – la quale favoreggia per il barone – dichiara che l’asta è rimandata poiché non c’è più concorrenza, ovvero che la cifra indicata da Motta non è garantita.
Nel frattempo Ciolla, un personaggio che invidia Gesualdo nei massimi limiti, approfitta di una rivolta a Palermo per scaldare gli animi dei compaesani e per esortarli a combattere i nobili. Egli accusa Gesualdo come causa della povertà della cittadina dunque la città s’infuoca contro di lui. Egli però decide di unirsi alla rivolta e partecipa a diverse riunioni in segreto, in modo che quando i moti rivoluzionari avranno la meglio pure lui ci ha da guadagnare, anche se questo significa fare lo sgambetto ai nobili del paese. Dopo aver partecipato ad una riunione con dei rivoluzionari, egli scappa a causa della presenza delle pattuglie borboniche. Si rifugia nella casa di Diodata, la quale l’ha fatta maritare a Nanni l’Orbo. Entrato in casa la donna teme che il marito torni a casa e fraintenda la situazione: infatti accade esattamente quanto temuto. Nanni se la prende con Don Gesualdo perché il servo ha dovuto riprendere in casa i figli illegittimi del padrone e della moglie. Per calmare la collera del servo Don Gesualdo promette a Nanni alcune terre molto redditizie.
Intanto giunge a Bianca la notizia della morte del fratello Don Diego e quando assiste al cadavere, ella sviene. Dopo il ricovero ella partorisce una figlia: è nata Isabella. Tutti i parenti di parte Trao vengono a trovare la neonata il giorno del battesimo, compresa la baronessa Rubiera. Ma essa è venuta anche con un altro scopo: accertarsi se è vero che il figlio ha degli enormi debiti con Mastro Don Gesualdo. Egli fa il misterioso, ma fa intendere che è tutto vero: il figlio della baronessa Ninì Rubiera, innamoratosi di una povera attrice, pur di conquistare il cuore dell’amata, fece i più costosi regali possibili, così che dovette chiedere prestiti di ingenti somme. Gesualdo accettò subito poiché in tal modo riusciva a risolvere il difficile rapporto con casa Rubiera, causato a sua volta dall’asta delle terre comuni, a danno della Baronessa stessa. Accertatasi dell’atto folle del figlio, essa litigò con il figlio in modo furioso fino a diventare muta: il figlio aveva addirittura ipotecato la casa a Gesualdo.

Passano gli anni e Don Gesualdo, con l’adesione ai moti rivoluzionari dei carbonari, si è fatto ancora più potente. Isabella nel frattempo è cresciuta, essa finalmente può tornare a casa dopo aver trascorso un lungo tempo in collegio. Il padre, infatti, ha voluto che tornasse a casa essendosi diffusa nella regione un’epidemia di colera. L’intera famiglia si trasferisce nella casa in campagna per proteggersi dall’epidemia e lì vengono caldamente accolti dai servi di Don Gesualdo. Il rapporto tra la figlia e il padre tuttavia non è dei migliori, mentre alla vista della madre, Isabella si rallegra fino al profondo del suo cuor.
Nella casa in campagna si presenta Nanni l’Orbo, questa volta portando i due figli di Gesualdo, Nunzio e Gesualdo, ormai cresciuti. Nanni chiede ulteriori terre per mantenere i figli e Gesualdo accetta alla vista dei due garzoni.
Nella casa di campagna sono ospiti anche la zia Sarina Cimerna, colei che era presente al matrimonio, e il nipote Corrado la Gurna. Questi, giovane ragazzo, s’innamora di Isabella e con lei trascorre piacevoli giornate nella campagna, tra letture e racconti. Ma Don Gesualdo, di origine umile, non riesce a comprendere le finezze della letteratura o dell’animo sognante adolescenziale: durante una cena Gesualdo afferma rivolgendosi al giovane Corrado, che la poesia è un’inutile perdita di tempo peraltro infruttuosa. La zia Cimerna tenta di impartire una lezione sul romanticismo ma Don Gesualdo scaraventa il libro sul piatto della donna e in modo rozzo le chiede se di cultura si possa vivere. L’atto rude del padre suscita l’indignazione della figlia che disprezza ancor più il padre vergognandosi di lui. Per questo motivo la convivenza tra padre e figlia diventa impossibile quando il Gesualdo decide di ostacolare la relazione tra Corrado e Isabella, ormai in cinta di lui. Il cugino Corrada viene fatto arrestare dal padre e mandato in esilio, mentre la ragazza è momentaneamente spedita in un monastero. La madre vorrebbe vedere la figlia ma non può, lo stress causato dalla separazione e la sua salute cagionevole fanno ammalare Bianca.
Mastro Don Gesualdo intanto procura un matrimonio di riparazione alla figlia: attirato dalla ricca dote, dà in sposa Isabella al Duca di Leya. La figlia non è d’accordo ma dopo varie pressioni del padre anch’essa cede. Questo matrimonio risulta invece una scelta fallimentare poiché il genero sperpera tutto il denaro di Don Gesualdo e non ama affatto la moglie. La figlia minaccia di suicidarsi perché infelice e la madre Bianca vorrebbe vedere la figlia. La situazione di Bianca peggiora e in fin di vita si fa promettere dal marito che essi non si sarebbe risposato. Viene a mancare Bianca. Ora Don Gesualdo è solo e abbandonato da tutti, persino dai servi.
Don Gesualdo ha lancinanti dolori allo stomaco e per cui ha bisogno di un medico che diagnostichi la malattia. Viene prima ospitato dal marchese Limoli poi da Don Ferdinando. Il genero, che tanto disprezza il suocero, vuole accaparrarsi l’eredità perciò obbliga Gesualdo a trasferirsi a Palermo nel suo palazzo promettendogli le migliori cure. Gli viene diagnosticato un cancro allo stomaco e per cui per Mastro Don Gesualdo non ci sono più speranze di vita. Egli non riesce ancora a farsi accettare dalla figlia e in fin di vita ripercorre alcuni momenti della sua vita come il momento in cui spedì la figlia in collegio: già all’epoca aveva notato quanto la figlia assomigliasse alla madre ed era per niente compatibile a lui. Muore assistito solamente da un servo il quale si sbeffeggia di lui e ritiene il compito affidatogli indegno persino per lui.
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Confronto tra i Malavoglia e Mastro don Gesualdo

di Giovanni Verga
Confronto:

I due romanzi sembrano proporre un’ideale gerarchia delle ambizioni che muovono gli uomini nella loro incessante lotta per la vita e per il progresso: al livello di una pura lotta per la sopravvivenza si colloca la famiglia dei Malavoglia, i cui componenti ambiscono ad evadere dalla miseria e dalla precarietà in cui vivono, mentre al livello delle ambizioni di un uomo già ricco, che sogna di entrare nella società dei nobili, si colloca Mastro don Gesualdo. Al di là di questa diversa strutturazione di un identico motivo ispiratore, ci sono però, nei due romanzi, una diversa struttura narrativa e un diverso impianto ideologico, che, pur partendo da identiche premesse di pessimismo, sembrano orientare verso sbocchi opposti. Per quanto riguarda il primo aspetto, mentre I Malavoglia si presenta come un romanzo corale, in cui domina la religione della casa e del lavoro, nel secondo romanzo domina su tutti un eroe che il mito della “roba” travolge in una tragica solitudine.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, sebbene il pessimismo di Verga sia ugualmente evidente ed amaro in tutta la sua narrativa, in contrasto con certo facile ottimismo della cultura positivista, nei Malavoglia non è certo attenuato, ma, per così dire, compensato da quella forza che è la sola a cui i poveri possono ancorare la propria esistenza: gli affetti familiari, il focolare domestico (il pessimismo è infatti confermato dal fatto che chi sogna di uscire da questo romanzo, viene meno anche quella forza, in quanto il protagonista sembra completamente alienarsi nel mito della “roba” (è in sostanza suo unico affetto) e tutti i personaggi, a qualsiasi ceto sociale appartengano, sembrano travolti dalla bufera degli eventi, senza alcun ancoraggio che valga ad offrire una qualche resistenza agli eventi stessi.
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Come Muore Mastro don Gesualdo

di Giovanni Verga
Riassunto:

Mastro don Gesualdo è condannato a morte in un’amara solitudine tra il disprezzo dei domestici e l’insofferenza della figlia e del genero ai quali il vecchio morente non riesce a dire altro che raccomandare, ma inutilmente, di aver cura della sua “roba”, evidentemente il suo unico affetto. Se nei Malavoglia è evidente una dimensione di coralità, nel Mastro don Gesualdo domina il motivo della tragica solitudine del protagonista, preannunzio di quella che sarà la tipica malattia dell’uomo moderno, l’incomunicabilità.
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Commento: Mastro don Gesualdo, Verga

di Giovanni Verga
Commento:

Il romanzo Mastro don Gesualdo, nell'ispirarsi al mito della “roba”, che costringe a una desolata solitudine e a un aridamento spirituale chi ne resta abbagliato, evidenzia la lotta per la vita di chi è mosso dall'ambizione di tentare il salto di classe, non solo per il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, ma anche per poter meglio salvaguardare il frutto del proprio duro lavoro. E’ il caso di Gesualdo, un muratore che, a costo di rinunce e sacrifici, è riuscito ad arricchirsi, diventando proprietario di molti terreni, tanto che, ambizioso di fare il salto nella classe della nobiltà, sposa una nobildonna, Bianca Trao, disposta a questo matrimonio per un errore di gioventù. Ma mastro Gesualdo, diventato “don”, è condannato a una condizione penosa di solitudine e di esclusione viene disprezzato dai nobili, che lo considerano un intruso, anche pericoloso per le disponibilità economiche di cui gode, e, all'interno della sua stessa famiglia, è emarginato sia dalla moglie, che non gli perdona l’origine plebea, sia dalla figlia, Isabella, che del resto non è neppure sua e che poi si sposa con un nobile spiantato che sperpera il patrimonio così faticosamente accumulato.
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Trama breve dei I Malavoglia

di Giovanni Verga
Trama in sintesi breve:

I Malavoglia sono una famiglia di pescatori di Acitrezza: il loro nome era Toscano. Essi vivono nella “Casa del nespolo” da tante generazioni e possiedono una barca, la “Provvidenza”, a cui affidano le sorti della loro vita, ma la “Provvidenza” naufraga, trascinando nella rovina l’intera famiglia. Nel naufragio scompare Bastianazzo, la barca è andata distrutta e così non avevano i soldi nemmeno per pagare il carico di lupini che non sono riusciti a vendere a seguito dell'incidente. Per sanare il debito si vedono costretti a cedere la Casa del nespolo. Il padre di Bastianazzo, il vecchio Padron ‘Ntoni, muore all'ospedale,  più tardi muore anche la moglie di Bastianazzo, Luca muore nella battaglia di Lissa, il giovane ‘Ntoni cerca di far fortuna col contrabbando, ma viene arrestato, Lia prende una cattiva strada, e Mena, non essendosi potuta sposare per la cattiva fama della sorella, va a vivere con la famiglia dell’ultimo suo fratello, Alessi, il quale, dopo tante sventure, riuscirà a formare una sua famiglia e a ricomprare la “Casa del nespolo”.


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Temi del romanzo I Malavoglia

di Giovanni Verga
Riassunto e commento:

I Malavoglia, che avrebbe dovuto costituire il primo dei cinque romanzi del “ciclo dei vinti”, è centrato sul tema della lotta per l’esistenza e per il miglioramento delle condizioni di vita al livello più basso della scala sociale, quello di una povera famiglia di pescatori siciliani. E’ quindi il tema della lotta per la sopravvivenza, per il pane quotidiano, ad essere proposto. E’ una sorta di romanzo corale, sia perché i protagonisti sono i componenti di una famiglia la cui forza è nell'unione  nel lavorare insieme di tutti, sia perché protagonista dell’azione, in senso più ampio, sembra un intero paese che assiste alle disgrazie della famiglia. E’ evidente una sorta di “religione del focolare domestico”, in quanto è il vivere uniti nel nucleo familiare che consente meglio di resistere alle avversità della natura e della società; chi se ne allontana, come alcuni dei figli di Bastianazzo, è destinato a ritrovarsi solo ed indifeso; certo, l’ambizione ed il desiderio di far fortuna portano alcuni lontano dalla famiglia, ma questi, sradicati definitivamente  vanno irrimediabilmente incontro alla sconfitta.
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Commento Introduzione I Malavoglia

di Giovanni Verga
Commento:

Nella prefazione ai Malavoglia, il Verga accoglie senz'altro la tesi positiva dell’infinito progresso dell’umanità, ma osserva come la “fiumana del progresso”, travolgendo gli individui, comporti l’infelicità degli stessi. Proprio per questo, lo scrittore siciliano parla di “vinti”, a significare che il progresso, se considerato nel suo insieme (o, come dice l’autore, “visto da lontano”), si presenta grandioso: in realtà comporta sempre la sconfitta dei singoli, per cui il destino generale dell’umanità non coincide assolutamente con i destini individuali. L’ingenua ottimistica fiducia nel progresso, che era propria del positivismo  si converte così nel suo opposto, cioè in una sostanziale pessimismo consistente nell'osservare come la “fiumana del progresso” travolga tutti, anche quelli che, “vincitori d’oggi”, affrettati anch'essi di arrivare… saranno sorpassati domani”.
La tendenza al miglioramento  che è la molla stessa del progresso, si trasforma quindi paradossalmente in una condanna degli individui alla sconfitta ed all'infelicità.
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Il Ciclo dei Vinti, Verga

di Giovanni Verga
Riassunto e Significato:

Verga aveva immaginato un grande ciclo di cinque romanzi che avrebbe dovuto rappresentare (è evidente l’influsso della concezione darwiana della lotta per l’esistenza, estesa al mondo umano) il complesso meccanismo delle passioni messe in moto dalla voglia di emergere e di progredire ai vari livelli della scala sociale: da quelli più bassi (I Malavoglia e Mastro don Gesualdo) a quelli più alti, rispettivamente nell'ambito della nobiltà (La duchessa di Leyra), del ceto politico (L’onorevole Scipioni) e del mondo degli artisti (L’uomo di lusso). Ma l’ispirazione artistica ha sorretto il Verga solo per quanto riguarda la composizione dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo.
Nella prefazione ai Malavoglia il Verga introduce le tematiche del “ciclo dei vinti”, ispirate al comune tema della lotta universale per la vita e per il progresso: egli dichiara di voler analizzare “il movente dell’attività umana che riproduce la fiumana del progresso”, considerato innanzitutto “alle sue sorgenti”, cioè ai suoi livelli più bassi, come istinto per la sopravvivenza e come lotta per il pane. Ciò lo ha ispirato nella stesura dei Malavoglia. Successivamente l’intento è stato quello di analizzare il movente dell’azione umana a un livello più alto, quello del plebeo che, arricchitosi al prezzo d’inauditi sacrifici, tenta il salto di classe: è il caso del protagonista del romanzo Mastro don Gesualdo. L’ispirazione artistica però lo ha sorretto soltanto nell'analisi delle ambizioni umane relative a questi livelli bassi: evidentemente le vicende dei vinti appartenenti a ceti più altolocati, come era nelle intenzioni degli altri tre progettati romanzi, non dovettero rivelarsi consone ai criteri di narrazione veristi.
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Riassunto per capitoli I Malavoglia


L'opera è ambientata tra i poveri pescatori di Aci Trezza, vicino a Catania; essa venne concepito come il primo di una serie di romanzi (il ciclo dei Vinti) in cui l'autore intendeva esplorare le varie forme sociali che assume la sconfitta nella lotta per la vita. Al livello più basso si pongono i poveri pescatori di Trezza: il narratore li ritrae nel momento in cui il progresso mostra le sue prime novità, spingendoli quindi a una ricerca del meglio che però si rivelerà completamente fallimentare.
L'idea di volgersi a un terreno letterariamente inesplorato, qual è la vita della povera gente della sua terra, venne a Verga, quasi per caso, nel 1874, allorché scriveva il bozzetto Nedda: la sua prima, pur se acerba, opera verista. Altre ne seguiranno, tali da promuovere una rivoluzione letteraria nell'ambito della tradizione italiana, sul piano sia dei contenuti sia del linguaggio, volutamente antiletterario: il narratore si nasconde dietro ai pensieri e alle stentate parole dei suoi personaggi, così da realizzare il massimo grado di oggettività e impersonalità narrativa.



Lista riassunti per capitolo

CAPITOLO 1
Il romanzo si apre con la descrizione della famiglia protagonista, che vive ad Aci Trezza, un paesino di pescatori sulla costa orientale della Sicilia, pochi chilometri a nord di Catania. I Toscano, chiamati Malavoglia, pur essendo dei lavoratori, possiedono principalmente la casa del nespolo, dalla pianta che le cresceva accanto, e la barca della Provvidenza, che nel corso del romanzo si rivelerà la negazione della Provvidenza stessa. La famiglia è composta da Padron 'Ntoni, il dito grosso della mano, che ha un figlio, Bastianazzo, grande, grosso e obbediente; quest'ultimo è sposato con Maruzza, chiamata anche la Longa, una brava moglie e massaia, che gli ha dato cinque figli. Il primo di questi è 'Ntoni, un bighellone di vent'anni; seguono Luca, che è più giudizioso del fratello maggiore, Mena, soprannominata "Sant'Agata" dalla sua passione per il telaio, Alessi, un moccioso ancora incapace di soffiarsi il naso, ma con già il temperamento del nonno, e infine Lia, la più piccola. La vita familiare viene sconvolta quando viene chiamato alle armi il giovane 'Ntoni , che, dopo un inutile tentativo di corruzione delle autorità del paese da parte del nonno 'Ntoni, parte per Napoli dalla stazione di Aci Castello: prima però saluta la madre affranta e la giovane Sara di comare Tudda, alla quale invierà una sua foto. Padron 'Ntoni, per riparare al disagio per la perdita di due braccia da lavoro così forti come quelle del suo nipote maggiore, tenta un affare: compera ,a credito da "quell'usuraio di Zio Crocifisso", una grossa partita di lupini, che poi si riveleranno quasi avariati; li carica sulla "Provvidenza" ed affida al figlio Bastianazzo il compito di andarli a vendere a Riposto.


CAPITOLO 2
Nel capitolo viene descritta la figura di Mena, amica della coetanea Nunziata, che deve assistere una "nidiata di fratellini" lasciati a lei dal padre per educarli: le due amiche parlano dei ragazzi del paese rivelando un comune interesse per Compare Alfio Mosca, un giovane rimasto senza parenti e senza amici. Dopo la partenza di Bastianazzo e l'amico Menico sulla "Provvidenza", Padron 'Ntoni discute con alcuni paesani sul buon fine dell'operazione, legato a determinate condizioni atmosferiche: queste ultime, però, sembrano non essere favorevoli al viaggio.


CAPITOLO 3
I parenti di Bastianazzo e Menico, imbarcatisi in una tempestosa notte di settembre, si riuniscono in chiesa per pregare affinchè non si verifichi la disgrazia che è già nell’aria. Gli altri personaggi commentano l’ormai presentito fallimento dell’impresa nell’osteria della Santuzza, dove si beve, si impreca e si ride delle spiritosaggini dette per dare coraggio ai parenti dei disgraziati. Inutile il tentativo della disperata Mariuzza, che continua a invocare il nome della Vergine, di scorgere l’imbarcazione del marito dall’alto della “sciara”(=lava) che, dalle pendici dell’Etna arriva sino al mare.


CAPITOLO 4
Ormai Mariuzza è venuta a conoscenza della disgrazia per la quale la barca è naufragata, i lupini sono stati ingoiati dal mare e soprattutto Bastianazzo è annegato. Padron ‘Ntoni deve provvedere a saldare il debito dei lupini; intorno alla sua disgrazia si concentra l’attenzione degli abitanti del villaggio: chi per curiosita’, chi per compassione, chi per egoismo (come lo zio Crocifisso, che vuole I soldi dei lupini). Durante la commemorazione del defunto Bastianazzo alcuni paesani cercano di trovare una soluzione al nuovo problema economico che la famiglia smembrata deve affrontare; le amiche dell’affranta Mariuzza, che non riesce più a dire e a fare nulla (nemmeno a dare da mangiare ai suoi figli), cercano invece di confortarla, come la cugina Anna, che bada ai piccini.


CAPITOLO 5

Filomena viene a sapere da Compare Alfio Mosca che dovrà sposare il ricco Brasi di Padron Cipolla, per risollevare le sorti della famiglia. E mentre Alfio, che possiede solo un asino, le spiega i suoi progetti futuri di carrettiere, lei arrossisce e lascia intendere che sarebba disposta a intraprendere una vita nomade insieme a lui. Mentre si avvicina sempre più il 2 novembre, scadenza ultima per pagare i lupini presi in credenza, la “Provvidenza” viene gettata inservibile sulla spiaggia dalle onde: mentre qualcuno scaglia con disprezzo un calcio sulla barca, imprecando contro il suo nome, altri si propongono di rimetterla in sesto. Il ritorno del giovane ‘Ntoni da Napoli riempie ancora una volta di gente la “casa del nespolo”: il fratello Luca esprime il desiderio di partire per la leva al posto di ‘Ntoni, che, dal canto suo, non intende rimanere una settimana nella casa del padre defunto.


CAPITOLO 6
‘Ntoni rimane deluso quando viene a conoscenza del matrimonio tra Sara di Comare Tudda, la ragazza che amava di più, con un altro paesano, ma si reca lo stesso a pescare coi fratelli e il nonno: tutti si danno da fare per guadagnare i soldi necessari a pagare Tino Piedipapera, un clandicante del paese, cui Zio Crocifisso finge cedere il credito per i lupini. Mariuzza e Mena tessono su commissione, Padron ‘Ntoni e il giovane ‘Ntoni pescano di notte e rivendono di giorno, Luca lavora sul ponte della ferrovia, mentre Alessi va in cerca di esche da rivendere ai pescatori. Dopo l’inutile tentativo di padron ‘Ntoni di persuadere il creditore affinchè si soddisfi sulla “Provvidenza”, quasi rifatta a nuovo, e sulla “casa del nespolo”, egli si reca insieme al nipote ‘Ntoni da un avvocato, il quale consiglia loro di non estinguere il debito per il momento, non essendo quest’ultimo provato da alcun documento. Però, l’intera famiglia, non essendo sicura della via consigliata, si reca dall’esperto in legge del paese, Don Silvestro, che suggerisce a Mariuzza di rinunciare alla dote per poter rendere cedibile la casa.


CAPITOLO 7

Poco dopo il Natale, Luca è chiamato alle armi e parte come il fratello, assicurando la madre che prima di tornare la avviserà, cosicchè potrà venire a prenderlo dalla stazione. Nel frattempo la “Provvidenza” restaurata è nuovamente varata con grande festa per il paese: il giovane ‘Ntoni conosce Barbara Zuppidda, mentre l’ingenua Mariuzza informa l’accorata Mena sul suo futuro matrimonio col ricco Brasi Cipolla. Segue la descrizione della ribellione degli abitanti del paese verso le autorità del paese stesso, rappresentate dal segretario comunale Don Silvestro, a seguito della sua decisione di introdurre un dazio sulla pece, necessaria per riparare eventualmente la “Provvidenza”: infatti quest’ultimo era innamorato di Barbara Zuppidda e geloso del giovane ‘Ntoni. Nell’insurrezione si scontrano i pareri della Zuppidda e di Piedipapera: quando ‘Ntoni ne viene a conoscenza decide di battersi con Piedipapera, per assicurarsi la ragazza. Ma la ferma negazione che Padron ‘Ntoni dà al giovane quando questi gli chiede di potersi sposare costringe ‘Ntoni a rinunciare.


CAPITOLO 8
‘Ntoni è risoluto a levarsi davanti tutti gli uomini che sposerebbero Barbara Zuppidda, cioè Vanni Pizzuto e soprattutto il brigadiere Don Michele. Quest’ultimo, però, per levarsi di mezzo ‘Ntoni, chiede aiuto a Piedipapera, che coglie al volo l’occasione per “ridurre come si deve ‘Ntoni e la sua parentela”. Padron ‘Ntoni e Padron Cipolla fanno incontrare i nipoti Mena e Brasi nella casa dei Malavoglia, ma, mentreil ragazzo dimostra interesse per la ragazza, Mena rimane con gli occhi abbassati e non gli offre nulla. La ragazza tiene però un diverso comportamento quando incontra Alfio Mosca, in procinto di partire per il paese di Bicocca: prima di montare sull’asino, il ragazzo dichiara il proprio amore a Mena, che, con le lacrime agli occhi, si conforta pensando che è Dio che li vuole separati.


CAPITOLO 9
Padron ‘Ntoni supplica Compare Tino (=Piedipapera) affinchè gli conceda la dilazione del debito fino a settembre, ma quest’ultimo sostiene di non aver più pane da mangiare e gli consiglia di vendere la “casa del nespolo”. Segue il convito organizzato dai Malavoglia in occasione della spartizione dei capelli della futura sposa Mena, come vuole la tradizione siciliana. Ma la notizia della battaglia di Lissa, dove la nave “Re d’Italia” è affondata con tutto l’equipaggio, guasta l’atmosfera gioiosa della “casa del nespolo”. Allora Padron ‘Ntoni e la nuora Maruzza si recano dalla capitaneria del porto di Catania per informarsi sulla salute del giovane Luca, il cui nome è però scritto nella lista dei caduti in mare: Maruzza “sdrucciola pian piano a terra mezza morta”. La famiglia si trasferisce ora nella casa di un beccaio, che Padron ‘Ntoni ha affittato dopo la vendita della “casa del nespolo”. Senza quest’ultima i Malavoglia non hanno più “nè casa nè regno” e quindi rimandano al futuro i progetti di matrimonio per Mena e ‘Ntoni. Ormai i Malavoglia sono convinti che “bisogna vivere come e dove si è nati”.


CAPITOLO 10
I Malavoglia cercano di risollevare le sorti economiche della famiglia con la barca, visto che la “Provvidenza” è l’ultima cosa a loro rimasta. Ma in una sera di brutto tempo Alessi, ‘Ntoni e il nonno devono fronteggiare il mare in tempesta, rischiando di morire annegati in seguito a uno schianto della barca: nello scontro Padron ‘Ntoni sembra aver perso la vita. Ma l’abile ‘Ntoni porta la barca al sicuro e alcuni personaggi dagli scogli riescono a salvare i tre disgraziati con una fune. Padron ‘Ntoni viene dunque curato e confortato dai membri della famiglia e anche degli abitanti del paese: pian piano si rimette in sesto per poter ritornare a pescare coi nipoti e per poter riacquistare la “casa del nespolo”, nella quale desidera morire.


CAPITOLO 11
Il giovane ‘Ntoni non pensa ad altro che “a quella vita senza pensieri e senza fatica” che vorrebbe condurre dopo essersi arricchito in città. Inutili saranno i proverbi del nonno finalizzati a convincere il giovane che è meglio che rimanga “al suo paesello”; inutili saranno anche le lacrime della Longa, che, resa vecchia e stanca dalle disgrazie, non vedrà la partenza del figlio. Infatti ella si ammala di colera che da Catania raggiunge presto Aci Trezza; quest’ultimo è isolato e come blindato, a causa degli sbarramenti agli usci di ogni abitazione. I figli della Longa rimangono “sbalorditi” dalla velocità con cui il morbo porta via la donna, anche se ‘Ntoni decide ugualmente di partire alla ricerca della fortuna tanto bramata. Abbandona quindi i fratelli, in preda a due stati d’animo contrastanti: il pentimento, ossia il rimorso per aver tradito la religione della casa, e la testardaggine, che ha però la meglio.


CAPITOLO 12
Durante l’assenza del giovane ‘Ntoni, il nonno e i nipoti si organizzano per poter ritornare nella “casa del nespolo”. Il serio Alessi progetta di sposare la Nunziata, giovane e onesta contadina nonchè allevatrice dei suoi numerosi fratellini: con il loro lavoro i due sperano di poter riacquistare la “casa del nespolo”. ‘Ntoni parte in cerca di fortuna ma ritorna umiliato e più povero di prima: allora fugge dalla propria famiglia, che avrebbe bisogno di lui, e sogna una vita basata su ricchezza, divertimento e ozio.


CAPITOLO 13
Solo per una settimana ‘Ntoni riprende a lavorare col nonno e gli altri nipoti. Ma a nulla servono le prediche del nonno, in quanto il vizio della vita notturna e del brigantaggio spingono il giovane a frequentare sempre l’osteria della Santuzza. Il brigadiere Don Michele, anch’egli frequentante quell’osteria, corteggia Lia, presentandosi regolarmente a casa sua, col pretesto di informare la ragazza che ‘Ntoni è diventato contrabbandiere. Nel frattempo Zio Crocifisso, per ottenere una chiusa, si sposa con la nipote Vespa, che non fa altro che spendere il suo denaro; il figlio di Padron Cipolla, Brasi, scappa con la Mangiacarrube, un’altra giovane di Aci Trezza.


CAPITOLO 14

Una sera ‘Ntoni, che è venuto a sapere delle intenzioni di Don Michele con Lia, viene sorpreso dalle guardie doganali insieme ad altri coetanei ubriachi, ferisce Don Michele e viene portato in questura proprio da quest’ultimo. Padron ‘Ntoni, con i risparmi, paga un avvocato per il processo; l’avvocato Scipioni afferma che il ferimento di don Michele non è avvenuto a causa del contrabbando ma a causa di donne. Padron ‘Ntoni allora pensa che si riferisca alla rivalità per la Santuzza, ma quando capisce che l’avvocato intende Lia sviene e viene portato via dai carabinieri. ‘Ntoni ottiene cinque anni di lavori forzati, pur negando ciò che l’avvocato dice al processo. Compare Piedipapera torna in paese per riferire a Lia ciò che è stato detto di lei al processo: ma, mentre Mena accetta lo sgomento della nuova tragedia, la sorella Lia non sostiene l’apparenza del disonore. Decide quindi di allontanarsi da casa, andando lei stessa incontro al disonore.


CAPITOLO 15
Dei Malavoglia ormai sono rimasti solo Padron ‘Ntoni, Mena e Alessi, senza contare la Nunziata, che ormai vive con loro ed è diventata una ragazza “alta e sottile come un manico di scopa”. Il nonno invece non riesce più ad alzarsi dal letto e deve essere ricoverato. Alfio Mosca, tornato con il nuovo mulo a carcare Mena, accompagna sul suo carro il vecchio all’ospedale, dal quale quest’ultimo non uscirà vivo. Compare Mosca chiede dunque la mano di Mena, ormai ventiseienne, la quale rifiuta in quanto sostiene di non poter più maritarsi dopo le disgrazie della famiglia. Mena infatti si rifugerà in soffitta “come le casseruole vecchie” e si preoccuperà solamente di allevare i figli di Nunziata e Alessi. Lia ha seguito la brutta strada del fratello ‘Ntoni, in quanto è stata avvistata da Alfio sull’uscio di un postribolo. Alessi e Nunziata riescono ad acquistare la “casa del nespolo” e comunicano tale notizia al nonno morente, il quale concede loro un ultimo sorriso. Una sera, infine, il vagabondo ‘Ntoni ritorna dopo tanti anni alla “casa del nespolo” per avere informazioni della famiglia che ha abbandonata. I fratelli, nonostante lo considerino ormai un estraneo, lo invitano a restare, ma il giovane spiega che deve andarsene perché non può più stare in quella casa piena di brutti ricordi. Così, dopo aver dato un’ultima malinconica occhiata al paese natale, ‘Ntoni ritorna alla sua vita sregolata.
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Prefazione I Malavoglia

Il romanzo è introdotto da questa Prefazione, datata dall’autore 19 gennaio 1881. Verga la scrisse, dunque, quando aveva ormai concluso la stesura del romanzo, come accompagnamento all’imminente pubblicazione in volume presso Treves.
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Analisi: I Malavoglia, Verga

di Giovanni Verga
Analisi del testo:

Verga cominciò nel 1875 a progettare un bozzetto marinaresco (cioè un abbozzo narrativo ambientato nel mondo dei pescatori) da intitolarsi Padron 'Ntoni; nel maggio di tre anni dopo (1878) annunciò all'amico scrittore Luigi Capuana che il bozzetto si era trasformato in un romanzo, I Malavoglia.
Alla base di questa ambiziosa evoluzione era l'approfondimento della poetica del Verismo, fatta propria da Verga grazie all'amicizia con Capuana e alla comune lettura del romanzo L'assomoir (L'ammazzatoio) di Emile Zola. Fu forse la diffusione (1876) dell'Inchiesta di Franchetti e Sonnino sulle condizioni della Sicilia postunitaria a suggerire a Verga l'ambientazione del racconto tra i miseri  pescatori di Aci Trezza, un borgo vicino a Catania.

I Malavoglia nacque dunque come un romanzo epistolare, secondo la nuova poetica del naturalismo francese. La sperimentazione non riguarda solo la forma e l'impianto narrativo, ma anche i contenuti, i temi sociali, il modo di pensare e di parlare dei personaggi. A tale scopo, Verga consultò gli studi etnografici sul folklore e le tradizioni locali catanesi del medico siciliano Giuseppe  Pitré (1841-1916), studioso di tradizioni popolari e storia locale, per conferire al racconto un'impronta più oggettiva. L'opera dunque assume le caratteristiche di uno studio sociale con la precisione di un'analisi scientifica.

Così com'è ricostruito nei Malavoglia, il mondo arcaico-rurale di Aci Trezza è certamente vero.
  • è realistico, infatti, l'articolarsi del suo tempo etnologico, cioè di un ritmo di vita invariabile, legato a una serie di tradizioni: i proverbi (la tradizione della casa, incarnata in padron 'Ntoni, l'uomo-proverbio), il ciclo delle stagioni e il lavoro dei campi (la tradizione della terra), le liturgie (la tradizione religiosa);
  • anche lo spazio è puntigliosamente vero: i luoghi del romanzo sono quelli tipici di un paese tutto messo in piazza: la farmacia, dove s'incontrano gli intellettuali; il sagrato, dove si ritrovavano i commercianti e gli affaristi; l'osteria di Santuzza, in cui si vedono i proletari e gli sfaccendati; il lavatoio e la fontana, punto di riferimento delle comari.

La ricchezza dei particolari narrativi serve a Verga per mettere in scena una pluralità di piccole storie, individuali e familiari, che s'intrecciano e si sviluppano. Viene così ricostruita il più fedelmente possibile la complessa realtà della vita di un villaggio tipico, colta nella ricchezza anche contraddittoria delle sue relazioni umane. Lo scrittore assume l'ottica del microscopio, teorizzata in Fantasticheria: Bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori.


Una società arcaica scossa dai primi segni del progresso

Aci Trezza è un mondo povero ma sereno, fedele da sempre alle sue tradizioni. Verga è però consapevole del fatto che anche quella realtà è soggetta a trasformazioni: il suo scopo (dichiarato nella Prefazione del romanzo) è osservare che cosa accade allorché il nuovo, il progresso, penetra nella quiete di una società arcaica, apparentemente immutabile. Poiché secondo la concezione verghiana il mondo è dominato da una logica di tipo economico, il contrasto tra vecchio e nuovo si pone anzitutto a livello economico e produttivo.
Nei Malavoglia questo motivo viene incarnato da due personaggi tra loro opposti:
  1. da una parte c'è padron 'Ntoni, il vecchio patriarca, capo della casa del nespolo, immagine di colui che resta fedele al suo lavoro di pescatore tramandato da generazioni.
  2. dall'altra c'è Zio Crocifisso, simbolo del nuovo modo di lavorare e guadagnare; è lui, scrive Verga, l'usuraio che si pappava il meglio della pesca senza pericolo.
I due personaggi sono portatori di valori molto diversi: padron 'Ntoni difende l'onestà, incondizionata; zio Crocifisso l'utile, a qualsiasi costo.


La trama del racconto s'incentra esattamente sul punto di passaggio dal vecchio al nuovo: ritrae infatti la tentazione di cui persino padron 'Ntoni cade vittima. Anch'egli, infatti, cede alla brama di meglio, al desiderio di migliorare la propria condizione economica: da pescatore vorrebbe farsi piccolo imprenditore della pesca. Per questo motivo s'impegna in un affare (il negozio dei lupini) per il quale ha bisogno di un prestito; lo chiede a zio Crocifisso, ma non sarà più in grado di risarcirlo a causa del naufragio della barca (la Provvidenza) e di tutto il suo carico. La disgrazia manderà in rovina 'Ntoni e la sua famiglia.

Verga non si limita a illustrare il contrasto tra due logiche economiche differenti, ma ritrae il conflitto tra nuovo e vecchio mostrando l'arcaico mondo di Aci Trezza alle prese con novità recenti, che sconvolgono la sua staticità. Si tratta di:
  • novità politiche: l'Italia unita;
  • novità sociali: la leva militare e la scuola elementare obbligatorie;
  • novità economiche: il capitalismo dei proprietari e le tasse;
  • novità tecnologiche: il telegrafo, la nave a vapore.
Di fronte al nuovo che avanza ci sono due risposte possibili:
- da una parte la fedeltà verso la tradizione, personificata dall'anziano padron 'Ntoni;
- dall'altra, all'opposto, la ribellione, incarnata nel romanzo da zio Crocifisso ma anche dal giovane 'Ntoni, nipote di padron 'Ntoni.

Padron 'Ntoni sa che il mondo va così, e non abbiamo il diritto di lagnarcene; sa che bisogna vivere come siamo nati, che più ricco è in terra chi meno desidera. Il suo è l'ideale dell'ostrica, il mollusco che vive fedelmente abbarbicato al proprio scoglio, di cui Verga aveva parlato nella novella Fantasticheria (1879). Tocca al suo antagonista, il giovane 'Ntoni, il compito, nel romanzo, di mettere in discussione il proprio nucleo di appartenenza: è lui a fuggire dal paese in cerca di fortuna e di nuove esperienze. Verga ritrae le sofferenze che questa scelta comporta, ma non lo condanna interamente: sa infatti che lo slancio verso il nuovo è una spinta ineludibile dell'animo umano.


Il significato de I Malavoglia

Il significato generale del romanzo viene anticipato della Prefazione dell'opera, che promette d'illustrare le prime irrequietudini del benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. L'esito di tutto ciò è tragico, come le immagini apocalittiche della Prefazione sottolineano (i vinti sono travolti e annegati, ciascuno colle stimmate del suo peccato): nel cupo pessimismo verghiano, ogni tentativo di cambiare condizione porta alla sconfitta personale e alla disgregazione del nucleo familiare.
A cedere alla tentazione è il vecchio patriarca, padron 'Ntoni. Nessuno meglio di lui, il custode della casa e delle tradizioni di famiglia, dovrebbe sapere che pigliare il cielo a pugni porta solo alla sconfitta e all'infelicità; eppure, paradossalmente, è proprio lui a impegnarsi nel fatale affare dei lupini. Padron 'Ntoni pagherà il prezzo più alto all'infrazione della norma non scritta che impone di accettare il proprio destino; per il giovane 'Ntoni, invece, sembra prospettarsi un esito diverso, per quanto incerto e appena accennato, nell'ultima pagina del romanzo, in cui si narra la sua partenza all'alba, una specie di ricominciamento, da un'Aci Trezza intorpidita.


Il linguaggio del romanzo

Sul piano narrativo, il romanzo di Verga si segnala anzitutto per la novità del linguaggio. La lingua dei Malavoglia non è il dialetto siciliano, ma una sorta di italiano dialettizzato. E' cioè una lingua che, nella realtà, non esiste e viene così dire ricostruita a tavolino dallo scrittore. Essa diventa l'espressione viva di una cultura popolare, colta in tutte le sue dimensioni: i proverbi, i modi di dire, le credenze religiose e le usanze tradizionali, i riti religiosi e le pratiche mediche, le favole e le consuetudini riguardanti matrimonio, morte, lavoro dei campi in mare.

In particolare, Verga utilizza la struttura dell'erlebte Rede, il discorso rivissuto o discorso indiretto libero. Si tratta di una tecnica narrativa già nota e sfruttata da altri romanzieri ottocenteschi, ma che nessuno aveva mai applicato in maniera così sistematica come fa Verga. Il narratore dei Malavoglia, infatti fa parlare i suoi personaggi in modo diverso da come avviene nel racconto tradizionale: evita di dare loro la parola nel discorso diretto (usando la terza persona) o di usare il discorso indiretto (egli diceva che) per riferire quanto essi dicono. In questo modo, l'autore annulla la distanza che lo separa dai personaggi: fa sue le loro parole e le confonde con le proprie, l'esteriorità del racconto e l'interiorità dei personaggi vengono a sovrapporsi e a rimescolarsi, e si annulla ciò che Verga chiama la lente (sempre deformante) dello scrittore (Lettera-prefazione a L'amante di Gramigna).
Possiamo esemplificare quanto detto con un passo tratto dal capitolo IV:

Compare Cipolla raccontava che sulle acciughe c'era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a padron 'Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere; lui a buon conto se n'era riserbato un centinaio di barili; e parlavano pure di compare Bastianazzo, buon'anima, che nessuno se lo sarebbe aspettato, un uomo nel fiore dell'età, e che crepava di salute, poveretto!

Le parole di compare Cipolla sono riferite, all'inizio, mediante il discorso indiretto (raccontava che... per barile). Però subito dopo, all'interno di questa stessa costruzione, vengono riprodotte le frasi come escono dalla bocca di chi parla: questo poteva interessargli a padron 'Ntoni.
Il discorso indiretto libero è ancora più evidente nel periodo successivo, che inizia con parlavano pure di compare Bastianazzo e si conclude con l'esclamazione poveretto!, presa dal parlato. Da notare anche l'uso libero del che (corrispondente al siciliano ca), elemento dal valore variabile: in questo caso, che nessuno se lo sarebbe aspettato significa la morte del quale nessuno se se la sarebbe aspettata, e costituisce dunque un richiamo implicito alla morte (in mare) del personaggio.
La prosa verghiana è ricca di allusioni a fatti o aspetti noti ai personaggi ma non al lettore, che quindi deve decifrarli.



La voce del popolo

Utilizzando questa tecnica narrativa, Verga asseconda l'esigenza di oggettività: può dunque rappresentare sulla pagina quel coro dei parlanti che è il vero protagonista-narratore del romanzo. Il narratore ha scelto di raccontare gli avvenimenti come si riflettono nei cervelli e nei cuori dei suoi personaggi (Leo Spitzer). Sono i personaggi del coro ad accollarsi l'iniziativa del racconto, imponendo la loro soggettività. Tuttavia, il narratore non scompare mai del tutto: egli indossa di volta in volta la maschera del personaggio che gli interessa, assume i pensieri e le parole ora dell'uno ora dell'altro dando l'impressione che sia un'intera comunità a parlare, a pensare, ad agire.
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Prefazione L'amante di Gramigna


di Giovanni Verga
Riassunto, analisi, commento

Il breve testo, che apre la novella L’amante di Gramigna, si presenta come una lettera indirizzata all’amico Salvatore Farina: quest’ultimo era il direttore della Rivista minima, il periodico sul quale nel febbraio del 1880 la novella fu pubblicata, con il titolo originario di L’amante di Raja. Siamo di fronte alla pagina di poetica più concentrata e rivelatrice dell’intera produzione di Verga, il primo manifesto teorico del suo Verismo.

Temi: lo sforzo della letteratura di aderire alla realtà, l’opportunità che la scrittura letteraria sia impersonale, l’attenzione costante alle dinamiche psicologiche.
Anno: 1880.

Ripercorriamo il testo:
La prefazione sviluppa tre concetti essenziali, che costituiscono il cardine del Verismo verghiano:
- la necessità che la letteratura aderisca alla realtà, così da riprodurre il fatto nudo e schietto, il semplice fatto umano che, scrive Verga, avrà sempre l’efficacia dell’essere stato;
- la necessità che lo scrittore sia il più oggettivo e impersonale possibile, in modo che l’opera, scrive Verga, sembrerà essersi fatta da sé;
- la persistente attenzione alle dinamiche psicologiche del cuore: lo scrittore verista non abbandona l’indagine sui moventi psicologici e affettivi; solo, si sforza di studiarli con scrupolo scientifico.

Spiegazione
L’adesione al Naturalismo non significa ancora, per Verga, che l’autore debba realmente scomparire. Sarà Pirandello, qualche decennio più tardi, a teorizzare un’opera d’arte che si fa senza il proprio autore. Verga, per ora, teorizza non la poetica dell’assenza dell’autore, ma quella del nascondimento dell’autore. Il suo ruolo è quello di rientrare perfettamente all’interno della propria opera, osservare le cose con ottica stessa dei suoi personaggi, parlare come parlano i personaggi. Verga auspica insomma che il narratore abbandoni la lente dello scrittore, che nell’ottica verista è una lente sempre deformante: essa introduce infatti un indebito elemento soggettivo in quella che dev’essere, invece, imparziale e oggettiva riproduzione della realtà.
Siamo nella prima fase del Verga verista, quella in cui ancora poneva in primo piano lo studio della primordiale vita emotiva dei suoi personaggi; perciò egli dedica qui tanta attenzione al gran libro del cuore. Lo studio delle dinamiche economiche e sociali assumerà maggiore importanza solo nella successiva produzione verghiana. Per adesso l’argomento privilegiato rimane la vita dei sentimenti e delle passioni, come già era stato per i romantici; ciò che cambia è che l’analisi moderna si studia di seguire quelle passioni con scrupolo scientifico e senza pregiudizi di carattere contenutistico o ideologico.

Analisi del testo
Il primo concetto che Verga afferma in questa pagina è l’esigenza di un realismo di stampo nuovo, scientifico, ispirato ai criteri della cultura positivistica. L’arte, dice Verga, deve diventare un documento umano, come si era espresso Zola.
La prefazione contiene un’importante precisazione sul metodo che Verga intende perseguire in campo letterario. L’obiettivo del vero implica infatti il nascondimento dell’autore. La mano dell’artista, scrive Verga, deve rimanere assolutamente invisibile; solo allora il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, solo allora l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé.
Un obiettivo del Verismo, dice Verga, è indagare nel gran libro del cuore; ma dovrà studiarlo e seguirne gli sviluppi con scrupolo scientifico.

La nuova posizione dell’autore, teorizzata in questa lettera-prefazione, non può non avere riflessi in relazione al linguaggio e allo stile.
Il testo contiene alcune espressioni che appartengono al nuovo linguaggio della cultura positivistica e del Naturalismo letterario.
Verga esordì in campo letterario senza applicare subito il nuovo metodo esposto nella lettera a Salvatore Farina.

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Giovanni Verga: Vita Dei Campi - Riassunto

Il primo capolavoro del Verismo Verghiano
Vita dei campi riscosse interesse e apprezzamento, anche grazie a una lusinghiera recensione di Luigi Capuana sul Corriere della Sera (20-21 settembre 1880). Del resto l'opera si presentava molto compatta e omogenea, anche perché Verga aveva sottoposto le novelle (dopo la prima stampa in rivista) a una severa revisione lessicale, così da eliminare le imprecisioni o gli eccessi di letterarietà. Fu un lavoro di concentrazione espressiva grazie a cui sentimenti e giudizi finivano oggettivati nella cruda evidenza dei fatti, secondo la poetica del Verismo. L'attenzione del narratore oscilla fra alcuni elementi tipici della vita siciliana e i lati oscuri della psicologia umana.
Il primo testo, Fantasticheria, che narra il ritorno dell'autore in Sicilia e il suo desiderio di raccontare la vita che si svolge tra la povera gente, ha un valore di prefazione o premessa ai testi seguenti.
Cinque novelle ruotano intorno al motivo dell'amore passione e presentano tutte una contrapposizione di due personaggi principali e una conclusione drammatica o violenta:

  • in Jeli il pastore un ingenuo e semplice guardiano di bestiame, dopo aver scoperto che la moglie è stata sedotta da un amante, con primitiva spontaneità si ribella tagliando la gola al rivale;
  • in Cavalleria rusticana Alfio sfida a duello e uccide Turiddu, poiché questi ha osato riaccostarsi a Lola, ora sua moglie ma già amante dello stesso Turiddu;
  • in La Lupa la protagonista è una donna di grande fascino, la quale non teme di concedersi a diversi spasimanti, fino a che il genero, per liberarsi dal suo malefico carisma, la uccide;
  • analogamente, in L'amante di Gramigna la giovane Peppa si trasforma in lupa, assecondando l'istinto che la porta ad amare un bandito (Gramigna, così chiamato dal nome di un'erbaccia) e a seguirlo anche dopo la cattura e la prigionia;
  • infine, Pentolaccia narra la storia di un marito cieco, che, vittima dei tradimenti della moglie, uccide il rivale per liberarsi dell'onta e della vergogna.
Dei due racconti rimanenti, Rosso Malpelo ha per protagonista un singolo personaggio, un povero minatore che si perde nella miniera per inseguire il fantasma del padre defunto; l'altro, Guerra dei santi, ha invece come protagonista un intero paese, coinvolto nei conflitti fra bande rivali.



L'origine della raccolta
Il successo di Nedda (giugno 1874) suscitò richieste di altri racconti da parte degli editori. Già a partire dal luglio del 1874 Verga, ritornato da Milano in Sicilia per la stagione estiva e attirato dalla possibilità di facili e immediati guadagni, scrisse varie novelle, destinate a formare una successiva raccolta, che uscì nell'autunno del 1876 (stampato da Brigola di Milano) con il titolo Primavera e altri racconti. In seguito, l'autore passò a lavorare su due progetti contemporaneamente: i racconti destinati al nuovo volume, Vita dei Campi, e il romanzo I Malavoglia.
I racconti furono composti tra l'agosto del 1878 e il luglio del 1880 e uscirono, prima che in volume su diverse riviste e periodici: sul Fanfulla della Domenica apparvero Fantasticheria, Cavalleria rusticana, Guerra di santi e Pentolaccia; sul Fandulla Rosso Malpelo; sulla Fronda Jeli il pastore (in una redazione abbreviata rispetto a quelle definitiva); sulla Rivista nuova di scienze, lettere e arti La Lupa; sulla Rivista minima L'amante di Gramigna (con il titolo L'amante di Raja). Infine le otto novelle vennero raccolte con il titolo complessivo di Vita dei campi e stampate dall'editore Emilio Treves di Milano nel 1880.
L'ambientazione è posta nel mondo siciliano: proseguendo sulla falsariga di Nedda, Verga assume definitivamente quale argomento della propria narrativa i ceti sociali più bassi. Influirono su di lui sia l'opera di Emile Zola sia gli spunti di riflessione forniti dall'inchiesta in Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (1876), in cui si documentavano le durissime condizioni di sfruttamento delle popolazioni siciliane.
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Riassunto: Nedda, Verga

di Giovanni Verga 
Riassunto:

Nel prologo, parlando in prima persona, Verga narra come un giorno, standosene pigramente dinanzi al caminetto con il fuoco acceso, mentre fantasticava oscillando fra sogni e ricordi, fosse riemersa nel pensiero un'altra fiamma, da lui vista ardere un giorno nel camino della fattoria del Pino alle pendici dell'Etna. Intorno a quella fiamma, così ridestata nel ricordo, sono ad asciugarsi una ventina di ragazze, raccoglitrici di olive, fradice di pioggia. Una sola tra loro resta solitaria in disparte, Nedda (diminutivo di Bastianezza). Alle domande delle compagne, la fanciulla, umile, povera e timida, narra della sua miseria e della madre gravemente malata. Alla fine della settimana, con i pochi soldi della paga, Nedda parte per ritornare a casa.
Lungo il faticoso cammino, Nedda incontra Janu, un giovane del suo paese che è stato a lavorare a Catania. Giunta a casa, trova la madre quasi agonizzante: a nulla servono l'intervento del medico e l'estrema medicina procurata dallo zio Giovanni. L'anziana donna muore. Dopo averla seppellita, Nedda accetta una nuova occupazione ad Aci Catena.
Il lavoro è ora più redditizio e consente alla ragazza maggiore serenità; Janu le regala un fazzoletto di seta lucente e, dopo pochi incontri, le chiede di sposarlo. Fra i due nasce un rapporto passionale e gioioso, ma esso non porta alla felicità. Nedda infatti mostra presto i segni infamanti di una gravidanza prematrimoniale; Janu si ammala di malaria e tuttavia, per affrettare le nozze, non rinuncia a lavorare. Cade  però da un ulivo e viene consegnato morente a Nedda.
La fanciulla rimane sola: abbandonata, disprezzata, sfruttata; presto le muore anche la figlioletta rachitica e stenta che ha avuto da Janu e che Nedda aveva accolto come illusione di un conforto. La battuta che conclude la novella riassume il significato della concezione del vivere maturata da Nedda: Oh! benedette coi che siete morte! Oh benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire  come me!.

Le novità
Il bozzetto siciliano che inaugura la stagione verista di Verga nacque quasi occasionalmente, senza essere stato concepito sulla base di specifiche riflessioni su tecniche narrative. Fu pubblicato per la prima volta sulla rivista italiana di scienze, lettere e arti il 15 giugno 1874, e quindi in volumetto autonomo dall'editore Brigola alla fine di quell'anno, ottenendo un successo che neppure l'autore si attendeva.
In realtà Nedda segnava, per Verga e per la narrativa italiana nel suo complesso, un'autentica rivoluzione letteraria, per quanto silenziosa e in un primo momento passata inosservata. Come scrisse il critico Luigi Russo, con Nedda cambia la visione della vita, cambia anche il contenuto della nuova arte: non più duelli, non più amori raffinati di artisti e ballerine (come in Eva), ma passioni semplici, tragedie silenziose e modesto di povere contadine; guerre sanguinose di uomini primitivi, che chiudono in petto un vigoroso senso dell'onore e una barbara violenza di passioni. La vita è dove pulsa un cuore e soffrono dei corpi sotto il peso ingiusto delle fatiche, più schietta che non dove battono polsi frebbili di un amore di moda o società.

Il pessimismo di Verga
L'attenzione del lettore si concentra soprattutto sulla figura di Nedda la varannisa (così chiamata perché viene dal borgo di Viagrande): la prima di una lunga galleria di umili protagonisti verghiani, costretti dalla propria misera nascita a una vita di stenti e ai quali neppure l'amore riesce a dare più che un barlume di speranza. La storia dell'umile raccoglitrice di olive s'inserisce in un più vasto sfondo sociale, le campagne siciliane dopo l'Unità d'Italia che contiene in sé i germi dell'indignazione e della denuncia da parte dell'autore.
Nedda, che Verga colloca raggomitolata sull'ultimo gradino della scala umana, è la povertà personificata; dei suoi fratelli in Eva, dice lo scrittore, bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini e per prestar loro i più umili, i più duri servigi. La sua figura e la sua storia diventano la personificazione del pessimismo verghiano. La sorte infierisce con particolare crudeltà su di lei, eppure le sue sventure non sono causali o immotivate: nascono, piuttosto, da una radicale e profonda ingiustizia di partenza, alla quale peraltro Nedda è talmente assuefatta che ogni nuovo colpo del destino riesce soltanto a dilatare i margini della sua sofferenza: Il cuore ebbe un'altra strizzatina, come una spugna non spremuta abbastanza, nulla più.
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Riassunto: Storia di una capinera, Verga

di Giovanni Verga 
Riassunto e analisi:

E’ un romanzo epistolare, genere che aveva conosciuto illustri precedenti, da Rosseau a Foscolo. Nel romanzo di Verga la protagonista Maria scrive all’amica Marianna, che i lettori non conosceranno mai; le sue lettere coprono un arco di circa due anni, dal 3 settembre 1854 al 24 settembre 1856. Sono seguite da due lettere senza data e dall’annuncio della morte di Maria siglato da suor Filomena.
Maria è un educanda orfana di madre; trascorre l’estate del 1854, in una tenuta alle pendici dell’Etna, con il padre e la matrigna, fuori dal convento dove abitualmente risiede. Qui ella incontra il giovane Nino, come lei sfollato assieme alla famiglia per sfuggire all’epidemia di colera che incombe su Catania. La vita libera e spensierata all’aria aperta, nell’incanto dei boschi e delle campagne, avvicina i due giovani. Nella lettera del 10 novembre 1854 Maria confida a Marianna di essersi innamorata del giovane Nino; ora però vorrebbe ritornare al raccoglimento e al silenzio claustrale.
La storia d’amore tra i due giovani prosegue: s’incontrano, si sfiorano, si baciano. Nella lettera del 21 novembre Maria è consapevole di essere amata e ciò la trasforma: la vita del convento le sembra adesso soffocante e vuota. Viene separata a forza dal giovane Nino; si ammala e, una volta guarita, viene rinchiusa definitivamente in convento.
La terza parte si apre, un anno dopo, con la lettera dell’8 febbraio 1856. Maria sta per fare la promessa dei voti perpetui, ma è molto malata. Intanto le annunciano che la sorella Giuditta sposerà Nino. Per il dolore, Maria entra in un delirio quasi folle. Tenta la fuga, ma senza successo: perciò viene reclusa nella cella delle monache pazze. Lì, l’unica ad avere compassione di lei è suor Agata, ridotta a una sorta di larva umana. In una lettera conclusiva suor Filomena rievoca gli ultimi giorni di Maria, i commoventi funerali, le sue ultime volontà.

Analisi del testo
Il primo romanzo che procurò al giovane Verga notorietà e successo fu Storia di una capinera. Composto nell’estate del 1869, dapprima fu stampato a puntate nel 1870 sul periodico La rimatrice; quindi venne pubblicato in volume a Milano nel 1871 dall’editore Lampugnani, dopo essere stato rifiutato da Treves.
Nella lettera prefazione introduttiva, Francesco Dall’Ongaro (1808-73) definì il romanzo come lettere di una monachella siciliana scritte e scambiate con una sua compagna […] pagine d’una vita di dolore e abnegazione, riprodotte dal narratore al vivo, con il fine di commuovere e di emozionare, che la famiglia ha destinato al convento, e il giovane Nino; Maria non riesce a dimenticare il proprio amore e muore perciò di consunzione nel convento dove è stata rinchiusa. La figura della protagonista, che rimane vittima dell’esaltazione amorosa fino alla pazzia e alla morte, ci mette di fronte a una storia di passione, dunque, alla maniera di Una peccatrice; a un racconto tipicamente tardo romantico.
Al clima del Romanticismo appartiene anche il tema della monacazione forzata, che aveva alle spalle opere famose come La monaca (1796) di Denis Diderot e I promessi sposi manzoniani per la celeberrima figura della monaca di Monza. Del resto l’abitudine di spingere al convento giovani privi di vocazione (lo scopo era quello di passare al primogenito l’intero patrimonio indiviso) era ancora molto diffusa nella Sicilia dell’epoca di Verga, malgrado la legge del 1867 che aveva soppresso le corporazioni religiose.


Verga e e il rapporto con la capinera
Dal romanzo trapelano notevoli riflessi autobiografici. Tra il 1854 e il 1855 la famiglia Verga, lasciata Catania durante un’epidemia di colera, si era ritirata nel suo podere di Vizzini; e qui il quindicenne Giovanni si era invaghito di una giovanissima educanda, Rosalia, una creatura soave, una figura ideale, una bellezza pallida e bruna, un fiore di simpatia, come annoterà Federico De Roberto. Va aggiunto che la madre di Verga, Caterina, era stata educata in convento, e che ben due zie dello scrittore avevano preso i voti.
Tuttavia, oltre il semplice autobiografismo, l’opera rivela una genesi pià complessa. Il giovane Verga, che d’estate lascia il convento dov’è educata per trascorrere le vacanze in campagna. Fin dalle prime pagine il romanzo raffigura il contrasto tra la vita chiusa del convento, fatta di tristezza e di mancanza di affetto, e la nuova vita, fatta di affetti e di colori. Maria vive in un doloroso dilemma:
  • desidera l'aria aperta, il mondo di tutti, dove può essere libera e felice;
  • insieme, però, desidera la protezione di un mondo chiuso, che la difenda dall'aperto, di cui ha anche para.
Maria in sostanza soffre di claustrofobia (paura del chiuso) ma anche di agorafobia (paura dell'aperto): all'aperto non sopravvive, al chiuso morirà. E' un circolo vizioso: vivere e amare, per lei, è peccato ma anche il non sapersi adattare alla propria sorte è una colpa. Non riuscendo a trovare un equilibrio che le consenta la ribellione o la rassegnazione, non sapendo accettare, Maria si autopunisce, si ammala e muore.
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Riassunto Vita: Giovanni Verga

Riassunto:
Nacque a Catania nel 1840. Studia in Sicilia e vi rimane fino al 1865, quando si trasferisce a Firenze e poi a Milano, tornando spesso a Catania per brevi periodi. Collabora a riviste letterarie, scrive e pubblica romanzi nel solco della tradizione del romanzo popolare, pieni di sentimentalismo e di luoghi comuni. Negli eleganti ambienti milanesi conosce altri intellettuali e letterati, che gli danno modo di conoscere le nuove opere della letteratura europea. Comincia così una fase nuova anche nell’opera di Verga, che scrive con stile e contenuti molto diversi dalla sua precedente produzione. Il suo interesse si rivolge alla precisa e fedele descrizione della società siciliana: il mondo vero della vita quotidiana difficile e sofferta entra nei suoi racconti e romanzi. Le sue opere vengono pubblicate, Verga vorrebbe farle conoscere anche all’estero, infatti segnala a un amico scrittore svizzero e per questo motivo fa un viaggio a Parigi e a Londra. Il suo romanzo I Malavoglia non ha però un grande successo al momento della pubblicazione, mentre hanno grande fortuna le sue novelle rappresentate in teatro e musicate in opera. Dal 1893 ritorna a vivere in Sicilia e smette quasi del tutto di scrivere.
Le sue opere, tra cui ricordiamo soprattutto il romanzo Mastro don Gesualdo e le raccolte di novelle Vita dei campi e Novelle rusticane, furono apprezzate e considerate nel loro vero valore della critica solo negli ultimi anni della sua vita. Morì a Catania nel 1922.

Conoscere l’autore e l’opera
Le opere per le quali Verga divenne una figura importante nella letteratura italiana sono quelle che rappresentano personaggi e ambienti della Sicilia povera della fine Ottocento. Questa realtà era ben diversa da quella mondana e intellettuale di Milano e Firenze, le città nelle quali Verga aveva passato lunghi periodi della sua vita e in cui aveva partecipato all’elegante vita dei salotti borghesi e aristocratici, in cui aveva conosciuto le personalità di spicco del mondo editoriale e letterario. Mentre le sue prime opere sono legate a queste sue esperienze, quelle successive e più originali sono lo specchio di una vita ben diversa, quella durissima dei pescatori, dei lavoratori siciliani, che Verga, siciliano anche lui, conosceva, ma che non apparteneva certo alla sua diretta esperienza di nobile e intellettuale, dalla vita agiata. Solo la sua grande abilità di artista, e non la sua esperienza dunque, gli consentono di comprendere e descrivere con tanta sensibilità e precisione un mondo conosciuto, ma non vissuto direttamente.

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Biografia: Giovanni Verga

Biografia:
Nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di origini nobiliari e di tradizioni liberali. Seguì gli studi nella sua città, dove si iscrisse alla facoltà di Legge, ma non li terminò, tutto preso dalle vicende storico-politiche (dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia), e da una precoce attività letteraria che lo portò, nel 1861, alla pubblicazione del suo primo romanzo di intonazione storico-romantica I carbonari della montagna. Nel 1865, insofferente della vita di provincia, si trasferì a Firenze (in quel momento capitale del nuovo Regno D'Italia) e, poco dopo, a Milano dove si inserì nei più brillanti e dinamici ambienti letterari, a contatto con gli artisti più ansiosi di rinnovamento culturale. Intanto continuava intensa la sua opera di scrittore con romanzi che riproponevano ambienti ricco-borghesi e vicende di esasperato romanticismo. L'incontro con Luigi Capuana, di cui condivise le teorie sul Verismo, lo indirizzò verso una più concreta osservazione della realtà tanto che, con idee rinnovate, scrisse le sue opere maggiori, ispirate proprio alla poetica verista. Dal 1893 il Verga tornò, per periodi sempre più lunghi, nella sua casa di Catania e lì si spense nel 1922.

Le idee e la poetica
Nell'attività letteraria del Verga si possono distinguere due periodi:
- il primo, cioè quello degli esordi, risente del filone del romanzo storico e della narrativa romantica e passionale, di ambiente aristocratico e ricco-borghese (I carbonari della montagna, Eros, Eva, Tigre reale, Storia di una capinera, Una peccatrice);
- il secondo, che ha inizio nel 1874 con la novella Nedda, ha caratteristiche assolutamente nuove, orientato com'è alla scoperta e alla descrizione del vero. Non più costruzioni della fantasia, ma la realtà diventa molla di ispirazione per lo scrittore che osserva fatti e personaggi con occhio obiettivo, quasi scientifico, senza lasciarsi coinvolgere a esprimere giudizi personali: proprio come richiedevano i canoni del verismo. Protagonisti delle nuove opere verghiane sono gli  umili, studiati e descritti con linguaggio scarno ed espressivo nella triste, e spesso inutile, lotta del vivere quotidiano. Il Verga infatti, è convinto che la vita umana sia dominata dal fato, una forza cieca e incontrollabile, alla quale gli uomini, a qualunque ceto sociale appartengano, non possono opporsi perché risulteranno sempre dei Vinti. In questa visione amara della vita consiste il suo pessimismo che dà alle sue opere un tono desolato e drammaticamente epico. Così il Verga verista risulta non solo il più grande scrittore tra quelli della sua corrente, ma è sicuramente uno dei migliori prosatori dell'Ottocento italiano, dopo il Manzoni.

Ecco le sue opere maggiori:

Vita dei campi (1879-1891): una raccolta di novelle in cui, con stile asciutto e colorito, il Verga ritrae la vita rude, talvolta primordiale, della sua gente di Sicilia.

I Malavoglia (1881): è il primo romanzo di una serie intitolata I Vinti, rimasta incompiuta, in cui lo scrittore manifesta la sua visione amara della vita. (continua...)

Novelle rusticane (1884): un'altra raccolta di novelle in cui ritroviamo la descrizione attenta e sensibile della gente e degli ambienti siciliani.

Mastro Don Gesualdo (1889): è il secondo romanzo del ciclo I Vinti, che doveva comporsi di cinque romanzi, ma l'autore si limitò ai primi due pensando di avere già dimostrato in essi la tesi che si era proposto: l'uomo, qualunque sia la sua posizione nella vita, è un vinto della vita stessa e deve sottomettersi al destino. Ne è un esempio mastro Gesualdo, un manovale che è diventato ricco e rispettato a forza di duro lavoro e di sacrifici. Si innalza anche socialmente, sposando la nobile Bianca Trao che lo sposa per riparare un fallo, ma non lo ama. Nasce Isabella che non è figlia di Gesualdo, ma egli la considera sua e la fa educare nei collegi più aristocratici. Morta Bianca, che a poco a poco si era affezionata al marito, Isabella si mostra ostile al padre sebbene egli sia disposto a soddisfare tutti i suoi capricci, anche quello di sposare un duca squattrinato che dissipa il patrimonio che don Gesualdo ha accumulato in tutta una vita. Quando Gesualdo si ammala, Isabella lo relega in una stanzetta del suo palazzo dove il povero vecchio muore solo, sognando la sua casa e i suoi poderi, e rimpiangendo quella roba destinata a scialacquatori che non la amano. (Continua...)

Don Candeloro E C. (1894): una delle ultime raccolte di novelle dove il senso di amarezza e di desolazione della vita raggiunge toni drammatici.

Il Verga scrisse anche alcune opere per il Teatro, dando origine al teatro verista italiano che avrebbe avuto maggiore sviluppo nei decenni successivi.


La concezione e le opere del Verga
Esordisce con romanzi passionali del più vieto romanticismo:
- Una peccatrice
- Eva
- Storia di una capinera
- Tigre reale
- Eros

Tema dominante è l'amore sensuale, la passione alimentata dalla fantasia, sullo sfondo di salotti eleganti e di una vita raffinata e aristocratica. Sono passioni che si infrangono contro le convenzioni sociali e sfociano nella noia e nella tragedia.

Nedda
E' la novella che segna il trapasso dal Verga romantico al Verga verista. Nedda è una povera creatura che per vivere deve lavorare, un lavoro duro da povera gente; è un personaggio ben diverso da quelli dei romanzi precedenti. Non più salotti eleganti che esaltano la fantasia, ma una povera casa e lavoro nei campi per sopravvivere. Nedda ama un giovane che, cadendo da un albero, muore; le nasce una bambina che si spegne di stenti. Nedda è il primo personaggio della serie dei Vinti, la gente che lotta contro un destino inesorabile.

Opere in cui il Verga ritrae la vita dal vero (verismo) lasciando che i personaggi agiscano e parlino alla loro maniera:

Vita dei campi: 8 novelle, tra cui Cavalleria Rusticana (da cui fu tratta l'opera di Mascagni), Jeli il pastore, La Lupa, Rosso Malpelo, Libertà.
I Malavoglia: i protagonisti del romanzo lottano per salvare la loro barca e la casa del nespolo: ma sono vinti dalla forza cieca delle avversità. Alla fine un raggio di speranza.
Novelle rusticane: tra le più note troviamo: Malaria, Storia dell'asino di S. Giuseppe...
Mastro don Gesualdo: un romanzo che mette in evidenza la febbre di lavoro di un povero muratore per accumulare la roba e la sua lotta disperata per difenderla; purtroppo la ricchezza non gli porterà la felicità che aveva sperato, ma egli morirà solo, amareggiato dal senso di inutilità delle sue ricchezze e dei suoi sacrifici.

La lingua è per lui strumento essenziale per rendere realisticamente credibili i suoi personaggi: una lingua che pur non essendo dialetto, mantiene una tessitura dialettale che la fa spontanea e viva.

Pessimismo del Verga: ogni ideale è pura illusione (l'amore, la casa, la roba).
Illusione è l'amore: come è dimostrato nei primi romanzi; infatti dopo ogni passione subentra la noia, il suicidio, la tisi, la morte...
Illusione è la difesa della casa e del focolare domestico (I Malavoglia).
Illusione di felicità è la conquista della ricchezza e della roba: è un idolo bugiardo che tradisce Mazzarò (La roba) o che sfugge di mano senza dare soddisfazioni (Mastro don Gesualdo).

Quindi l'uomo è un vinto
CONFRONTO

Il mondo degli umili, che era entrato nella letteratura con il Manzoni (Renzo, Lucia, Agnese, Perpetua... personaggi tratti dalla realtà), è anche quello preferito dal Verga: una folla di povera gente che lotta per la vita, per la casa, per la roba.
Gli umili del Manzoni non sono degli sconfitti perché li sostiene la fede in Dio e nella sua provvidenza; quelli di Verga sono dei vinti senza speranza; si sentono abbandonati in balia di un destino che li sovrasta, senza nessuna fede che li sostenga.
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Riassunto: Mastro Don Gesualdo

di Giovanni Verga
Riassunto per capitoli:

Il romanzo fu stampato a puntate, dal luglio al dicembre del 1888, sulla rivista Nuova Antologia. Apparve poi in stesura definitiva, in volume, nel 1889, dopo una meticolosa revisione d'autore, che assunse il carattere di una vera e propria riscrittura; da 16 capitoli l'opera passò a 21, raggruppati in quattro parti.
L'arco temporale coperto dal romanzo è di quasi trent'anni, cioè lo scoppio delle prime insurrezioni antiborboniche (1820) e la rivoluzione del 1848; siamo dunque agli albori di quel processo di unificazione nazionale che nei Malavoglia appariva già compiuto. L'opera illustra i meccanismi socioeconomici su cui nasce e comincia a svilupparsi la società moderna, con le sue luce e le molte ombre, attraverso un punto d'osservazione privilegiato e una figura dominante (Gesualdo).

PARTE PRIMA (7 capitoli)
L'inizio del racconto (tra 1820-1821) è assai movimentato. In casa della nobile famiglia Trao è scoppiato un incendio: tutti fuggono, ma non si riesce a rintracciare Bianca; un uomo che non vuole farsi riconoscere approfitta del trambusto per allontanarsi in tutta fretta. Si tratta di Ninì, figlio della baronessa Rubiera e amante di Bianca. Ninì rifiuta di sposare una donna che egli stesso ha disonorato e che è ormai circondata da cattiva fama. Sua madre, la baronessa Rubiera, agendo d'intesa con il canonico Lupi, propizia le nozze di Bianca con Gesualdo Motta, un muratore rapidamente arricchitosi. Sposando Gesualdo, Bianca potrà salvare l'onore della famiglia e impedire che i Trao cadano definitivamente in rovina; sposando una nobile, Gesualdo potrà entrare di diritto a far parte di quella società da cui altrimenti, malgrado le sue ricchezze, rimarrebbe escluso. Gesualdo accetta la situazione e non solleva questioni neppure sulla mancanza di dote di Bianca; gli anziani fratelli di lei, Ferdinando e Diego, sono invece scontenti di questa soluzione, come lo è la stessa Bianca; ma non vi sono alternative. Al matrimonio tra Gesualdo e Bianca i nobili non si presentano, né compaiono i familiari dello sposo (tranne il fratello Santo): anch'essi infatti non approvano questo tentativo di uscire dalla propria condizione sociale e culturale originaria.

PARTE SECONDA (5 capitoli)
Gesualdo, ora che ha sposato una nobile, può fregiarsi del titolo di don, secondo l'uso spagnolesco. Si prende la rivincita sui nobili del paese aggiudicandosi l'asta per l'affitto delle terre comunali (agosto 1821): adesso è il più ricco del paese. Vorrebbe approfittare della rivolta antiborbonica contro i nobili: secondo Verga, gli ideali rivoluzionari coprono solo gli interessi egoistici di chi li persegue. Durante un moto popolare, è Nanni l'Orbo a salvare Gesualdo, nasconderlo in casa sua, in cambio di un terreno. Nanni è il marito di Diodata, la serva da cui Gesualdo ha già avuto due figli e che lui stesso ha accasato con quell'uomo. Intanto il nobile Ninì Rubiera, l'ex amante di Bianca, s'invaghisce di un'attrice e da debiti su debiti: Gesualdo ne approfitta, gli presta molto denaro e così accumula un ingente credito con lui.

PARTE TERZA (4 capitoli)
Racconta gli eventi successivi al 1837. Bianca dà alla luce Isabella, che viene educata in collegio, secondo l'usanza dei figli dei nobili. Quando la ragazza rimane incinta del cugino Corrado La Gurna, con cui intrattiene una relazione, Gesualdo decide di cercare un uomo nobile e ricco che la prenda in sposa: si fa avanti, attratto dalla ricca dote, un anziano pretendente, il gentiluomo Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantes, duca de leyra.

PARTE QUARTA (5 capitoli)
E' ambientata nel 1848. Il matrimonio di Isabella non fa che accelerare la rovina di Gesualdo: il genero spende infatti i denari di Isabella, mentre Bianca si ammala di tisi. Il protagonista appare confuso e stordito. Bianca muore, e isabella, che non ama i suoi genitori, non va neppure a visitarla. La rivoluzione del 1848 mette in pericolo le proprietà di mastro don Gesualdo: Nanni l'Orbo, capo dei rivoluzionari, finisce ucciso, forse per responsabilità proprio di Gesualdo. Alla decadenza economica si accompagna quella fisica: ammalatosi di cancro, Gesualdo viene prima trasportato nelle sue terre di Mangalavite, quindi trasferito a Palermo dal genero, che vuole controllare da vicino le sorti dell'eredità. Qui Gesualdo muore (inizio del 1849), in un palazzo non suo, nell'indifferenza generale.


Analisi del testo
In Mastro don Gesualdo Verga abbandona la visione corale dei Malavoglia per concentrarsi su un soggetto individuale e scavare nella sua vita e nella sua interiorità. Gesualdo è il personaggio più complesso mai creato dall'autore: un individuo mobile in continuo cambiamento.E' una persona povera che riesce ad arricchirsi enormemente, per poi fragorosamente ricadere nell'anonimato; a lui tocca, nel mondo verghiano, assieme al Mazzarò della Roba, il triste destino di solitudine e sconfitta che è insito nel meccanismo dell'arricchimento.
L'opera si struttura in 4 parte. La più ampia è la prima, quasi un romanzo nel romanzo. Verga vi ricostruisce, come in un lungo antefatto, la biografia di Gesualdo (e degli altri personaggi), con una precisione analitica che è un chiaro residuo del romanzo naturalista francese. L'attenzione si concentra via via sull'ascesa (sociale e psicologica) del protagonista, che era sulla strada di farsi riccone. Il racconto procede intorno al duplice asse roba / amore: all'assillo della ricchezza corrisponde, in Gesualdo, l'assillo di un matrimonio di prestigio. Tuttavia, chi si consacra alla roba non può conoscere una vera vita di sentimento: il matrimonio tra Gesualdo e Bianca, con cui si conclude la prima parte dell'opera, diviene per lui una trappola, in quanto i due sposi si rivelano, l'uno per l'altro, degli antagonisti, presenza estranee e reciprocamente sconosciute.
La seconda parte del romanzo racconta l'ascesa sociale di Gesualdo. Egli cerca d'inserirsi in un contesto per lui del tutto nuovo: aderisce ai moti carbonari perchè il concetto di rivoluzione racchiude anche quello di trasformazione e quindi, per lui, questa diventa un'occasione di acquisizione di potere.
Il povero diviene ricco, da mastro, cioè umile lavoratore manuale, diventa don, il titolo dei galantuomini, dei possidenti, viene raffigurato, nella terza parte, come un re nel suo regno: il podere di Mangalavite rappresenta il suo potere incontrastato.
Ma proprio al culmine di tale ascesa, comincia il declino di Gesualdo, un declino psicologico e affettivo, ma anche fisico. Nel frattempo si introduce la storia di Isabella, figlia di Bianca e Gesualdo, che sarebbe dovuta diventare la protagonista della Duchessa di Leyra, il terzo romanzo del ciclo dei Vinti. Il padre non riesce a farsi accettare dalla ragazza, in tutto simile alla madre e assai diversa da lui: come si legge nel I capitolo della quarta parte, dalla visita alla figlia in collegio Gesualdo torna invecchiato di dieci anni. Ciò che resterà a Gesualdo è il titolo di mastro-don, che sarcasticamente allude alla sua condizione di ex manovale arricchito. Il finale, che giunge con un ritmo veloce, è tragico Gesualdo morirà nella casa della figlia e del genero.
Gesualdo non è un eroe, ma più propriamente un antieroe, simile ai grandi protagonisti della narrazione novecentesca. La sua decadenza si riflette anche nella struttura narrativa del romanzo: il racconto realistico della prima parte si interiorizza, diventando più soggettivo, in certi squarci Verga adotta il monologo interiore per mostrare il ripiegarsi del protagonista su se stesso, che lo porta a smarrire il contatto con la realtà. Gli ultimi capitoli mostrano un realismo tutto psicologico, che si risalta nelle ultime pagine del romanzo, dove è ben delineato il delirio e l'agonia visionaria di Gesualdo.
La morte nel romanzo, non riguarda solo Gesualdo, infatti tutto muore nel Mastro don Gesualdo, la casa, la roba, la campagna, gli uomini.
La malattia di Gesualdo e dei fratelli di Bianca è sintomo di una sconfitta generale senza rimedio. L'inizio di Verga al Decadentismo.


Mastro-don Gesualdo e Diodata alla Canziria
Nei primi tre capitoli del romanzo Gesualdo è presentato non direttamente, ma attraverso le parole degli altri personaggi, che lo descrivono come un gran lavoratore, da poco arricchitosi e desideroso di far parte dell'elite sociale del paese. Entra in azione solo nel quarto capitolo, in cui si racconta un'intera giornata del protagonista, che si concentra nella corsa affannosa contro il tempo per riuscire a gestire tutti i suoi affari: prima corre a sorvegliare la costruzione di un frantoio e litiga con gli operai, poi si reca a parlare con il prete del paese, il canonico Lupi, che gli propone (su incarico dei nobili) un matrimonio con Bianca Trao; quindi, passando sotto la desolata gola del Petrajo, va a controllare la costruzione della strada di Carmeni. E' ormai sera quando Gesualdo, sfinito, giunge al suo podere della Canziria, dove incontra Diodata, una contadina da cui ha avuto due figli (illeggittimi) e che ancora gli è fedele.
Il brano costituisce uno dei pochi momenti idillici dell'intero romanzo. Dopo una dura giornata di lavoro, gesualdo può finalmente abbandonarsi alla pace del paesaggio, alla coscienza di essersi meritato il riposo, alla compagnia di Diodata. Depone dunque l'atteggiamento del padrone sospettoso, del mercante furbo; ha di fronte la donna che sa tutto di lui e con la quale non ha bisogno di recitare alcuna parte.
Da tale rilassatezza scaturisce il lungo soliloquio di Gesualdo. Seduto sull'aia egli ripercorre come in un flashback le tappe della sua esistenza. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! Il monologo di Gesualdo è scandito da poche battute dirette, quasi tutte con il punto esclamativo alla fine, a marcare i momenti salienti. Attraverso numerose espressioni popolari e veri e propri proverbi, Verga può commentare e giudicare gli eventi senza esporsi in prima persona, ma continuando a restare nascosto dietro al personaggio con la tecnica dell'impersonalità propria del verismo.
Per Gesualdo è stato molto difficile arricchirsi partendo dall'umile condizione di muratore in cui si trovava. Ha dovuto dissimilare la propria ascesa, compierla con umiltà, rispettando le gerarchie costituite: solo adesso che è in cima alla scala sociale può cominciare a manifestare i propri sentimenti. Da qui l'orgoglio con cui ripensa alla propria scalata ai vertici della società: nel ricordo essa acquista un respiro epico, quasi fosse realmente dotata di senso e di valore in se stessa, quasi potesse, cioè procurare la felicità del protagonista.
Ma è l'illusione di un istante , che svanisce nel successivo dialogo tra Gesualdo e Diodata. Si tratta in realtà di un finto dialogo, perchè le parole della donna sono pochissime: Diodata parla con i silenzi, con le lacrime, con i gesti. L'affetto che Gesualdo manifesta per lei è simile a quello che lega cane e padrone: un rapporto di sottomissione, di dipendenza, perché non ci si può aspettare più di questo da un cuore inaridito dalla roba com'è il suo.
Malgrado la sua posizione dominante, Gesualdo si trova in difficoltà: poche volte, come in questo caso, è messo a nudo davanti alla propria coscienza. Sa benissimo che abbandonare Diodata per sposare un'altra donna è una cattiva azione, e intuisce che solo Diodata può dargli quell'affetto e quella dedizione che non potrà aere dalla nobile Bianca Trao. Malgrado ciò, Gesualdo rifiuta l'amore di Diodata: ha bisogno di sposare una nobile per far lega coi pezzi grossi del paese. Senza di loro non si fa nulla!...
Pagherà amaramente questa scelta, con la solitudine e con l'incapacità di comunicare con la moglie e la figlia.


La morte di Mastro Don Gesualdo

Siamo al momento conclusivo dell'opera. La quarta parte del romanzo vede dapprima la morte di Bianca Trao, la moglie di Gesualdo, consumata dalla tisi; poi lo stesso Gesualdo si scopre gravemente malato e vicino alla fine. L'avanzare progressivo del tumore lo indebolisce, conseguendo il suo animo allo strazio dei ricordi e al tormento dei rimorsi. Egli si sente come una mela fracida percossa da un baco, che prima o poi casca dall'albero. Il penultimo capitolo dell'opera si chiude con la partenza di Gesualdo per Palermo, dove si t trasferisce nel lussuoso palazzo in cui vivono la figlia Isabella e il marito, il duca di Leyra. Essi tengono presso di loro il vecchio morente solo per controllarne meglio le proprietà. L'ultimo capitolo, completamente rielaborato rispetto alla prima versione pubblicata nel 1888 sulla rivista Nuova Antologia, costituisce uno dei vertici del romanzo italiano.

Possiamo suddividere il testo in tre momenti:
-Nel primo vediamo Gesualdo, solo subito dopo il consulto dei medici dal quale ha capito, senza più dubbi, che sta per morire: egli si attacca alla vita con ostinazione, convivendo dalla distanza che continua a separarlo, anche in questi momenti supremi, dalla figlia Isabella.
-Segue il colloquio tra padre e figlia: entrambi sono accomunati da segreti e sofferenza, difatti lei non è la sua vera figlia e inoltre Gesualdo non voleva figli da Diodata, e tuttavia non riescono a instaurare una vera comunicazione perciò il loro colloquio si limita alla sfera degli affari, come dice Gesualdo, che chiede alla figlia di poter stornare dall'eredità una piccola parte a persone verso cui ho degli obblighi.
Infine Gesualdo Muore, solo tra l'indifferenza di chi gli stava intorno.
Il testo oscilla fra i tormenti causati dal protagonista dalla malattia e gli incubi dettati dall'imminenza della morte. Gesualdo si attacca alla vita e alla roba con tutte le sue forse; tuttavia sa che non gli resta molto tempo, e matura in lui il desiderio di confidare a Isabella i suoi segreti più oscuri, informarla circa i figli nati dalla sua relazione don Diodata, ai quali vorrebbe destinare una piccola parte della sua eredità. Tuttavia, nell'istante culminante, i due personaggi si dimostrano reciprocamente incompatibili e inconciliabili: si chiudono l'uno all'altra, ostili e diffidenti. La superbia di Isabella provoca il risentimento di Gesualdo: egli, fissandola, scorge in fondo ai suoi occhi solo crucci e gelosie segrete, e così si sente tornare Motta, com'essa era Trao, diffidente, ostile, di un'altra pasta. Dunque l'incontro si risolve nella freddezza di un abbraccio che si scioglie. L'ora della morte di Gesualdo è raccontata da Verga con lucido disincanto. Il moribondo dai tremori del trapasso imminente, ma il suo servitore lo assiste con superficialità impazienza e fastidio. Quando muore, intorno al suo corpo si raccolgono solo dei servitori indifferenti, con i loro giudizi impertinenti e frivoli. Stride, in questo epilogo, il contrasto fra il dramma intimo vissuto dal protagonista pochi giorni prima di morire e la superficialità e i pettegolezzi dei personaggi che gli sono accanto pochi minuti dopo la sua morte. Attraverso questo dissidio il narratore sembra sottolineare tutta la vanità di un esistenza vissuta solo secondo le leggi dell'economia e della roba. Gesualdo che è stato vincitore per la sua ascesa economica e sociale diventa vinto, umiliato e sconfitto: di fronte alla morte e al vuoto che essa schiude, la roba perde ogni valore e significato; i sacrifici sostenuti e le lotte combattute appaiono inutili, privi di ogni attrattiva, e al lettore non rimane che l'impressione che tutto si risolva in un fallimento.
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Riassunto: Nella tempesta, Verga

di Giovanni Verga
Riassunto:


La Provvidenza, la barca dei Malavoglia, è ancora una volta in mare dopo essere stata rimessa a nuovo dai gravi danni subiti durante il naufragio in cui andò perduto il carico dei lupini. La pesca è abbondante e può far sperare in un guadagno prezioso per risollevare la sventurata famiglia; ma la tempesta si abbatte con furia a infrangere ogni speranza, mettendo a dura prova, nuovamente, la resistenza dei coraggiosi pescatori. E' un quadro potente che ha per sfondo il cielo nero e per protagonisti il mare, il vento, e la Provvidenza su cui lottano disperatamente 'Ntoni e i suoi due nipoti, 'Ntoni, il maggiori, e Alessi, ancora un ragazzo. E' una lotta dura, ma alla fine riesce a trionfare sulla cieca violenza degli elementi scatenati.

Commento
La potenza drammatica del brano è data soprattutto dal contrasto fra la furia poderosa della tempesta e la fragilità della barca con i suoi tre pescatori. La tensione narrativa si sviluppa da quella lotta senza tregua, in quel cielo buio, fra quelle onde che luccicano come gli occhi pieni d'ira o che si spalancano come bocche fameliche. I tre personaggi vivono il dramma con lo stesso terrore nel cuore, ma con diverso atteggiamento: 'Ntoni è tutto teso a far valere la sua forza con una feroce rabbia in corpo, che è il suo modo un po' rozzo, ma vero, di scaricare una paura non confessata; Alessi, più giovane e più ingenuo, non è capace di nascondere il suo terrore, il desiderio di casa e il disperato bisogno della protezione materna e, come un bambino, non può fare a meno di urlare, urlare, urlare...
Punto saldo di riferimento è il nonno: egli non può mostrare la paura e grandeggia sullo sfondo della tempesta in tutta la sua plastica vigoria, capace con la sola presenza e con i suoi richiami alla fiducia in Dio, di temperare la disperazione degli altri.
Infatti, quando 'Ntoni e Alessi non sentono più la sua voce e lo temono morto, non sanno più che fare.
Ma finalmente l'azione si risolve per il meglio; miracolosamente la Provvidenza sbatte sugli scogli dove i doganieri possono gettare delle corde e portare soccorso. La scena rapidamente si anima di tutti gli sfaccendati del paese, solleciti anch'essi a portare il loro aiuto. Padron 'Ntoni non è morto, la barca è distrutta, ma i Malavoglia hanno vinto quella lotta che pareva disperata.
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