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Poetica di italo Calvino

Poetica:
Al contrario la sua opera appare mutevole, sollecitata dal gusto dell’esperimento e dal desiderio di superare gli ostacoli tecnici del suo mestiere.
Ciò non esclude che in Calvino si possano riscontrare delle costanti:
  • da un lato, l’accento di meraviglia e di divertimento con cui egli presenta ogni vicenda; nasce da qui la ricerca della leggerezza, la prima delle sei qualità che Calvino (nelle sue tarde Lezioni americane) additò quale tratto tipico e caratterizzante della scrittura letteraria;
  • dall’altro, l’osservazione della società e del mondo circostante, quella vena di bonaria quotidianità che modera l’invenzione e la riavvicina costantemente alla realtà.

Tale alternarsi di fantasia e realtà segna un po’ tutte le opere di Calvino: appare già nei primi racconti neorealistici; ritorna nelle disavventure di Marcovaldo così come nelle Cosmicomiche, il libro del 1965 che inaugura il Calvino più nuovo e moderno; si conferma nelle opere successive, fino all’ultimo libro, Palomar, del 1983.

L’esordio
Gli esordi di Calvino avvennero nel segno del realismo, scelta a cui rispondono diverse opere:
  • il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, incentrato sulle tematiche neorealistiche della Seconda guerra mondiale e sulla Resistenza;
  • i trenta brevi racconti raccolti in Ultimo viene il corvo e ispirati dagli stessi motivi;
  • il nuovo ciclo di racconti intitolato alle disavventure dell’operaio Marcovaldo e della sua strampalata famiglia, nel quadro della civiltà industriale e dei mutamenti antropologici che essa produce;
  • infine, il romanzo breve La giornata di uno scrutatore.
Questa opzione di Calvino a favore del realismo si allineava al clima intellettuale e politico di quegli anni. Dopo il 1945, davanti ai gravi problemi dell’Italia da ricostruire; quasi tutti gli autori di quegli anni. Dopo il 1945, davanti ai gravi problemi dell'Italia da ricostruire, quasi tutti gli autori intendevano realizzare una letteratura impegnata dal punto di vista e sociale; precisamente su tali presupposti era nata la corrente del Neorealismo.
Tuttavia anche in queste opere, che sono le più realistiche di Calvino, affiora il gusto per la pura invenzione, per il favoloso e il sorprendente; un gusto destinato a svilupparsi nel tempo ma che già trasse lo stesso Calvino nella prima delle Lezioni americane: Quando ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l'impegnativo categorico di ogni giovane scrittore. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che, tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l'agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura, c'era un divario che mi costava sempre più sforzo superare.
Opera dopo opera, la scrittura di Calvino tenderà ad allontanarsi dai fatti della vita per prediligere invece l'avventura, la fantasia (ciò che lui chiama il ritmo interiore), spostandosi verso l'invenzione ai limiti del reale e oltre.

Il sentiero dei nidi di ragno
L'alternanza fantasia/realtà guida l'opera d'esordio di Calvino, il romanzo breve Il sentiero dei nidi di ragno (1947): un'opera vicina, in apparenza, ai tanti racconti di guerra e Resistenza di quegli anni. Protagonista è Pin, un adolescente che vive negli ambienti poveri del porto di una grande città di mare, prima emarginato dagli altri per la sua condizione (vive con una sorella prostituta) e poi giovane partigiano in un gruppo di uomini sbandati. La trama si sviluppa intorno al furto di una pistola ai danni di un soldati tedesco, che Pin nasconde in un luogo segreto, detto il sentiero dei nidi di ragno in cui ha spazio la lingua parlata, con gli accenti gergali degli sbandati tra cui il giovane Pin si trova a vivere. L'opera però non è finalizzata alla celebrazione cara al Neorealismo della lotta partigiana. Luoghi ed eventi sono trasfigurati, filtrati sempre dal punto di vista soggettivo di Pin, il ragazzo un po' selvatico che vuole evadere, con la fantasia, dalle miserie del quotidiano. Pin vorrebbe sdraiarsi nella sua cuccetta e stare a occhi aperti a fantasticare, fantasticare di bande di ragazzi che lo accettino come loro capo, perché lui sa tante cose più di loro, e tutti insieme andare contro i grandi e picchiarli e fare cose meravigliose, cose per cui anche i grandi siano costretti a ammirarlo ed a volerlo come capo, e insieme a volergli bene e accarezzarlo sulla testa. La Resistenza diviene alla fine una specie di fiaba, di grande avventura che rende possibile la scoperta del mondo.

Realismo
I temi della guerra e della lotta partigiana ritornano anche nella maggior parte dei racconti di Ultimo viene il corvo; si conferma, in essi, la particolare ottica narrativa del Sentiero dei nidi di ragno, il suo originale impasto di realtà da una parte e di fiaba (talora ironica) dall'altra. Alcuni di questi racconti trattano del difficile ritorno alla normalità nei primi tempi del dopoguerra.
L'attenzione alla realtà del proprio tempo rimane un tratto caratteristico anche della produzione successiva di Calvino. A confermarlo sono:

  • un gruppo di racconti aventi per oggetto la realtà cittadina e industriale: La formica argentina, la speculazione edilizia, La nuvola di smog.
  • i dieci racconti di Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, raccolti in volume nel 1963, in una collana per ragazzi. I racconti s'incentrano su un operaio torinese e sul difficile inserimento di una famiglia contadina nella realtà industriale.
  • Infine La giornata di uno scrutatore, un'opera che s'impernia sulle riflessioni di un intellettuale laico e razionalista (controfigura dell'autore) mentre presta servizio come scrutatore in un seggio elettorale allestito presso l'istituto Cottolengo di Torino.
La giornata di uno scrutatore
Tra queste opere, un ruolo di primo piano spetta alla Giornata di uno scrutatore: un romanzo breve uscito nel 1963 e dall'impianto realistico, come rivela già l'inizio, così fattuale e descrittivo: Ameriga Ormea uscì di casa alle cinque e mezzo del mattino. La giornata si annunciava piovosa. Questo incipit suonava come una sfida verso le sperimentazioni invocate dalla Neoavanguardia poetica, organizzarsi proprio in quell'anno nel Gruppo 63 e molto polemica, tra l'altro, con il romanzo tradizionale, incentrato sui fatti e sull'intreccio. Ma la novità della Giornata di uno scrutatore era di altro tipo e riguardava la sostanza problematica, filosofica del racconto. La visita al Cottolengo suscita infatti nel protagonista molte domande: a contatto con i casi più pietosi di individui minorati, egli si chiede se davvero la ragione e la politica possano spiegare e risolvere tutti gli aspetti della vita. Erano riflessioni generalmente tenute ai margini dalla cultura laica e razionalistica di Calvino e degli intellettuali impegnati suoi amici. Ora, messo davanti alla malattia, agli errori della natura, ai gravi disturbi psichici, Amerigo Calvino sembra sul punto di perdere la fiducia nella prassi politica e nelle ragioni che la sostengono.
Gli interrogativi e le inquietudini che percorrono La giornata di uno scrutatore spostano l'asse del racconto verso una forma nuova di romanzo saggio, di romanzo d'idee: ennesima tessera dell'incessante sperimentalismo calviniano.

Fiabe italiane
La seconda fase di Calvino supera la rappresentazione realistica per ricercare nuove vie narrative, che coltivano soprattutto una vena fantastica.
Questa nuova stagione si avvia con l'edizione commentata delle Fiabe italiane, scelta di 200 racconti popolari di diverse regioni d'Italia. Il libro nasce da ricerche antropologiche sul folklore popolare, ma si serve anche degli studi dello strutturalista russo Vladimir Propp, in particolare il saggio Morfologia della fiaba. A Calvino la fiaba interessa per i suoi valori narrativi e perché mette al centro dell'attenzione le prove che il protagonista è chiamato a superare per realizzare se stesso. Ha scritto lui stesso: Lo stampo delle favole più remote: il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri con belve e incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie umane, resta il disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità morale si realizza muovendosi in una natura o in una società spietate.

Città invisibili
Oltre alla scienza letteratura, la narrativa di Calvino evolve in direzione apertamente fantastica nel romanzo Le città invisibili: un'opera che aggiornava il realismo magico e il fantastico degli anni trenta e quaranta in una chiave più moderna e sperimentale. Il libro prende vita dalla narrazione tutta soggettiva del viaggiatore veneziano Marco Polo (autore del Milione), incaricato dal Gran Kan Kublai di fargli una relazione sui tanti luoghi da lui visitati. Il resoconto dell'immobile viaggiatore evoca, nel corso di diciotto dialoghi, cinquantacinque diverse città invisibili, che vengono a costituire una sorta di romanzo a incastri.
Queste città l'imperatore può soltanto sognarle; e lo stesso Marco, forse, non le ha mai viste. Esse emergono come ipotesi dal suo immaginario e dallo struggente ricordo della prima e più bella di tutte, Venezia. Come Marco dice a Kublai, è pura utopia una vera conoscenza; non si può mai approvare alcuna realtà, perché altrimenti essa cesserebbe di resistere. Bisogna saper riconoscere in ogni segno, anche piccolo, una realtà più grande, che la letteratura evoca in forma di racconto.

Se una notte d'inverno un viaggiatore
Questi caratteri ritornano potenziati, nel romanzo del 1979, se una notte d'inverno un viaggiatore. Si tratta di un antiromanzo: l'opera infatti si struttura su dieci diverse storie che per varie ragioni, rimangono tutte interrotte dopo essere appena cominciate. Il vero protagonista del racconto è il lettore (anzi lettore e lettrice), chiamato a rimettere ordine, come può e se può, nel labirinto dei possibili. Il libro assomiglia alla fine a un grande puzzle, dove si mescolano gusto del raccontare e riflessione teorica (il cosiddetto metaracconto), simmetria e casualità.
Siamo davanti a un libro postmoderno (sulla poetica del postmoderno ricco di echi letterari e allusioni, nutrito di parodia. Il suo messaggio è che, oggigiorno, non si può più scrivere, né leggere, un vero romanzo (mi sembra che ormai al mondo esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per strada, si legge nel capitolo undicesimo); e così il sentimento dell'autore oscilla tra ironia e nostalgia: Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l'eroe e l'eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l'inevitabilità della morte.
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Poetica di Eugenio Montale

Montale, nelle sue opere, è stato un autorevole interprete di quella crisi dell'io e della società che caratterizza tanta letteratura del Novecento. La sua è una visione assai differente rispetto a quella di Giuseppe Ungaretti, l'altro poeta classico del secolo. Infatti:
  • Ungaretti parte da una posizione di dolore e pena, ma giunge poi a un'affermazione, sia pure sofferta, di fede religiosa e di speranza;
  • Montale invece non ha mai abbandonato la convinzione della negatività e aridità della vita: un'idea magistralmente espressa fin dal suo primo libro di versi, Ossi di seppia (1925) e confermata nelle sue ultime opere.
Così come mancò a Montale il conforto nella fede, gli mancarono anche le speranze e le soluzioni promesse dalle ideologie (incluso il marxismo), verso cui nutrì sempre diffidenza e freddezza. L'aridità, la negatività montaliane suonarono, negli anni del fascismo, anche come una denuncia delle false certezze su cui la cultura del tempo riposava, con i suoi programmi di ritorno all'ordine, con i suoi miti imperiali. Non a caso l'editore degli Ossi di seppia fu Piero Goberti, uno dei più lucidi intellettuali antifascisti, costretto all'esilio e alla morte precoce a Parigi nel 1926.
Ma anche nel corso degli anni successivi e nelle altre raccolte di versi via via pubblicate, la poesia montaliana non intende abbellire la realtà o nascondere il male di vivere, né dissimulare quella disarmonia (un non sentirsi a posto, un inadattamento, come Montale stesso lo definì) che lo scrittore avvertiva in se stesso, nella storia e nell'esistenza umana. Intende invece dichiararla, senza compiacimenti, ma con la dignità del testimone. E' un atteggiamento paragonabile al pessimismo di Giacomo Leopardi, e che ha diversi punti di contatto anche con la filosofia tipicamente novecentesca dell'esistenzialismo.
Tale visione negativa del vivere viene espressa da Montale in un poetare scabro ed essenziale: Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, dichiara infatti il celebre inizio di una lirica del suo primo libro, in cui il poeta si rivolge al mare e alla sua azione purificatrice. Ora, questa essenzialità va intesa a più livelli: filosofico, stilistico e tematico, simbolico.

Livello filosofico
Essenzialità è in primo luogo una ricerca di autenticità, di verità, a livello filosofico. Montale che è un poeta assai colto, accostò negli anni delle sue ricche letture genovesi le opere di alcuni filosofi francese, come Boutroux, Bergson, sulla loro scia pensò che il primo compito della poesia fosse quello di attingere l'autenticità della vita: sentivo di essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo, dichiarò in Intenzioni. Intervista immaginaria. Noi sappiamo, dice Montale nei Limoni, che c'è l'anello che non tiene; è nella catena che tutto soffoca, cerchiamo disperatamente il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità. Non riusciamo a ritrovarlo, questo filo, ma non per questo la poesia montaliana rinuncia a cercare tale verità.
La difficoltà di lanciare messaggi positivi, dunque, coesiste con la nostalgia di tali messaggi; la letteratura novecentesca non si arrende, anche se sente lontanissimo, forse irraggiungibile, l'oggetto delle sue aspirazioni (nel caso di Montale, la vera essenza del mondo e dell'uomo).

Livello stilistico
Per Montale, l'essenzialità non è solo un tema filosofico: già in Ossi di seppia essa è anche una scelta tematica e stilistica controcorrente rispetto alla poesia tradizionale. Abbiamo accennato ai temi umili del primo Montale, agli oggetti comuni che abitano le sue liriche (i limoni, gli ossi di seppia ecc.), ambientate in un paesaggio familiare , dimesso. A quei temi, coerentemente, corrispondono scelte stilistiche antiretoriche. Montale infatti rifiuta il dannunzianesimo, ancora di moda: vuole, come scrive lui stesso, torcere il collo al linguaggio della tradizione, all'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica; non teme quindi di usare parole comuni, anche dialettali, specie quando si tratta di designare gli animali le piante dell'ambiente ligure.
Prende così vita la tipica poesia di Ossi di seppia: la poesia senza canto di un mondo senza canto. Il poetare di Montale rinuncia a ogni tradizionale prestigio della funzione poetica, all'ambiente elevato e alle parole ricercate dei poeti laureati. Non rinuncia di quando in quando a qualche accensione, alle trombe d'oro della solarità, come dice nella lirica I limoni; ma in prevalenza la sua rimane una poesia che si presenta come scarnificata, depurata da ogni residuo di sentimento esposto o gridato.

Livello simbolico
Infine, nelle Occasioni e nella Bufera, essenzialità è soprattutto un modo molto sobrio di comunicare concetti, emozioni e stati d'animo senza esibirli, senza spiattellarli (è una parola di Montale), ma riassorbendoli nelle situazioni e negli oggetti via via evocati. Ciò significava porsi agli antipodi del Romanticismo idillico e musicale dell'Ottocento. Se i poeti romantici amavano dichiarare i loro sentimenti, per farne partecipi i lettori, Montale li esprime solo attraverso i simboli, o meglio, attraverso oggetti da lui caricati di un valore simbolico. Nasce così la poetica dell'oggetto emblematico, già parzialmente presente in Ossi di seppia (dove sussiste una certa dimensione di simbolismo), ma poi, soprattutto, nelle Occasioni e nella Bufera.
L'uso degli oggetti emblematici avvicina indubbiamente i due libri centrali di Montale alla poetica degli ermetici (Quasimodo, Gatto, Luzi). Ma forse li avvicina ancor più, come Montale stesso vide, alla tecnica del correlativo oggettivo utilizzata dal poeta anglo americano Thomas Stearns Eliot. I versi, cioè, rivelano situazioni (occasioni) biografiche, ovvero fatti, cose, nomi e persone che costituiscano il correlativo (cioè l'equivalente) di un certo sentimento; il poeta tace perciò il sentimento ed evoca solo gli oggetti che a esso alludono. Da qui la sensazione di difficoltà e oscurità suscitata nei lettori, anche per l'alta liricità con cui il poeta riveste i suoi simboli.
Attenzione, però. Benché difficili da decifrare, i simboli di Montale non obbediscono sintatticamente alla logica dell'inconscio, dell'irrazionale. Rispetto alla pura evocazione (al surrealismo) di molte poesie ermetiche, Montale ha sempre preferito affermare il valore della ragione, convinto che la poesia debba opporsi come può al disordine e all'incoerenza della vita contemporanea. Perciò, nelle sue liriche, accanto ai versi liberi, incontriamo anche i più tradizionali endecasillabi, osserviamo strofe  e rime, pur se assai meno comuni delle rime di Saba. Per lo stesso motivo, il periodare di Montale è sintattico (vuole costruire un discorso) e non paratattico (non si riduce a una somma di sensazioni, come fa Ungaretti nell'Allegria). Sono tutti modi attraverso cui l'arte può esprimere il primato della ragione.

Stagione milanese (poesia al 5%)
L'ultima stagione di Montale è quella milanese, inaugurata da Satura (1971). Il vecchio poeta (vincitore nel 1975 del premio Nobel) rivoluziona completamente il proprio modo di scrivere e sconvolge, quindi le aspettative di pubblico e critica. Invece di chiudersi nella nostalgica rievocazione di sé e del suo mondo, coraggiosamente abbandona i toni alti che caratterizzavano soprattutto Le occasioni e La bufera; del resto, ormai da tempo è un giornalista, e quindi lo scrivere è divenuto per lui un fatto feriale.
Anche il linguaggio si fa più basso, comico, ora che la letteratura rischia di scomparire, sopraffatta ormai dalla musa del nostro tempo la precarietà (così nel Quaderno di quattro anni). L'uomo d'oggi non parla più, è come parlato dai mass-media; e la poesia diviene il rovescio della poesia, finendo per assomigliare anch'essa a un inutile ritaglio di giornale.
Già in Ossi di seppia Montale aveva polemizzato con i poeti laureati, quelli che (come D'Annunzio) scelgono timbri sonori, altisonanti, e temi impegnativi; adesso però, nei suoi ultimi libri, denigra tutti i poeti. I poeti defunti dormono sonni tranquilli / sotto i loro epitaffi, leggiamo in Satura; la foglia dell'alloro, antico segno della gloria poetica, oggi appare polverosa e, secondo quanto dichiara il Quaderno di quattro anni, non serve più nemmeno per condire l'arrosto. Lo scrittore stesso di presenta in abito borghese (Satura), è un poeta al cinque per cento, come dice in Diario del '71 e del '72, un intellettuale chiuso in una dimensione privata, minima.
In ogni caso, neppure l'ultimo Montale abbandona mai la nostalgia dell'arte, anche se la dichiara morte, nel mondo alienato e massificato in cui si sente costretto a vivere. La sua denuncia rimane, malgrado tutto, un atto d'amore all'umanità; non lontana, nelle intenzioni, pur se in forme diverse, dalla scelta dell'aridità, che aveva ispirato gli Ossi di seppia giovanili.
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Poetica di Luigi Pirandello

Pirandello, nato nel 1867, si formò in una fase segnata da una duplice crisi:
da una parte, la crisi storica e sociale dell’Italia postrisorgimentale;
dall’altra, la crisi della cultura positivistica, corrispondente alla caduta dei valori e delle certezze acquisite.
La crisi storica e sociale era particolarmente avvertita nel Mezzogiorno d’Italia e in Sicilia; già Verga l’aveva rappresentata nei romanzi e nelle novelle. Sui temi della prepotenza dello stato centralistico e del tradimento di ogni vera prospettiva unitaria e nazionale, Pirandello darà un vasto e pessimistico affresco, nel 1909, con I vecchi e i giovani, il suo romanzo storico.
Ma ancora più grave è l’altra crisi. Il crollo dei miti della ragione, della scienza, del progresso, che si esprime nella contemporanea cultura del Decadentismo, trova nell’opera di Pirandello una delle sue più importanti espressioni: l’uomo non è più in grado di conoscere e di padroneggiare il mondo esterno e, soprattutto, non conosce più se stesso e non si appartiene più.
Da queste riflessioni deriva il relativismo di Pirandello. Già in un saggio giovanile, Arte e coscienza d’oggi, risalente al 1893, Pirandello denunciava profeticamente la relatività di ogni cosa: Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove; è naturale ce il concetto della relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi. Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata.

La condizione copernicana
Un simbolo del relativo, secondo Pirandello, è Copernico, il primo a vedere nel XVI secolo che è la Terra a girare intorno al sole, e non viceversa: un mutamento epocale, che incrinò molte certezze. Perciò: Maledetto sia Copernico!, dirà Mattia Pascal nel romanzo di cui è protagonista (1904). Il suo ospite romano, Anselmo Paleari, troverà una metafora straordinaria per esprimere la condizione copernicana dell’umanità di oggi (siamo nel XII capitolo del Fu Mattia Pascal): un tempo, dice Paleari, sui teatrini di marionette si stendeva un bel cielo di carta (metafora del mondo), e da lì il burattinaio (metafora di Dio) guidava le sue marionette; ma ora si è prodotto uno strappo nel cielo di carta del teatrino, e nulla è più in ordine, ben regolato.

La personalità molteplice
La crisi generale si accompagna poi alla crisi dell’individuo: l’opera di Pirandello, che a differenza di Svevo non lesse direttamente Freud, è piena di richiami al mondo dell’inconscio, al sogno, alla follia. Egli lesse infatti già nell’originale francese Le alterazioni della personalità (1892), un libro dello psicologo Alfred Binet (1857-1911), precursore di Freud e della psicoanalisi. Da Binet lo scrittore siciliano apprese l’idea che la personalità degli uomini non è una, ma molteplice: cambia, cioè, a seconda delle situazioni e delle convivenze.
Questo spunto, lungamente meditato e rielaborato, suggerì a Pirandello l’idea che noi non siamo sempre uguali a noi stessi: cambiamo, fino al punto di non riconoscerci più e diventare altro da noi stessi. Nasce da qui uno dei più caratteristici temi pirandelliani, la follia.
Essa scoppia nel momento in cui i personaggi si scoprono contemporaneamente uno e due, come lo Stefano Giogli protagonista della novella omonima (1909); si scoprono uno, nessuno e centomila, come Vitangelo Moscarda, protagonista dell’omonimo romanzo del 1925-26. Lo sdoppiamento, la dissociazione interiore non può non generare un’angoscia profonda, che si traduce appunto, all’esterno, in follia.

La vita e le forme
Accanto a Binet, un’altra fonte decisiva, per Pirandello, fu il Saggio sul genio nell’arte (1884) del filosofo francese Gabriel Séailles (1852-1922). In quest’opera Pirandello trovò un’importante suggestione: noi non percepiamo le cose per come esse sono, ma le apprendiamo soggettivamente, per come ci appaiono, a seconda della nostra educazione, della nostra mentalità e della situazione in cui ci troviamo. La vita ci si mostra in base a quello che Pirandello definirà il nostro sentimento della vita. Così egli scriverà nel saggio L’umorismo: Noi non abbiamo della vita un’idea, una nozione: abbiamo un sentimento, mutabile e vario, a seconda dei casi e della fortuna.
Infine, dal libro Le finzioni dell’anima (1905) del pedagogista italiano Giovanni Marchesini (1868-1931) ricavò l’idea che non esistono valori morali certi: l’idea del bene, il dovere e gli altri valori sono semplici credenze, che Pirandello chiamerà forme. Si tratta di ideali astratti, di convenzioni prive di sostanza: poiché si oppongono al flusso della vita, bloccano la libera esplicazione delle nostre energie vitali. Tale contrasto fra Vita e forma è uno dei grandi temi pirandelliani.

Poetica dell’Umorismo
Quelle che abbiamo esposto sono le idee che Pirandello recepì da molteplici fonti e che rielaborò nel suo personale relativismo. La traduzione letteraria del relativismo fu l’umorismo, come Pirandello stesso volle battezzare la propria poetica nel più importante fra i suoi saggi teorici, L’umorismo (1908). In esso l’autore esamina l’arte umoristica che rese grandi alcuni autori del passato, come Ariosto, Cervantes, Manzoni; ma in realtà vuole parlare soprattutto di sé e della propria arte.
Secondo Pirandello, l’umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale attività della riflessione che non si cela. La prerogativa dell’umorista è appunto vedere il contrario di tutte le cose (cioè il loro lato nascosto): nascono di qui i tanti casi paradossali, le stranezze, le situazioni abnormi tipiche delle pagine pirandelliane. Eppure l’umorista non è lieto di una simile capacità; come le antiche statue (erme) a due facce, anch’egli è un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta. Chiarisce Pirandello: Vi prego di credere che non può esser lieta la condizione d’un uomo che si trovi ad essere quasi sempre fuori di chiave, a essere a un tempo violino e contrabbasso; d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir sì, subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringano a dir no, immediatamente dopo; e tra il si e il no lo tengano sospeso, perplesso, per tutta la vita.

La s-ragione  pirandelliana
L’umorismo di Pirandello attribuisce un ruolo di primo piano alla ragione e, in effetti, i suoi personaggi discutono, distinguono, spiegano, ragionano con accanimento.
Tuttavia, le loro vicende dimostrano che è impossibile una qualsiasi conclusione razionale, una sintesi, visto che la vita stessa, a parere di Pirandello, non conclude. Egli, dunque, non ha alcuna fiducia nella ragione, e se la usa è per dimostrare che essa non conduce da nessuna parte. E’ un tema profondamente novecentesco, in quanto antipositivistico, cioè contro ogni progresso derivato dall’uso della ragione. Ragionare significa, per Pirandello, sragionare; perciò, nell’Umorismo, la logica viene definita una macchinetta infernale, un diabolico meccanismo, che nega e capovolge la fiducia ottocentesca nella scienza e nel progresso. Il pensiero razionale, in Pirandello, si sovverte nel suo esatto contrario: conduce non a vivere, ma a non vivere. E’ il trionfo dell’irrazionalismo.

Il contrario, l’ombra e l’oltre sono i temi dell’umorismo
L’arte che nasce da tale concezione, cioè l’arte umoristica, non potrà che essere assai diversa da quella a cui siamo abituati: sarà un’arte paradossale, che rivela il contrario, l’ombra, l’oltre (tutte parole chiave per Pirandello). Il contrario è ciò che la riflessione umoristica scopre: la realtà non è mai pacifica e neutra come potrebbe sembrare. L’ombra è il lato nascosto delle cose, e solo l’umorista può vederlo; essa rappresenta anche l’altro me stesso, l’io segreto che affiora in certi momenti di vuoto interiore. Si tratta di una concezione molto simile a quella di inconscio (freudiano). Infine, l’oltre: un mondo (a cui l’umorista aspira) fatto di sincerità e autenticità, attingibile forse nella condizione dell’infanzia o in una vita più naturale; ma è una sfera lontanissima dalla vita quotidiana, che è invece governata dalle apparenze e dalle regole sociali, che Pirandello chiama forme.
Secondo Pirandello, noi tutti finiamo per accettare queste forme e indossiamo la nostra maschera di rispettabilità. Ebbene, l’umorista rivela queste falsità, strappa la maschera dal viso suo e di tutti e rivela ciò che essa nasconde: il contrario, l’ombra, l’oltre. Per lui, che ha osato tanto, non potranno esserci che un destino di esclusione dalla vita sociale e l’accusa di pazzia, Ma Pirandello sospetta che, fin dei conti, ad avere ragione siano proprio i pazzi, o meglio, i saggi-folli (e umoristi) come Mattia Pascal o come Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.

La rivoluzione di autore e personaggio
Anche l’autore-umorista non può che essere il contrario degli autori della tradizione: invece di ragionare, sragiona; invece di mettere se stesso al centro dell’opera, come il poeta-genio del Romanticismo, si emargina; invece di comporre opere belle, lascia che nelle sue pagine emerga la relatività di ogni cosa, e che ciò avvenga nella forma più adeguata, cioè caotica e scomposta.
E’ così che la nuova arte umorista rivela le molteplici, confuse apparenze dell’esistere. Il traguardo di quest’arte è il trionfo del caos: Pirandello stesso si definiva figlio del Caos, ricordando di essere nato in una campagna che gli abitanti di Agrigento chiamavano Càvusu, Caos.


Il personaggio senza autore
Caos della vita, caos dell’arte. Questa concezione trova espressione nella nuovissima poetica del personaggio senza autore. In una novella del 1906, Personaggi, Pirandello immagina un autore che dà udienza ai suoi personaggi: si presenta davanti a lui un certo Leandro Scoto, che gli chiede di essere fatto vivere in un’opera d’arte. L’autore non accetta, eppure il dottor Scoto è vivo e reale, di fronte a lui! Il tema, del tutto originale, dei personaggi nati senza l’intervento dell’autore e che si recano a fargli visita ritornerà in altre novelle (La tragedia di un personaggio, del 1911) Colloqui coi personaggi, del 1915); diventerà il nucleo centrale di Sei personaggi in cerca d’autore, il famoso dramma del 1921.
Già Verga aveva parlato di un’opera che sembrerà essersi fatta da sé; ma solo sembrerà. Invece Pirandello teorizza un’arte che non solo sembra, ma è autonoma dal suo autore: l’opera nasce e senza l’intervento dell’autore, addirittura fuori dalla sua volontà, contro l’autore stesso. L’autore infatti non vorrebbe dare spazio a quelle creature della fantasia che si sono impossessate di lui; non vorrebbe, ma alla fine i fantasmi della mente gli prendono la mano ed egli è costretto a lasciare che si appoggia a questa idea di spossessamento dell’autore: risultato di una poetica nuova e sperimentale, vicina alla riduzione della letteratura elaborata da Svevo in quegli stessi anni.
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Poetica di Italo Svevo

Svevo fu tra i primi scrittori del Novecento a concepire la letteratura in modo assai diverso da come la concepiva la tradizione (per esempio D'Annunzio, in quell'epoca l'autore italiano più letto e influente). Egli infatti ridimensiona nettamente il ruolo della letteratura e del poeta, allontanandosi notevolmente dalla figura di poeta-eroe dell'età classica, o da quella di poeta-genio dei romantici. Svevo, al contrario, attribuisce ai letterati molti i difetti: sono lenti (non possono dare un giudizio sintetico su questa vita che analizzarono con tanta lentezza - Diario, 1893), indecisi (Sto per giornate intere dinanzi alle mie cartelle e fumo, fumo, fumo - Terzetto spezzato, 1912), perfino immortali (Bastava perciò non scrivere ed egli diventava l'uomo virtuoso ch'era stato sempre - La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, 1926).
Il punto è che i poeti non possono più conoscere il mondo, non hanno più certezze o valori o ideali da comunicare. Se vogliono davvero rimanere fedeli alla vita ed essere sinceri, come Svevo auspica, non possono che ridursi a parlare dell'unica cosa che conoscono, pur se parzialmente: la propria vita interiore. La letteratura, scrive Svevo, è semplicemente un modo per conoscersi meglio:
Io voglio soltanto - leggiamo in un appunto di diario datato 1902 - attraverso a queste mie pagine arrivare a capirmi meglio. La penna m'aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere.
L'opera che ne nascerà avrà carattere introspettivo (come avviene nei primi due romanzi sveviani) o diventerà, addirittura, un'autobiografia, qual'è La coscienza di Zeno.
In tal modo, la letteratura perde la sua aura, non ha più nulla a che fare con il bello, con l'arte; diviene un fatto privato, che può sopravvivere solo se si rende utile a chi la pratica. Il vecchione del quarto romanzo (appena abbozzato) affermerà, con forte autoironia, che la letteratura ha per lui il semplice valore di un purgante.
Questa poetica della riduzione della letteratura giunge fino al rifiuto. In un altro famoso appunto di diario, sempre datato 1902, leggiamo: Io, a quest'ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Svevo però non mantenne fede al proposito: dopo i primi due romanzi, sarebbe giunto il capolavoro della Coscienza.

Il ricordo e la malattia: questi sono i suoi temi prediletti
In quest'ottica privata e individuale, il tema prediletto diviene quello del ricordo, la parte più intima dell'autore, la più adatta all'autoconoscenza, all'introspezione. Ricordare significa, per i personaggi di Svevo, muoversi nel tempo, anche se questa è un'operazione difficile: gli occhi presbiti separano Zeno dal passato. Io non so muovermi abbastanza sicuramente nel tempo. Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele (Il vecchione). Il tempo che ritorna nel ricordo è sempre soggettivo (Il presente dirige il passato come un direttore d'orchestra i suoi suonatori, La morte), ovvero, in altre parole, il tempo puro non esiste: nel ricordo rivive un tempo misto com'è il destino dell'uomo (Il vecchione).
Accanto al tema del ricordo, quello della malattia. Vita, letteratura e malattia s'intrecciano strettamente nell'opera sveviana. La letteratura non può che ritrarre la vita, ma quest'ultima la vita, ma quest'ultima è malata o inquinata fin dalle radici, affermerà Zeno; per vivere di meno e, quindi, per essere un po' meno malati. Se queste sono le premesse, comprendiamo il perché, nell'arco dei suoi tre romanzi, Svevo prospetti un itinerario complessivo di guarigione:
  • l'Alfonso Nitti di Una vita (1892) si suicida, perché riconosce una sproporzione troppo grande tra il sogno e la realtà, una sproporzione cui non sa adeguarsi;
  • l'Emilio Brentani di Senilità (1898) può sopravvivere, ma solo nel ricordo di Angiolina: un ricordo totalmente idealizzato e disincarnato, tale da non dolergli più;
  • infine Zeno Cosini, il protagonista della Coscienza di Zeno (1923), riesce a sconfiggere la passione per la vita mediante lo scetticismo: impara a convivere con i limiti propri e della realtà. Non è perfettamente guarito, ma riesce perlomeno a tenere la nevrosi e sopravvivere, in tal modo, meglio che può.
Lo stile e la scelta del realismo
Lo stretto contatto fra vita e letteratura porta Svevo a una scelta fondamentale per la sua produzione: quella del realismo come mezzo di fedeltà alla vita. Svevo rifiuta un'idea classicista di arte: il poeta, secondo lui, deve testimoniare questa realtà, non crearne un'altra; perciò sceglie uno stile vivo, parlato, un linguaggio fedele alla vita anche nei suoi momenti bassi e ordinari (in questo senso Montale definì quello di Svevo uno stile commerciale). Tutto ciò è molto vicino al Verismo di Verga e soprattutto al sincerismo propugnato dal giovane Pirandello. Svevo rifiuta invece D'Annunzio, perché gli appare il tipico letterato: Da buon letterato egli non diceva mai la verità (Incontro di vecchi amici).
I protagonisti dei tre romanzi principali di Svevo (tutti e tre, a loro modo, dei letterati) giungono però gradualmente alla parola semplice amata da Zeno.
  • Alfondo Nitti di Una vita fallisce come romanziere perché imita i classici, perché formula teorie di stile fiorito o meno, lingua pura o impura, e sogna di divenire il divino autore.
  • Anche Emilio Brentani di Senilità è un letterato di vecchio stampo. Apprezza l'arte dell'amico scultore Stefano Balli (controfigura del pittore triestino Umberto Veruda, amico di Svevo), perché mira alla riconquista della semplicità o ingenuità che i cosidetti classici ci avevano rubate. Il suo ideali di spontaneità, di ruvidezza da Zeno, nel suo diario così privato, così (apparentemente) improvvisato della Coscienza, un libro che nasce non come libro, ma come somma di ricordi e appunti stesi alla rinfusa. Zeno vorrebbe addirittura scrivere le proprie memorie in dialetto, perché con ogni parola toscana noi meritiamo!.
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Poetica del Fanciullino, Pascoli

di Giovanni Pascoli
Riassunto:

La poetica pascoliana riflette la situazione culturale fra Otto e Novecento, caratterizzata dal rifiuto del Positivismo, dalla sfiducia nella scienza e perfino nella ragione umana come metodo principale di conoscenza. Per Pascoli la realtà non conta tanto in se stessa, cioè come realtà oggettiva, quanto per come l’uomo riesce a vederla e a sentirla dentro di sé, come realtà soggettiva. Le piccole cose, quelle della campagna, per esempio, o i gesti dell’infanzia, assumono per lui più importanza delle cose grandi (per esempio i fatti della storia): infatti, se le si guarda con attenzione e si entra in rapporto con loro, esse possono farci intuire i valori autentici della vita. Il punto è che non si può capire la realtà con il ragionamento, ma soltanto immedesimandosi con essa, come fanno i bambini e i poeti.
In questa ottica, alla poesia spetta un compito di rivelazione: incapaci di penetrare con la ragione i segreti della natura, gli uomini possono averne una percezione grazie appunto alla poesia.

La teoria del fanciullino
Le concezioni di Pascoli sulla natura e sugli scopi della poesia sono espresse in un lungo e importante scritto, Il fanciullino, pubblicato nel 1897 sulla rivista fiorentina il Marzocco.
Secondo Pascoli,in ogni uomo c’è un fanciullo, capace di commuoversi e di sperimentare ogni giorno emozioni e sensazioni nuove. Spesso tale fanciullino è soffocato e ignorato dal mondo esterno, degli adulti, ma se si risveglia fa sognare a occhi aperti, fa scoprire il lato attraente e misterioso di ogni cosa, fa volare con la fantasia in mondi meravigliosi. Proprio come nel tempo dell'infanzia, tale fanciullino ha conservato la facoltà di parlare con gli alberi, i fiori, gli animali, e in qualsiasi momento si può tornare ad ascoltare la voce.
Il fanciullino osserva le piccole-grandi cose della campagna con una prospettiva rovesciata:
  • le cose grandi le vede piccole (il brillare delle stelle, per esempio, gli pare un pigolio);
  • le cose piccole le ingrandisce (un ciuffo di fili d'erba gli sembra una foresta).
Il suo metro di giudizio differisce radicalmente da quello degli uomini adulti, civilizzati; è un individuo di natura, non di dicitura.
Nella metafora di Pascoli, questo fanciullo non è una condizione anagrafica, ma è una condizione interiore. Essa rappresenta quella natura pura e ingenua, candida e innocente, che, nella psicologia di un individuo, può conservarsi anche in età avanzata; l'individuo cresce e invecchia, ma il fanciullino rimane piccolo dentro di lui, e piange e ride senza perché. L'importante è non soffocare definitivamente questa voce, che ancora vibra nella parte dell'anima rimasta, appunto, fanciulla.

Il poeta fanciullo
Chiunque riesca a conservarsi fanciullo, dice Pascoli, può:
  • guardare la realtà circostante con stupore ed entusiasmo;
  • percepire così il lato bello e commovente di ogni situazione;
  • oltrepassare, con la fantasia, le apparenze comuni e banali.
In altre parole, il fanciullino è colui che sa osservare poeticamente il mondo: le sue facoltà sono le stesse del sentimento poetico. Infatti, nell'ottica di Pascoli, il poeta è precisamente colui che, come i fanciulli, ha mantenuto l'infantile capacità di meravigliarsi e d'intuire, piuttosto che di ragionare. Da lui non potrà che nascere una poesia fanciulla: essa rinuncerà all'eloquenza, alla dottrina, all'imitazione dei grandi scrittori del passato, e s'ispirerà piuttosto allo stormire delle fronde, al canto dell'usignolo, all'arpa che tintinna. Rifuggirà le grancasse, scrive Pascoli, cioè i modi solenni da poeta-vate (e infatti a un certo punto del suo scritto egli polemizza direttamente con il maestro Carducci), perché il fine della poesia è solo la poesia, la poesia pura. Se invece l'arte nasce per afferrare messaggi esterni (sociali, religiosi o politici), tradisce se stessa e si consegna alla retorica. La posizione di Pascoli è molto vicina all'arte per l'arte di parnassiani e simbolisti.

Pascoli sviluppa ulteriormente il parallelismo tra fanciullo e poeta:
  • il fanciullo osserva ogni cosa con occhio incantato, perché tutto gli parla di orizzonti sconosciuti e affascinanti; anche il poeta fanciullo sa cogliere le misteriose relazioni (le corrispondenze di Baudelaire) e analogie che sussistono tra le cose;
  • il fanciullo vede le cose in maniera discontinua, slegata; anche il poeta-fanciullo esprime le proprie immagini in maniera istintiva, pre-logica, se non irrazionale;
  • il fanciullo vede solo i primi piani, non il vicino e il lontano, o il prima e il dopo, e tutto gli appare parimenti importante; ugualmente, al poeta-fanciullo sfuggono le giuste dimensioni perché egli giustappone, una dopo l'altra, le immagini e le sequenze, senza rielaborarle nel giusto ordine;
  • il fanciullo non si sente affatto superiore rispetto alla natura, e anzi s'immerge con timore in essa, parla agli animali e alle nuvole, s'immedesima con i fili d'erba; anche le parole del poeta-fanciullo sono quelle incontaminate della gente semplice di campagna, cioè sono parlate dialettali, gerghi di arti e mestieri, i versi degli uccelli. Tutto concorre a ringiovanire l'espressione poetica. Affondano qui le radici dello sperimentalismo pascoliano.

Il Simbolismo Pascoliano
La poetica del fanciullino fa di Pascoli un poeta genuinamente simbolista: la parola poetica si carica della soggettività dell'io-poeta, che dice le cose non come sono, ma come le sente.
Ciò è vero per quasi tutti i poeti, ma lo è in particolare per i maestri del Simbolismo europeo (Rimbaud, Mallarmé): l'intima conoscenza della realtà può essere espressa solo mediante il simbolo. Cose e presenza naturale sono viste come emblemi di altre realtà, rappresentazioni di un mondo ignoto e invisibile, messaggi da ascoltare e decifrare. Il simbolismo di Pascoli è meno intellettuale e più istintivo. Quella del fanciullino è una visione bassa: essendo privo di filtri culturali, di aspettative o finalità ideologiche, egli può percepire il mondo solo in maniera infantile, ingenuamente. Il suo sguardo si ferma incantato d'insieme, salda e razionale. Il poeta-fanciullo si fissa ora su una foglia (su questa foglia) ora su un fiore (su questo fiore), rimane senza fiato davanti a nuvole, stelle, voli d'uccello. Ciascuna di queste realtà, per lui, è un flash (un'immagine simbolo) del mistero indefinibile del mondo.
Perciò le ambientazioni di Pascoli non sono mai sintetiche, ma sempre analitiche; invece al lettore poeta-intellettuale, capace di ritrovare il senso dell'assieme. A Pascoli non interessava offrire al lettore tutti i dati importanti di un certo quadro, quanto, piuttosto, moltiplicare i punti di vista, accavallare i piani della visione.
Perciò i simboli del poeta-fanciullo non si caricano (quasi) mai di tensione intellettuale (alla maniera, per esempio, di Mallarmé). Quando Pascoli si sforza di costruire i propri simboli, ottiene risultati poco convincenti, come avviene, per esempio, in Il libro, uno dei Poemetti. Esso rappresenta allegoricamente la condizione del pensiero umano, che cerca di decifrare il propri destino e di leggere nella propria misteriosa natura: come fa una mano che sfoglia le pagine di un vecchio libro aperto su un leggio, alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Qui siamo appunto davanti a un'allegoria, calcolata in modo intellettualistico.

Significato delle campane, dei fiori e degli uccelli
Ben più suggestivi sono i simboli spontanei di Pascoli, perché si legano al mondo interiore del poeta-fanciullo. Un mondo che affiora sulla pagina dallo stretto contatto con la vita semplice della campagna, dalle sue umili presenza: le campane, i fiori, gli uccelli.
Le campane suonano, come in La mia sera, soprattutto per evocare un'atmosfera di sogno, per accendere la memoria felice dell'infanzia; la loro voce è spesso (come in Digitale purpurea e Il gelsomino notturno) il simbolo della sessualità bloccata: il suo è un mondo senza amore e senza sessualità, perché privo di vere relazioni con il mondo degli altri. Infine, gli uccelli sono gli animali più citati dal poeta: essi si collegano da un lato al simbolo fondamentale del nido (di cui si è accennato ma che approfondiremo in un altro articolo), dall'altro appaiono come abitatori di quella misteriosa regione (il cielo) da cui anche le campane mandano la loro voce, e che suggerisce messaggi e voci struggenti, anche se non sempre decifrabili. Pure il canto degli uccelli viene reso da Pascoli attraverso il frequente ricorso all'onomatopea, come in Dialogo. Invece l'uccello notturno, la civetta o l'assiuolo, con il suo prolungato chiù lancia presagi di morte, apre finestre sull'incubo. udito nel dormiveglia, il singhiozzo dell'assiuolo suscita angoscia, un turbamento indicibile.
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Poetica di Giovanni Pascoli

La poetica del fanciullino comportava novità profonde rispetto alla poesia precedente. Pascoli mette in versi sogni, incubi, visioni, in cui pone sullo stesso piano il reale e l’irreale, giungendo a inscenare impossibili colloqui di vivi e di morti. Tutto ciò significava spingere molto in là le possibilità della lingua, adottando soluzioni formali nuove su ogni piano:

  • a livello del suono delle singole parole (ambito fonico);
  • a livello del significato dei vocaboli (ambito semantico);
  • Sul piano della struttura del periodo (ambito sintattico).


L’originalità di tutto questo s’intonava perfettamente alle ricerche espressive in corso a livello europeo. Anche Pascoli, come i maggiori poeti di primo Novecento, voleva costruire una sorta di lingua speciale della poesia: un linguaggio ben diverso da quello comune, un’espressione che valesse non tanto per ciò che dice, ma per i suoi suoni, le allusioni, i silenzi.

Le onomatopee: suoni
Sul piano fonico Pascoli fa largo uso dell’onomatopea, cioè di parole o espressioni che riproducono un rumore o un suono particolare. Per esempio, per indicare un temporale scrive: Un bubbolìo lontano. Il lavoro ritmato delle donne al lavatoio è lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene; le rane emettono un gr egre, le campane suonano con i loro rintocchi: Don don. Grande rilievo hanno nell’onomatopea pasco liana, i suoni degli uccelli, riportati con puntigliosa precisione (scilp, videvitt, chiù). Le onomatopee pascoliane, però, non sono strettamente naturalistiche. Il loro scopo non è soltanto quello di evocare i rumori effettivamente esistenti in natura, ma anche quello di creare nuove suggestioni ed evocazioni, richiamando al lettore realtà indeterminate, lontane, spesso percepite come minacciose e inquietanti.

Scelta lessicale
Sul piano lessicale Pascoli sperimenta molteplici soluzioni.
Talora cerca un linguaggio raro e prezioso, anche arcaico similmente a quanto faceva in quegli anni D’Annunzio, che suscita nel lettore una sensazione di mistero.
A volte adopera vocaboli tratti dal linguaggio settoriale di qualche attività o mestiere, come quello del contadino: in questi casi ricerca la massima precisione. Ciò costituiva una forte novità nel panorama retorico della poesia italiana.
Altrove utilizza il linguaggio pregrammaticale dei bambini, e/o quello agrammaticale degli illetterati: nel poemetto Italy il dialetto toscano si mescola a tratti al linguaggio degli italoamericani di Brooklyn, i quali per parlare di affari utilizzano bisini, corruzione di business.

La metrica
Lo sperimentalismo pascoliano non abolisce la metrica: il verso libero sarà una conquista successiva, pur se già adombrata da D’Annunzio. Anzi Pascoli ridimensiona il desiderio di novità così vivo a fine Ottocento; riutilizza sistemi metrici e ritmici molto tradizionali o antichi (il sonetto, la terzina di endecasillabi danteschi, le strofe della poesia greca e latina), conservando anche l’uso della rima. Però rivisita queste forme con accenti e ritmi del tutto inediti: talora spezza il verso con puntini di sospensione, esclamativi, interrogativi, così da far percepire quanto sia pre-logico (prima della logica) il discorso della voce narrante (una voce fanciulla). Talora rende il ritmo poetico simile a un singhiozzo, talora tende ad avvicinarsi alla nenia, alla cantilena dei bambini. In sostanza, la tradizione metrica viene piegata da Pascoli ad assumere valori tutt’altro che tradizionali.

Sintassi soggettiva
Anche sul piano sintattico, Pascoli rifiuta l’uso di una costruzione di tipo tradizionale, che pone una precisa gerarchia fra gli elementi del discorso e che richiama, quindi, un’idea chiara e precisa del mondo. Prevale in lui una visione soggettiva e incerta della realtà: l’uomo è circondato di mistero e il mondo è tutt’altro che chiaro e univoco (non offre cioè un solo significato). Da qui derivano l’uso tipicamente pascoliano di frasi ellittiche (prive di soggetto o verbo; soprattutto dell’ausiliare essere) e il ricorso sistematico alla coordinazione, anziché alla subordinazione. I periodi, per lo più brevissimi, si accavallano, come a tradurre il punto di vista infantile, tipicamente pascoliano; o meglio, come a voler esprimere la crisi che è subentrata nella visione del mondo. Gli elementi della frase vengono accostati l’uno all’altro, spesso senza essere uniti da congiunzioni: l’accostamento avviene in base a ciò che le parole stesse suggeriscono oppure per analogia, che però è soggettivamente stabilita dall’autore, cioè è determinata dalla relazione che egli pone fra una cosa e un’altra.

Analogia e Sinestesia
In Pascoli è costante l’uso dell’analogia, il procedimento che sopprime, per così dire, il legame del come. I paesaggi logici intermedi fra due termini vengono cancellati e sono accostati due concetti che fra loro non avrebbero un nesso logico; il nesso è fornito solo dall’immaginazione del poeta. Così avviene per esempio in soffi di lampi o in respiro di vento. In X agosto il poeta accosta analogicamente fra loro, a scopo simbolico, la morte del padre, quella della rondine e il pianto di stelle.
Anche sul piano retorico Pascoli attua la sua sperimentazione. Usa in particolare le figure che si prestano a evocare sensazioni suggestive, come la sinestesia, che accosta parole (spesso un aggettivo e un sostantivo) appartenenti a sfere sensoriali diverse. Così accade nell’immagine soffi di lampi (L’assiuolo), dove la nota visiva (i bagliori lontani dei lampi) si trasforma in una nota tattile, in un soffio vicino. In tremolio sonoro si associano a livello visivo (o tattile) e livello uditivo; altri esempi sono pigolìo di stelle, odor di sole. Invece tacito tumulto è addirittura un ossimoro, cioè un associazione di per sé contraddittoria.
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Poetica di Gabriele D’Annunzio

Molteplici furono i generi letterari praticati da D’Annunzio: poesia lirica e poesia epica, romanzo, novelle, teatro, scritti di critica, cronaca giornalistica, prosa d’arte. Ciò potrebbe dare l’impressione di dispersività, ma in realtà tutta la sua opera letteraria s’ispira a uno spiccato sperimentalismo.
Egli infatti seppe accogliere e riproporre gli spunti letterari più diversi, combinando modelli antichi e moderni e rivisitandoli secondo le proprie tecniche letterarie, in più modi; per esempio, nelle Laudi rifece il verso alla letteratura francescana tecentesca, rimanendo peraltro lontanissimo dalla sua semplicità e dal suo spirito religioso; D’Annunzio era poi solito appropriarsi di pagine, idee, spunti altrui: veri e propri furti letterari, più volte rimproveratigli dai suoi critici, ma di cui non si pentì mai, rivendicando invece le ragioni della propria libertà di artista.
Da tale sperimentalismo scaturirono sia la varietà dei modi metrici dannunziani sia la ricchezza delle sue scelte linguistiche, spesso antiche in contesti moderni, (come lo sport e l’aviazione).
Tali manifestazioni rivelano il desiderio del poeta di essere il dominatore della parola (tutte le parole), il manipolatore della tradizione del passato (tutti gli autori, le forme ecc.): è il D’Annunzio onnivoro. La sua espansione), non in profondità (nel senso di un arricchimento conoscitivo).

Un letterato aperto al nuovo
D’Annunzio coltivava dunque molteplici letterari culturali, aperto com’era alle novità (culturali, sociali ecc.) che contrassegnavano la fine dell’Ottocento.

Il decadente: Nei confronti della letteratura contemporanea, egli fu pronto, per rispondere alla sete di novità del pubblico, a far proprie le tendenze più recenti. Manipolando una serie di letture europee, tra cui Wilde e Huysmans, D’Annunzio diede vita con diverse sue opere (azitutto il romanzo Il piacere, ma anche le coeve raccolte poetiche Intermezzo di rima, l’Isottèo-La Chimera e il Poema paradisiaco) a una monumentale enciclopedia del Decadentismo europeo, aggiornatissima e ammirata da chi amava le sempre nuove raffinatezze letterarie.

Il superuomo: Grande importanza rivestì, per la cultura italiana, la divulgazione della filosofia nietzschiana e in particolare del motivo del superuomo (Ubermensch). In verità D'Annunzio lo apprese solo per via indiretta e semplificata, grazie alla mediazione e spettacolarizzazione offerta dal teatro musicale di Richard Wagner (1813-83); a ogni modo ebbe il merito di divulgare uno dei temi più interessanti e attuali della cultura europea di allora.

Il modernista: D'Annunzio, prima ancora dei futuristi, fu il letterato italiano più attento alla modernità. Nella villa della Cappoccina si fece installare il telefono, guidava le prime automobili, frequentava i primi campi d'aviazione e divenne un provetto pilota. A sviluppare questi temi è l'ultimo suo romanzo, Forse che sì forse che no (1910).

Nell'industria culturale: D'Annunzio, con Pirandello, fu il primo scrittore italiano a intuire le grandi possibilità espressive del cinema e a lavorare per la nascente industria cinematografica: collaborò alla realizzazione di diversi film, per lo più tratti dalle sue opere, e in particolare firmò il soggetto e le didascalie di Cabiria (1914), diretto dal regista Giovanni Pastrone. Inoltre fu lui a coniare nel 1917 il nome del primo grande magazzino italiano, La Rinascente di Milano.


L'uomo del cambiamento
Dalla disponibilità al nuovo e dalla febbrile ansia di ricerca nasce anche l'attitudine di D'Annunzio a reinventarsi: mantenendo fede al motto o rinnovarsi, o morire (in Giovanni Episcopo), egli riuscì più volte a rinnovare la propria immagine presso l'opinione pubblica, come pure a rigenerare la propria creatività in forme nuove.
Una prima svolta si ebbe nel 1911, quando, spinto dal bisogno economico, prese a pubblicare sul Corriere della Sera una serie di scritti autobiografici con il titolo Le faville del maglio, ispirate alle rapide annotazioni dei suoi taccuini di diario. Con la loro immediatezza e semplicità di scrittura, tali prose inaugurarono una stagione nuova nella sua arte.
Un ulteriore svolta si ebbe nel 1915, allorché D'Annunzio aderì di slancio alla campagna a favore dell'intervento italiano nella Prima guerra mondiale. Risalgono ad allora gli infiammati discorsi raccolti sotto il titolo Per la grande Italia: il nuovo linguaggio, con cui si appellava direttamente alle masse formulando ripetizioni enfatiche e invettive, costituirà un modello per la successiva oratoria del fascismo. Inoltre, benché ultracinquantenne, il poeta si gettò in prima persona nel conflitto; le sue imprese belliche gli permisero di guadagnare consensi e fama di eroe presso l'opinione pubblica.
Un'ennesima metamorfosi da soldato a uomo di stato risale al 1919-20, allorché D'Annunzio guidò l'occupazione militare di Fiume e fece promulgare la Carta del Carnaro (settembre 1920), una costituzione d'ispirazione democratica e liberale. Di lì a poco il fascismo lo proclamerà uno dei padri della patria; D'Annunzio, ormai vecchio, accettò volentieri questo ruolo, assieme all'imbalsamazione della sua figura al Vittoriale.

L'esteta e le sue squisite sensazioni
D'Annunzio, con la sua via e le sue opere, aspirava a un'esistenza d'eccezione, al vivere inimitabile (l'espressione compare in un titolo del 1924: Il venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile) a fare la propria vita come si fa un'opera d'arte (Il piacere). Queste sue pose estetizzanti si tradussero nella prima e più famosa incarnazione dell'esteta dannunziano, ovvero l'Andrea Sperelli protagonista del romanzo Il Piacere (1889). A differenza però del Des Essentes creato nel 1884 dal francese Huysmans, Andrea non nutre intenzioni trasgressive rispetto alla società dell'epoca: D'Annunzio si limitò a tradurre il modello dell'esteta decadente in una chiave lussuosa e mondana, arricchendo il racconto delle vicende di Andrea con la cornice esclusiva ed elegante dell'aristocrazia romana. Ottenne in tal modo grande successo di pubblico.

I privilegi dell'esteta
Estetismo (da aistesis, in greco sensazione), la parola chiave della poetica dannunziana, si esprime in tre forme.
  1. Estetismo è in primo luogo culto della sensazione, cioè esaltazione di ciò che ricade nella sfera dei sensi, della corporeità, dell'istinto. Come gli altri scrittori decadenti europei, D'Annunzio tende a degradare quanto era, per i romantici, il sentimento, il desiderio di assoluto, l'apertura al trascendente e all'eterno. In una logica decadente, tutto ciò si riduce e si banalizza: la sensazione diviene l'unico criterio, terreno e paganeggiante, per conoscere la realtà.
  2. Estetismo, per D'Annunzio, è anche panismo (un termine che significa la natura è tutto, dal nome del dio greco Pan) e vitalismo. Il culto della sensazione tende infatti a collocare la vita dell'uomo dentro la vita della natura, assimilando l'uno e l'altra in una visione metamorfica e panica, Questa esperienza cantata il supremo vitalismo dell'esteta, che è gioia sfrenata, voglia di vivere e di godere.
  3. Estetismo, infine, è assenza di gerarchie. Per il poeta esteta, avido di tutto (in primo luogo di nuove esperienze), le sensazioni raffinate sono preziose quanto quelle più volgari: la condizione essenziale è che non sian banali. L'esteta si pone al livello stesso delle cose: il mondo di cui si aggira non ha più ordine né gerarchie, pare frantumarsi in una miriade di oggetti (e, quindi, di sensazioni). La realtà non la si può più capire, ma solo assaporare. Da ciò la frammentarietà dell'arte dannunziana, spesso affidata a fugaci impressioni, a suggestioni che assumono cadenza musicali.

Il creatore di immagini
Dall'estetismo dannunziano deriva l'intenzione del poeta di farsi supremo artefice, cioè un artista che crea le proprio opere sottoponendole a una lunga elaborazione tecnica, simile all'attività di un fabbro o di un orafo. Egli stesso si definiva poeta dell'Imaginifico, il creatore di immagini, attraverso suoni ricercati e parole preziose e rare.
L'imaginifico non solo è abile sul piano tecnico-formale, ma sa anche colpire l'immaginazione del pubblico: perciò ripropone in forma aggiornata i miti del passato, quasi fossero degli incantesimi che suggestionano e offrono ai lettori emozioni nove e profonde. Il poeta artefice è quindi poeta mago e, insieme, poeta tribuno, perché è in grado ora di toccare le corde di pochi lettori scelti, ora di utilizzare l'arte per arringare e dominare la folla.
Possiamo dunque capire la piena disponibilità di D'Annunzio a ogni esperienza d'arte: il suo eclettismo e il suo sperimentalismo nascono come effetti della poetica dell'artificio, che dilata all'infinito le forme del linguaggio, esercitando al contempo un costante dominio su di esso.

L'artista e la massa
In una società in pieno processo di industrializzazione, in cui in particolare si stava riducendo l'analfabetismo e sviluppando l'editoria, perdeva importanza la figura tradizionalmente elitaria dello scrittore e si prospettava invece la possibilità di costituire una letteratura di massa. D'Annunzio fu il primo fra i letterati italiani a cogliere tale opportunità. Fu lui a fornire al crescente pubblico borghese, desideroso di nobilitarsi intellettualmente, modello neoaristocratici di vita, incarnati in personaggi d'eccezione, amori raffinati, ambienti falso antichi: è la cornice in cui si svolge il romanzo d'esordio, Il piacere.
I lettori comuni borghesi, non potevano che ammirare, dalla loro posizione subalterna, le forme preziose e inalterabili della poesia dell'Imaginifico, le fotografie stesse del poeta impegnato nella caccia alla volpe o sdraiato su preziosi cuscini servivano ad aggiungere ai suoi scritti un tratto di raffinatezza. La lussuosa residenza della Cappoccina, tra oggetti ornamentali e simboli enigmatici, costituiva l'emblema della vita sfarzosa e gaudente dell'uomo superiore.
Nei primi anni del Novecento il dannunzianesimo divenne un vero fenomeno di costume, anche tra i ceti fino a poco prima esclusi dalla fruizione letteraria. Ufficialmente D'Annunzio proclamava il disprezzo della folla, ma in realtà sapeva bene come lusingarla: appariva nelle cronache giornalistiche, collaborava egli stesso con i giornali alla moda, pubblicava con gli editori più importanti (Treves, Mondadori), scriveva sceneggiature per il cinema. La stessa relazione con Eleonora Duse, o altri episodi scandalistici della sua biografia servivano a divulgare l'immagine del poeta di lusso, che non si limita a descrivere nelle sue pagine gli amori proibiti alle masse, ma li vive nella realtà.
Tale attività di autopromozione interessava diversi aspetti. Per esempio, D'Annunzio era molto attento al libro come oggetto prezioso anche sul piano grafico e tipografico: sceglieva personalmente i caratteri di stampa e i frontespizi, ingaggiava incisori e illustratori, così come Oscar Wilde aveva fatto per la sua Salomé disegnata (1893) da Aubrey Beardsley. Esigeva inoltre che dei suoi libri fossero stampate tirature meno pregiate e di prezzo accessibile: lo scopo era diffondere un modello di vita aristocratica presso i lettori medi, dando loro l'illlusione di far parte di un ristretto club d'intenditori.
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