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Riassunto Corrado Govoni: Vita e opere


Corrado Govoni nasce a Tamara (Ferrara) nel 1884 da una famiglia di agricoltori benestanti. Non prosegue gli studi con regolarità e il suo primo lavoro è stato nell'azienda familiare. In giovane età viaggia spesso e frequenta vari ambienti letterari, nella Milano e nella Roma inizio secolo. Nel primo dopoguerra, periodo nel quale muoiono entrambi i suoi genitori, vende le proprietà ereditate e si trasferisce a Roma, dove resterà fino alla morte (1965), vivendo con impieghi diversi.

Esordisce non ancora ventenne con una raccolta poetica di modi dannunziani e simbolisti, Le Fiale (1903), legata alla forma tradizionale del sonetto, per passare poi velocemente a toni e atmosfere crepuscolari nel volume Armonia in grigio et in silenzio (1903), dove si assiste già ad una certa apertura delle forme metriche.

L'attività di scrittore diventa così il suo lavoro di primario interesse e inizia a collaborare alle riviste Poesia, Lacerba, e Riviera Ligure.

Nelle due raccolte successive, Fuochi d'artifizio (1905) e Aborti (1907), Govoni opta risolutamente per il verso libero, che valorizza un ininterrotto flusso di immagini, caratteristica costante della sua poesia, e anticipa un'accostamento al Futurismo, il movimento che esalterà proprio l'esigenza di piena libertà dello sguardo e della parola che così naturalmente si andava manifestando in Govoni.

In seguito si trasferisce a Milano e strinse rapporti con Filippo Tommaso Marinetti e aderì con entusiasmo al movimento Futurista.

Del periodo futurista sono le Poesie elettriche (1911), Rarefazioni e parole in libertà e l'Inaugurazione dello primavera (1915), dove all'esplorazione del mondo industriale e all'audace sperimentalismo formale si accompagna ancora una descrizione della pianura emiliana, un luogo attraversato dall'ingenuità, dallo stupore, rappresentato, quasi cinematograficamente, da un continuo susseguirsi di oggetti, di immagini vive e singolarmente animate.

Nel 1919 si trasferisce a Roma, dove, dopo la rivoluzione fascista, ottiene un impiego al Ministero della Cultura Popolare.

Staccatosi dal Futurismo, Govoni continuerà a scrivere non solo liriche ma anche libri di narrativa (La strada sull’acqua, 1923; Misirizzi, 1930; I racconti delle ghiandaie, 1932), arrivando a dare prove di grande maturità con le raccolte poetiche Quaderno dei sogni e delle stelle (1924) e, soprattutto, Canzoni a bocca chiusa (1938), dove si ritrovano uniti tutti gli elementi della sua formazione: il crepuscolare, il "barocco", il metafisico, il bucolico, il mitico tendente al simbolismo, la creazione di immagini di sapore surrealistico.

In seguito, però, tristi casi di vita (la seconda guerra mondiale, un figlio morto fucilato dai tedeschi alle Fosse Ardeatine) influiscono sul suo modo di comporre. Quindi Govoni si abbandona ad atmosfere più tenui e musicali: vi è una maggiore concentrazione di affetti, un nuovo impegno civile e un accostamento al Neorealismo. Nascono opere come Aladino (1946), in ricordo del figlio ucciso dai nazisti, Preghiera al trifoglio (1953) e Stradario della primavera (1958), alle quali si può accostare la raccolta postuma La ronda di notte (1966).

Nel dopoguerra lo scrittore si trovò in precarie condizioni economiche: restò per un certo periodo disoccupato, ma poi trovò un nuovo impiego presso un ministero come protocollista e come direttore della rivista Il sestante letterario.

Colpito da una grave malattia agli occhi che lo aveva quasi condotto alla cecità, morì a Roma nel 1965.
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E lasciatemi divertire: analisi e commento - Aldo Palazzeschi


Fa parte della raccolta di poesie L'Incendiario (1910) e rappresenta uno scanzonato manifesto di poetica, fatta in tono scherzoso e provocatorio. Palazzeschi si prende gioco della serietà della letteratura rivendicando per il poeta il diritto al divertimento e allo sberleffo. Il tono ironico e dissacratorio del testo esprime la polemica e la svalutazione dell'attività letteraria tradizionale.


Testo

Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi!

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche!
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
tarataratarata,
paraparaparapa,
laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la spazzatura
delle altre poesie

Bubububu,
fufufufu.
Friu!
Friu!

Ma se d'un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

bilobilobilobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!
Bilolù. Filolù.
U.

Non è vero che non voglion dire,
voglion dire qualcosa.
Voglion dire...
come quando uno
si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
Iiiii!
Ooooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovanotto,
ditemi un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con così poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc...Huiusc...
Sciu sciu sciu,
koku koku koku.

Ma come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate in giapponese.

Abì, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro,
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala.
Lalala lalala.

Certo è un azzardo un po' forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine io ò pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!



Analisi del testo

Temi: la difficile condizione dei poeti nella società attuale, l'inutilità della poesia e la scelta di giocare con essa, il divertimento del poeta.
Anno: 1910.
Scema metrico: composizione libera, vagamente strutturata in forma di canzonetta; è composta di 10 strofe di varia lunghezza. I versi sono spesso settenari a rima alterna o baciata.


Analizziamo il testo
Il poeta propone un tipo di poesia di puro divertimento (vv.5-7), fatto di semplici accostamenti e suoni verbali con un valore onomatopeico, ma apparentemente privi di qualsiasi significato.

Seguono, nei versi successivi, le voci del poeta, che difende il proprio divertimento e dei suoi interlocutori anonimi, che glielo contestano (rappresentano il lettore medio dell'epoca, tradizionale e conformista). Queste voci sono a volte isolate, a volte mescolate tra loro: ruoli e punti di vista s'intrecciano bizzarramente. In sottofondo, una divertita girandola di fonemi propone una specie di commento canoro e musicale a queste battute di dialogo.
Lo scopo dichiarato dall'autore è divertirsi. Tale motivo chiave viene enunciato fin dal v. 5, il primo del testo ad avere un significato (Il poeta si diverte); sarà ripreso più volte nel corso del componimento (v. 9, v. 78, e con varianti lessicali ai vv. 50 e 76; lo ritroviamo infine nella chiusa (e lasciatemi divertire!, v. 96).

Divertirsi, per Palazzeschi, significa giocare con le forme della tradizione letteraria e con le stesse parole, ridotte a suono elementare, a sberleffo. Al pubblico borghese, che protesta contro le indecenze e le strofe bisbetiche della sua poesia, il poeta oppone la libertà di fare ciò che più gli aggrada, persino la libertà di riutilizzare la roba avanzata, la spazzatura delle altre poesie.
L'impertinente filastrocca prende di mira i benpensanti, i professori, chi ancora identifica la poesia in un gran foco divino, o la ritiene portatrice di valori e di significati.
E lasciatemi divertire! ha il ritmo di filastrocche infantili, con i suoi versi brevi e brevissimi, spesso in rima baciata, e con le sue frequenti e comiche onomatopee. Siamo all'opposto dello stile prestigioso dannunziano, attento alla forma e alle sue raffinatezze sublimi.

La sintassi è quella tipica del linguaggio parlato (come quando uno si mette a cantare...; che ci son professori...): si spiegano così i rapidi passaggi dalla terza persona singolare (il poeta si diverte, v. 5) alla terza persona plurale (Cosa sono queste indecenze?, v. 16; Sono la mia passione, v. 20), fino al voi del v. 72 (sembra ormai che scriviate in giapponese).



Commento

Il poeta con questa poesia "si diverte pazzamente e smisuratamente", e questa idea della poesia come gioco e divertimento è una provocazione alla tradizione letteraria seriosa come quella italiana. Il poeta dialoga con il lettore, vuole comunicare la sua gioia nello scrivere poesie, anche se non colte. Essendo Palazzeschi un poeta del 900, non si attiene alle regole classiche come i versi in endecasillabi o settenari, non vuole una poesia colta e complicata, ma vuole scrivere solo ed esclusivamente per puro divertimento. Non si tratta di stupidaggini, ma della spazzatura delle altre poesie dice il poeta (le parole e i suoni sono frammenti disposti in maniera fantasiosa a mo' di collage.). Il lettore potrebbe chiedersi perché il poeta scrive queste parole, se sono prive di significato e di collegamento fra di loro e il poeta obietta che un significato ce l'hanno, anche se non è chiaro ad una prima lettura. Il lettore sospetta che tutto questo gran da fare per così poco sia dovuto solo all'esibizionismo del poeta. Sempre più incomprensibile, la poesia sembra scritta in modo indecifrabile. Il lettore mette in ridicolo il poeta, che senz'altro subirà pesanti critiche per questa poesia. Anche il poeta ammette, ma in un modo un po' ironico, che è rischioso esprimersi in questo modo, dal momento che ci sono in giro tanti di quei "professoroni" (e non è un complimento!). L'uso di materiale "povero" come semplici sillabe e vocali vuole essere una sfida al mondo rispettabile che ora sta ascoltando completamente sbigottito. Eppure non è così strano fare poesie così inconcludenti, perché comunque gli uomini non si aspettano più niente dai poeti.
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L'incendiario - Palazzeschi: analisi e commento


Questo componimento inaugurava la raccolta di poesie L'incendiario nella prima edizione del volume (1910), ma fu escluso dalla seconda (1913), dove furono conservati, a modo di epigrafe, soltanto alcuni versi (36, precisamente), accanto alla nuova dedica del libro: "a F. T. Marinetti che primo le amò, queste poesie che gli vanno riconoscenti".


Testo

In mezzo alla piazza centrale
del paese,
è stata posta la gabbia di ferro
con l'incendiario.
Vi rimarrà tre giorni
perchè tutti lo possano vedere.
Tutti si aggirano torno torno
all'enorme gabbione,
durante tutto il giorno,
centinaia di persone.
— Guarda un pochino dove l'ànno messo!
— Sembra un pappagallo carbonaio.
— Dove lo dovevano mettere?
— In prigione addirittura.
— Gli sta bene di far questa bella figura!
— Perchè non gli avete preparato un appartamento di lusso,
così bruciava anche quello!
— Ma nemmeno tenerlo in questa gabbia!
— Lo faranno morire dalla rabbia!
— Morire! È uno che se la piglia!
— È più tranquillo di noi!
— Io dico che ci si diverte.
— Ma la sua famiglia?
— Chi sa da che parte di mondo è venuto!
— Questa robaccia non à mica famiglia!
— Sicuro, è roba allo sbaraglio!
— Se venisse dall'inferno?
— Povero diavolaccio!
— Avreste anche compassione?
Se v'avesse bruciata la casa
non direste così.
— La vostra l'à bruciata?
— Se non l'à bruciata
poco c'è corso.
À bruciato mezzo mondo
questo birbaccione!
— Almeno, vigliacchi, non gli sputate addosso,
infine è una creatura!
— Ma come se ne sta tranquillo!
— Non à mica paura!
— Io morirei dalla vergogna!
— Star lì in mezzo alla berlina!
— Per tre giorni!
— Che gogna!
— Dio mio che faccia bieca!
— Che guardatura da brigante!
— Se non ci fosse la gabbia
io non ci starei!
— Se a un tratto si vedesse scappare?
— Ma come deve fare?
— Sarà forte quella gabbia?
— Non avesse da fuggire!
— Dai vani dei ferri non potrà passare?
Questi birbanti si sanno ripiegare
in tutte le maniere!
— Che bel colpo oggi la polizia!
— Se non facevan presto a accaparrarlo,
ci mandava tutti in fumo!
— Si meriterebbe altro che berlina!
— Quando l'ànno interrogato,
à risposto ridendo
che brucia per divertimento.
— Dio mio che sfacciato!
— Ma che sorta di gente!
— Io lo farei volentieri a pezzetti.
— Buttatelo nel fosso!
— Io gli voglio sputare
un'altra volta addosso!
— Se bruciassero un po' lui
perchè ridesse meglio!
— Sarebbe la fine che si merita!
— Quando sarà in prigione scapperà,
è talmente pieno di scaltrezza!
— Peggio d'una faina!
— Non vedete che occhi che à?
— Perchè non lo buttano in un pozzo?
— Nel cisternone del comune!
— E ci sono di quelli
che avrebbero pietà!
— Bisogna esser roba poco pulita
per aver compassione
di questa sorta di persone!
Largo! Largo! Largo!
Ciarpame! Piccoli esseri
dall'esalazione di lezzo,
fetido bestiame!
Ringollatevi tutti
il vostro sconcio pettegolezzo,
e che vi strozzi nella gola!
Largo! Sono il poeta!
Io vengo di lontano,
il mondo ò traversato,
per venire a trovare
la mia creatura da cantare!
Inginocchiatevi marmaglia!
Uomini che avete orrore del fuoco,
poveri esseri di paglia!
Inginocchiatevi tutti!
Io sono il sacerdote,
questa gabbia è l'altare,
quell'uomo è il Signore!
Il Signore tu sei,
al quale rivolgo,
con tutta la devozione
del mio cuore,
la più soave orazione.
A te, soave creatura,
giungo ansante, affannato,
ò traversato rupi di spine,
ò scavalcato alte mura!
Io ti libererò!
Fermi tutti, v'ò detto!
Tenete la testa bassa,
picchiatevi forte nel petto,
è il confiteor questo,
della mia messa!
T'ànno coperto d'insulti
e di sputacchi,
quello sciame insidioso
di piccoli vigliacchi.
Ed è naturale che da loro
tu ti sia fatto allacciare:
quegl'insetti immondi e poltroni,
sono lividi di malefica astuzia,
circola per le loro vene
il sangue verde velenoso.
E tu grande anima
non potevi pensare
al piccolo pozzo che t'avevan preparato,
ci dovevi cascare.
Io ti son venuto a liberare!
Fermi tutti!
Ti guardo dentro gli occhi
per sentirmi riscaldare.
Rannicchiato sotto il tuo mantello
tu sei senza parole,
come la fiamma: colore, e calore!
E quel mantello nero
te l'àn gettato addosso
gli stolidi uomini vero,
perchè non si veda che sei tutto rosso?
Oppure te lo sei gettato da te,
per ricuoprire un poco
l'anima tua di fuoco?
Che guardi all'orizzonte?
Se s'alza una favilla?
Dimmi, non sei riuscito a trafugare
l'ultimo zolfino?
Ti si legge negli occhi!
Ma ti saltan dagli occhi le faville,
a cento, a cento, a mille!
Tu puoi cogli occhi
bruciare tutto il mondo!
T'à creato il sole,
che bruci al sol guardarti?
Quando tu bruci
tu non sei più l'uomo,
il Dio tu sei!
Mi sento correr per le vene un brivido.
Ti vorrei vedere quando abbruci,
quando guardi le tue fiamme;
tutte quelle bocche,
tutte quelle labbra,
tutte quelle lingue,
non vengono a baciarti tutte?
Non sono le tue spose
voluttuose?
Bello, bello, bello..... e Santo!
Santo! Santo!
Santo quando pensi di bruciare.
Santo quando abbruci,
Santo quando le guardi
le tue fiamme sante!
E voi, rimasti pietrificati dall'orrore,
pregate, pregate a bassa voce,
orazioni segrete.
Anch'io sai, sono un incendiario,
un povero incendiario che non può bruciare,
e sono come te in prigione.
Sono un poeta che ti rende omaggio,
da povero incendiario mancato,
incendiario da poesia.
Ogni verso che scrivo è un incendio.
Oh! Tu vedessi quando scrivo!
Mi par di vederle le fiamme,
e sento le vampe, bollenti
carezze al mio viso.
Incendio non vero
è quello ch'io scrivo,
non vero seppure è per dolo.
Àn tutte le cose la polizia,
anche la poesia.
Là sopra il mio banco ove nacque,
il mio libro, come per benedizione
io brucio il primo esemplare,
e guardo avido quella fiamma,
e godo, e mi ravvivo,
e sento salirmi il calore alla testa
come se bruciasse il mio cervello.
Come mi sento vile innanzi a te!
Come mi sento meschino!
Vorrei scrivere soltanto per bruciare!
Nel segreto delle mie stanze
passeggio vestito di rosso,
e mi guardo in un vecchio specchio,
pieno di ebbrezza,
come fossi una fiamma,
una povera fiamma che aspetta....
il tuo riflesso!
Fuori vado vestito di grigio,
ovvero di nessun colore,
c'è anche per le vesti una polizia,
come per le parole.
E quella per il fuoco
è tremenda, accanita,
gli uomini ànno orrore delle fiamme,
gli uomini serî,
per questo ànno inventato i pompieri.
Tu mi guardi, senza parlare,
tu non parli,
e i tuoi occhi mi dicono:
uomo, poco farai tu che ciarli.
Ma fido in te!
T'apro la gabbia và!
Guardali, guardali, come fuggono!
Sono forsennati dall'orrore,
la paura gli à tutti impazzati.
Potete andare, fuggite, fuggite,
egli vi raggiungerà!
E una di queste mattine,
uscendo dalla mia casa,
fra le consuete catapecchie,
non vedrò più le vecchie
reliquie tarlite,
così gelosamente custodite
da tanto tempo!
Non le vedrò più!
Avrò un urlo di gioia!
Ci sei passato tu!
E dopo mi sentirò lambire le vesti,
le fiamme arderanno
sotto la mia casa....
griderò, esulterò,
m'avrai data la vita!
Io sono una fiamma che aspetta!
Và, passa fratello, corri, a riscaldare
la gelida carcassa
di questo vecchio mondo!



Analisi del testo

Dopo una breve spiegazione dei fatti, in cui viene definita la situazione poetica (vv. 1-10), la prima parte del componimento è caratterizzata da una struttura in stile dialogo, in cui si mescolano e si confondono le voci della gente comune (caotiche battute e senza soluzione di continuità fra loro). La gente che parla sono i cosiddetti benpensanti, i difensori pubblici dell'ordine e della rispettabilità borghese. Nei loro confronti l'incendiario rappresenta la diversità, che rifiuta e vuole distruggere le false convenzioni di una morale spesso ipocrita e opportunistica.
Per questo la polizia, che rappresenta il potere, l'ha imprigionato, facendone un oggetto di riprovazione e di scandalo, di curiosità e di dileggio.
Ad esso si può paragonare la stessa rappresentazione di Cristo, che pronuncia verità scomode e sgradite al potere, per le quali non a caso verrà condannato a morte. Nei versi 96-107, alle virtù e i poteri divini dell'incendiario corrispondono la bassezza morale degli uomini.
Più avanti (vv. 169-174) la bellezza dell'incendiario è accomunata alla sua santità, così come "sante" sono le "fiamme" che sa suscitare. Il fuoco può essere visto in due modi, sia come forza distruttiva sia come rinascita.
Recandosi a liberarlo, il poeta, che parla in prima persona, dopo aver ascoltate le chiacchiere meschine della gente, si propone come sacerdote di una verità più profonda e quasi assoluta. Le fiamme diventano così l'equivalente della poesia, che dopo aver vinto l'indifferenza e il disprezzo, può rendere viva e rinnovata l'umanità.



Commento

L'opera segna il movimento più futurista della produzione lirica di Palazzeschi. Tuttavia in lui il Futurismo si presenta con una caratteristica nota di divertita ironia (e spesso di autoironia), che alleggerisce la tensione della protesta, pur lasciando intatta la carica di novità dei contenuti.
La sua ilarità e la sua abilità da poeta giocoliere non possono che condurlo ad utilizzare per la sua denuncia la figura del paradosso, per dimostrare che l'unica forma di poesia che abbia un senso è quella priva di senso: è inevitabile la conseguente necessità di ripartire da zero, dal candore primitivo, dall'istinto e dall'ingenuità fanciullesca.
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Il controdolore: spiegazione e commento - Aldo Palazzeschi


Apparso su «Lacerba» il 29 dicembre 1913, Il controdolore è il manifesto del futurismo di Palazzeschi, che indica la misura originale e inconfondibile della sua adesione al movimento marinettiano.

La forza motrice dell'universo, di origine divina, è costituita dal riso, che diventa, simbolicamente, l'elemento centrale della poetica palazzeschiana. L'atteggiamento avvicina Palazzeschi alle tendenze, teoriche e letterarie, che hanno visto nel comico e nell'umorismo un modo diverso e profondamente alternativo di rappresentare la realtà: che risulta capovolta e sconvolta. Fin dall'inizio Palazzeschi aveva mostrato la sua preferenza per situazioni e personaggi buffi, grotteschi, eccentrici o surreali. Il riso è la proposta di una letteratura intesa come gioco, puro divertimento ed evasione.

Con l'idea del "controdolore" Palazzeschi vuole negare il dolore attraverso la farsa, gli sberleffi ed il riso. L'uomo, secondo Palazzeschi, non è stato creato per soffrire: il dolore è solo una stadio temporaneo perché la vita è gioa eterna... e il riso è più profondo del pianto. Ed è qui un'anticipazione delle scuole del grottesco e dell'arte dell'irrisione, o addirittura dell'umorismo pirandelliano.

A detta di Palazzeschi, Dio non è una figura umana (tipicamente raffigurata con barba bianca e candida chioma), ma semplicemente una figura spirituale. E nel caso in cui fosse stato un uomo, lui se lo immaginerebbe proprio come un uomo comune per dimensioni ed età, quindi non come una creatura immensa. Palazzeschi, inoltre, non riesce ad attribuire serietà e severità a Dio, perché lui ci starà guardando ridendo. Per questa ragione non può che essere contrario alla visione che compare nella Genesi, infatti afferma che Dio ha creato il mondo perché ciò lo divertiva, che la Terra e l'uomo sono soltanto i suoi "giocattoli".

L’autore propone diversi esempi distorti e contrari allo spirito del tempo: un gobbo, una donna calva, maestri con malattie impensabili che provocano il riso:

La gobba, la calvizia in una donna, la vecchiaia o qualsiasi altro problema fisico devono essere visti come una bellezza superiore rispetto alla perfezione della giovinezza. In quanto le creature vecchie o deformi racchiudono i sintomi della felicità.

Sostiene che i malinconici debbono essere ricoverati; bisogna trasformare gli ospedali "in luoghi divertenti" e trasformare i funerali in cortei mascherati e grotteschi, per cancellare il pensiero della morte perché deve esserci solo gioia e felicità. La sua idea è che non si deve ridere nel vedere uno che ride, ma nel vedere uno che piange. Palazzeschi alza la posta in gioco dicendo, sarcasticamente, che bisogna saper ridere della malattia, della vecchiaia e della morte.

Dicendo questo vuole chiaramente provocare la gente, così come facevano i futuristi durante le serate futuriste al teatro. Tutto ciò deve partire dai giovani, dalle nuove generazioni: gli insegnanti non devono limitarsi a spiegare la lezione scolastica ma anche insegnare a far ridere affinché gli studenti crescano con il riso, unica arma per contrastare il dolore.

La risata è la forza motrice dell'universo e l'uomo che ride vuol dire che ha capito il meccanismo della vita. E solo quando si ride si può essere presi sul serio.
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A Cesena: parafrasi, analisi, commento - Marino Moretti


Questa è la più conosciuta poesia di Marino Moretti e fra le più rappresentative del Crepuscolarismo. Fa parte della raccolta Poesie scritte col lapis.


Testo

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.
Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un po’ di bene.

«Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi...

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
«Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla... così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

«La mamma nostra t’avrà detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta... Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna, è una buona gravidanza...»

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!




Parafrasi

In un mercoledì piovoso vengo invitato da mia sorella, che si è maritata da appena sei-sette mesi.
La pioggia battente sul desolato centro abitato, bagna la facciata della casa ininterrottamente, e ai piedi della grondaia produce schiuma simile alla bava.
Tu mi fai un sorriso, ma io continuo a essere triste. E forse triste è per te la pioggia di città, l'amore del marito che non ti ha portato giovamento.
Il sogno d'amore non ti ha invecchiato sorella, e mi guardi con lo stesso sguardo di chi si ostina a difendere una situazione di cui si è poco convinti.
Sei la mia bambina, la mia sorellina, una nuora e una sposa, io vedo tuo marito e ti sento dire mamma a un'estranea;
So che quell'uomo è un suocere perbene, che dopo l'abbondante pasto si appisola, è il tuo nuovo papà che ti vuole un po' di bene.
Chiami la "mamma" sorridendole e vuoi che io sia gentile con lei e le sorrida, che le racconti dei miei viaggi, poi...
poi quando siamo soli noi due (piove ancora più forte) mi racconti con voce bassa e rauca di un litigio che c'è stato tra di voi, mi racconti dove, quando, come, perché; e una volta finito me lo racconti una seconda volta; mi chiedi consiglio sorridendomi, ma quello non è più il tuo sorriso originale, ma quello di nuora.
Mi dici che la cognata è quasi avara e quando ti viene a far visita con suo figlio non sai se temerla o fartela amica;
parli del nonno a cui resta poco da vivere, il nonno ricco del tuo marito Dino, e dici che ti prenderai cura di lui ma solo per poter mettere le mani sulla sua eredità;
parli della città, delle signore che hai conosciuto, dei giorni felici, di libertà, delle soddisfazioni concesse al tuo amor proprio.
In questo mercoledì di pioggia sono a Cesena e mia sorella è qui, ma appartiene a un uomo che conosco appena,
tra nuova gente, nuovi impegni, nuove tristezze, e a me parla... così, in modo distaccato, mentre piove a tratti e alla fine mi rivela di essere incinta, ma dispiaciuta perché non era "programmato".
Mi dice che non vuole dipendere da nessuno, che spera di poterlo allattare da sola, che sta cercando un nome adatto, e che è certa che la gravidanza sta procedendo nel migliore dei modi.
E continui a parlare, ancora e ancora, e ti guardi intorno. Continua a piovere e si avvicina la sera. È ora di andare, si è fatto tardi.
E pensare che fino all'anno scorso eri ancora una bambina ai miei occhi!



Analisi del testo

METRO: terzine di endecasillabi, con rime ABA, CBC, DED, FEF ecc.

Il primo verso risulta nettamente diviso in tre segmenti, isolati dal punto, che stabiliscono tre informazioni: climatiche («Piove»), cronologiche («È mercoledì»), e ambientali («Sono a Cesena»). Il discorso appare spezzato e ritardato, come se il poeta procedesse lentamente e faticosamente.

Alla tristezza di Moretti fa da contrasto il sorriso della sorella sposata da 6-7 mesi (l'imprecisione è tipica del linguaggio parlato e serve a dare prosaicità allo stile), che cerca di offrire un'immagine tranquilla e felice ma qualche verso dopo scopriamo essere solo apparente. Il poeta, a sua volta, è geloso e offeso per il nuovo cambiamento di vita della sorella e per lei ha solo sguardi sospettosi e addirittura impietosi.

Agli occhi di Moretti la vita familiare di cui si è circondata la sorella è piena di crepe nascoste: il vocativo «Mamma!» (v. 19), da lei attribuito alla suocera, ribadisce l'idea di falsità e finzione, di una recita con cui si cerca in modo forzato di stabilire un reciproco affetto («tu chiami, e le sorridi e vuoi / ch'io sia gentile, voi ch'io le sorrida»).
Da notare che quando si riferisce alla loro vera mamma utilizza l'appellativo «mamma nostra» (v.43) e quando presenta il suocero «il suocero dabbene» lo fa in modo distaccato e quasi volgare («che dopo il lauto pasto è sonnolento»)

Altri aspetti che confermano l'esistenza soffocata e infelice della sorella, come se vivesse in una specie di prigione, sono il suo rapporto indeciso con la cognata (cognata quasi avara... e non sai se temerla o averla cara), la maternità vista come parte di un rituale e non come speranza.

La pioggia che viene usata in molte altre poesie come "La pioggia nel Pineto" di D'Annunzio, è qui battente ma non porta alcuna speranza o possibilità di riscatto, bensì scandisce il grigiore e la crudele monotonia dell'esistenza.

Al verso 36, veniamo riportati al discorso precedente (Piove. È mercoledì. Sono a Cesena...), quasi a indicare una situazione che non ha vie d'uscita. E il poeta già si trascinava da verso a verso, da strofa a strofa ("poi... / poi... v. 21-22").

L'aggettivo qualificativo "bella", viene ripetuto per tre volte nei versi 12-13 e sta ad indicare un affetto verso la sorella che va man mano svanendo.

Il verbo "Parli" usato come anafora sta ad indicare il parlare a vuoto della sorella, che alla lunga diventa ripetitivo e noioso d astare a sentire.



Figure retoriche

Enjambement = lava/la faccia (vv. 4-5).

Enjambement = lava/la faccia (vv. 7-8).

Enjambement = ostina/a dirmi (vv. 11-12).

Enjambement = e vuoi/ch'io sia gentile (vv. 19-20).

Enjambement = nuove/tristezze (vv. 40-41).

Enjambement
= S'avvicina/l'ombra grigiastra (vv. 50-51)

Polisindeto
= e le sorridi e vuoi / c'io sia gentile, vuoi ch'io le sorrida (vv.19-20-21). Uso di numerose congiunzioni che collegano le proposizioni.

Litote = senza dolcezza (v. 42). Ottenuto mediante la negazione del contrario.

Climax = bambina/sorellina/nuora/sposa (vv. 13).

Anafora = parli (vv. 28-31-34).

Anafora = Ancora parli, ancora parli (v. 49).



Commento

Il poeta narra una deludente visita alla sorella, che ora vive a Cesena insieme al marito che ha sposato circa 6-7 mesi prima. Il grigiore della vita che ella conduce, circondata dalla meschinità e dalla evidente litigiosità della famiglia piccolo-borghese del marito sono i temi principali di questa poesia cui fa da sfondo la pioggia, che a volte diventa più forte, a volte si ferma e poi ricomincia di nuovo a rinforzarsi. La pioggia riflette lo stato malinconico dell'autore. La sorella che è uscita dal nido familiare (per dirla alla Pascoli), dapprima sembra scontenta del ruolo che ha assunto nella sua nuova famiglia (nuora-sposa) ma poi emerge in lei un'altra personalità, del tutto nuova al poeta, ed è quella meschina: ella non vede l'ora che il suocero muoia per intascarsi l'eredità (cioè offre il suo aiuto solo in cambio di qualcosa), non parla al fratello con dolcezza e quindi lo tratta da estraneo (come se la fratellanza avesse perso importanza), chiama invece mamma un'estranea (ovvero la suocera, come se si fosse dimenticato di aver avuto già una mamma). Questo mutamento della sorella che lui ha sempre considerato una "bambina", suscita in lui un'angoscia desolata che viene messa in risalto dall'estrema prosaicità dello stile.
Il verso finale racchiude tutto il rimpianto e la nostalgia di Moretti per un passato meraviglioso di cui non se ne ha più alcuna traccia; quando rivede la sorella scopre che non è più come l'aveva lasciata, è diversa nel carattere (in senso negativo). Inoltre, si sente totalmente escluso dal suo nuovo stile vita, avrebbe anche voluto farglielo notare ma vi rinuncia perché questo cambiamento, ormai, è troppo radicato al punto che la ragazza nemmeno si rende conto di essere cambiata, quindi è impossibile da estirpare. O ci si fa l'abitudine o bisogna prenderne le distanze, questo è quello che probabilmente è passato per la testa del poeta... e Moretti ha optato per la seconda opzione.
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Riassunto vita: Marino Moretti


Marino Moretti (Cesenatico, 18 luglio 1885 – Cesenatico, 6 luglio 1979) è stato uno scrittore, poeta e romanziere italiano. Fu anche autore di opere teatrali. È noto soprattutto come poeta crepuscolare.

Si trasferì nel 1902 a Firenze, non portò a termine gli studi e iniziò a frequentare la scuola di recitazione, dove ebbe modo di stringere amicizia solida e duratura con Aldo Palazzeschi, altro allievo della scuola. Entra poi in contatto con altri crepuscolari (Gozzano, Corazzini, Govoni, Gianelli). Dichiaratosi contrario al fascismo, firmò il manifesto antifascista di Benedetto Croce, pur non partecipando attivamente alla vita politica. Condusse un'esistenza schiva e appartata, collaborando intensamente al Corriere della Sera.

La sua attività iniziale è rivolta alla poesia. Nella raccolta Fraternità (1905), dedicata al fratello morto e alla madre viva e piangente, l'atmosfera dominante è quella pascoliana: al centro sono gli affetti domestici, il legame condizionante con la madre, la contrapposizione fra la casa-nido e il mondo.

Nei poemetti della Serenata delle zanzare i contenuti sono minori e degradati, orientati verso una mentalità piccolo-borghese.

Le Poesia scritte col lapis (1910) introducono gli ambienti più tipiche del crepuscolarismo morettiano: signorine appassite e chiusi ambienti di provincia ; il grigiore e la noia quotidiana, segno di un'ansia e di una insoddisfazione represse; i cani randagi e gli organetti di Barberia; il senso di inutilità della vita, cui corrisponde un linguaggio monotono e uniforme, basato sulle ripetizioni e sulle riprese; il mondo infantile, regressivo, dei banchi e dei compagni di scuola. Non mancano tuttavia momenti ironici, con toni di più risentita e graffiante cattiveria.

La situazione di fondo non muta nelle Poesie di tutti i giorni (1911), che ribadiscono lo stretto rapporto fra infanzia e dimensione del quotidiano. Non a caso il libro si apre con l'Ode al lapis; contiene una sorta di itinerario nei luoghi topici della noia cittadina; ripropone il motivo delle beghine (beghinaggio) e torna sulla raffigurazione di luoghi chiusi (La farmacia), sottratti al trascorrere del tempo.

Il giardino dei frutti (1916) conclude il discorso poetico sin qui condotto da Moretti accentuandone le componenti critiche. Nelle poesie scolastiche prevalgono ora gli aspetti di una insofferenza corrosiva (la scarsa propensione al Leopardi, l'amore per Carolina Invernizio, l'avida lettura del D'annunzio "proibito").

Quando scoppia la prima guerra mondiale, pur non essendo stato ritenuto idoneo al servizio militare, volle partecipare; e si arruolò come infermiere lavorando negli ospedali da campo.
Durante gli anni della guerra avvenne l'esordio di Moretti come romanziere, con Il sole del sabato, cui seguiranno, tra gli altri, Guenda (1918), La voce di Dio (1920), Né bella né brutta (1921), I puri di cuore (1923), Il segno della croce (1926), L'Andreana (1935), I coniugi Allori (1946), La camera degli sposi (1958). Ambientate in un mondo piccolo-borghese, queste opere ne riflettono l'ideologia dominante, ma ne colgono anche la crudeltà e le storture.

Ancora più numerose, tra il 1907 e il 1956, le raccolte delle novelle. Da segnalare i libri di memorie che iniziano come rievocazioni patetico-sentimentale e finiscono per diventare anticonformistici e insofferenti: Mia madre (1923), Via Laura (1931), Scrivere non è necessario (1937), I grilli di Pazzo Pazzi (1951).

Negli ultimi anni, Moretti ritorna a dedicarsi alla poesia adottando uno stile moderno, con un distacco ironico e sentenzioso: L'ultima estate (1969), tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973) e Diario senza le date (1974). Qui il suo stile è scontroso e sincero, disarmante e tagliente, mescola verità e finzione, semplicità e paradosso.

Muore qualche anno più tardi, nel 1979, a Cesenatico.
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Totò Merumeni: parafrasi, analisi e commento - Guido Gozzano


È il componimento che introduce la terza e ultima sezione dei Colloqui, intitolata Il reduce, in cui Gozzano raffigura, in termini emblematici, la sua condizione di "sopravvissuto".


Testo

I.
Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura…

Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.

Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando,
villosi forestieri picchiano la gorgòne.

S’ode un latrato e un passo, si chiude cautamente
la porta… In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.


II.
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.

Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.

Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.

Gelido, consapevole di sé e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti…»

Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita…


III.
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.

Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino…


IV.
Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.

Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori…


V.
Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in se stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.



Parafrasi


PRIMA STROFA
Con il suo giardino trascurato, le ampie sale, i bellissimi balconi in stile Barocco ornati di piante e fiori, la villa sembra essere ripresa da versi che ho scritto in passato, sembra la villa ideale, di un'ambientazione letteraria.

Nella villa, oggi abbandonata e malinconica, tornano alla mente i ricordi, ripensa alle bande festose sotto gli alberi centenari, banchetti eccezionali nell'enorme sala da pranzo, e balletti nel salone spogliato dagli antiquari.

Nel luogo in cui un tempo giungevano le antiche casate nobiliare degli Ansaldo, i Rattazzi, i d'Azeglio, gli Oddone, si ferma un'automobile dove frenetici e rumorosi visitatori impellicciati bussano picchiando il battente della porta.

Si sente un abbaiare rabbioso e un rumore di passi, si apre lentamente la porta... In quel silenzio monastico e di caserma vive Totò Merumeni assieme alla madre inferma, una prozia dai capelli bianchi e uno zio affetto da demenza.


SECONDA STROFA
Totò ha venticinque anni, ha un carattere distaccato e schivo, molta cultura e gusto letterario, ingenuo, senza morale, infallibile capacità di prevedere il futuro: rappresenta l'emblema della gioventù del primo '900.

Non essendo ricco, arriva il momento di fare pseudo-letteratura e farsi truffatore o giornalaio, e Totò scelse l'isolamento. E in libertà riflette sul suo passato di cui è meglio tacere.

Non è cattivo. Al povero manda aiuti economici, all'amico un cesto di primi frutti di stagione; non è cattivo. A lui si rivolge lo studente emigrante per farsi scrivere lettere di raccomandazione.

Cinico, consapevole di sé e dei suoi sbagli, non è cattivo. Si tratta del buono per comodità che veniva deriso da Nietzsche «... in verità derido l'incapace che dice di essere buono, perché non ha le unghie abbastanza forti...»

Dopo il faticoso studio, scende in giardino, gioca coi suoi dolci compagni sull'erba invitante; i suoi compagni sono: un uccello stridulo, un gatto e una scimmietta che si chiama Makakita.


TERZA STROFA
La Vita si riprese tutte le promesse fatte. Egli sognò per anni l'Amore che non arrivò mai, sognò per provare le sofferenze di un amore tormentato come quello che si legge nei romanzi, ma ad oggi ha per amante una cuoca diciottenne.

Quando tutti in casa dormono, la giovinetta scalza e infreddolita, giunge nella sua stanza per baciarlo energicamente, saltandogli addosso, mentre riposa beatamente in posizione supina.


QUARTA STROFA
Totò non può provare sentimenti vitali e genuini. Un lento male inguaribile privò le fonti primarie del suo sentimento; l'esame analitico e la riflessione critica e corrosiva fecero a quest'uomo ciò che le fiamme, fanno a un edificio, dopo essere state rigenerate dal vento.

Ma come le rovine che già conobbero il fuoco fanno nascere i giaggioli dai rigogliosi fiori, quell'anima secca dà vita a poco a poco a una fioritura di sottili versi consolatori...


QUINTA STROFA
Così Totò Merumeni, dopo spiacevoli vicende, è tornato quasi a sorridere. Alterna l'analisi filosofica e l'attività poetica. Chiuso in se stesso, medita, si coltiva spiritualmente, esplora, recepisce le astratte ricerche interiori che non aveva mai compreso prima d'ora.

Perché l'ispirazione poetica è limitata e la poesia è infinita, e mentre io parlo e il tempo scorre, Totò va a comporre poesie per conto suo, sorridendo e aspettando tempi migliori. E vive la sua vita: un giorno è nato e un giorno morirà.



Analisi del testo


Temi: il ritratto di un letterato sterile e inutile, la sua vita solitaria, la rinunzia ad agire, l’attesa della morte.
Anno: 1911
Schema metrico: 15 quartine di doppi settenari, divise in 5 parti (rispettivamente di 4, 5, 2, 2, 2 strofe). Le rime sono di solito alternate (schema ABAB, CDCD); nella quarta e nell’ottava stanza, lo schema diviene ABBA e le rime sono incrociate.


Come ci rivela l'allusione a una commedia di Terenzio (II sec. a.C.): Heautontimorùmenos, il punitore di se stesso, contenuta nel titolo, il tema del poemetto è l'ossessione autopunitiva.
Totò (cioè: Gozzano da giovane) non è riuscito a vivere la propria vita come un'opera d’arte, secondo il programma di Andrea Sperelli, primo eroe dannunziano.
Un legame di odio amore unì Gozzano a D’Annunzio: per anni egli imitò il vate pescarese, prima di divenire il suo critico più severo. Nasce da tale presa di distanza questo componimento, intitolato a un personaggio (Totò Merumeni) che pare un esteta dannunziano, ma che in realtà è solo un poveretto, un fallito, sia come uomo sia come letterato.
L'ambiente in cui vive Totò Merumeni è una villa triste e solitaria (quel silenzio di chiostro e di caserma) che un tempo ha avuto un passato felice (Pensa migliori giorni) e con segni di modernità (s'arresta un automobile...), mentre adesso la villa è sede di desolazione (il salone spoglio da gli antiquari).
Secondo Gozzano la villa non è un'entità che esiste autonomamente, ma «sembra la villa-tipo», ovvero puramente cartacea e libresca (del Libro di Lettura). Proprio perché è un mondo ai confini del reale, Totò Merumeni si propone come una specie di controfigura dello stesso poeta. Questo lo possiamo notare quando Gozzano cita se stesso: "la vita sembra tolta da certi versi miei".
Il male morale di Totò sono le complicazioni intellettualistiche (l’analisi e il sofisma), che lo rendono insensibile, come le fiamme che bruciano un edificio.
Ora se ne rende conto; non gli resta perciò che rinunciare al vivere inimitabile dell’esteta, diventando il buono deriso da Nietzsche (v. 30).
Questo destino di sconfitta era, per lui, inevitabile. Difficilmente avrebbe potuto realizzare i suoi sogni di grandezza, nato com'è in quella famiglia anomala, con una madre inferma, / una prozia canuta ed uno zio demente (vv. 15-16). In seguito è rimasto scottato da esperienze che sembravano esaltanti (la Vita si ritolse tutte le sue promesse, v. 37) e perciò, adesso, si trattiene lontano dalla vita reale. Preferisce compiangersi, scrivendo esili versi consolatori (v. 52), piuttosto che darsi da fare per modificare la realtà.
Solo la poesia, in questa aridità, può offrirgli un po' di consolazione, mentre la solitudine lo induce a riscoprire, se non proprio una fede sicura, l'importanza di un interesse per i valori spirituali.
Siamo dunque all'opposto del superuomo dannunziano: rifiutato il vivere inimitabile, Totò è divenuto un uomo di solo pensiero, impermeabile agli entusiasmi, estraneo all'accendersi della vita comune, un inetto (opra in disparte, sorride, e meglio aspetta (v.59). Totò è divenuto insomma uno di quei personaggi troppo intellettuali che costellano la letteratura d’inizio secolo; una specie di teorista alla maniera di Svevo.
Anche l'amore non è quello celebrato da D'Annunzio, per donne fatali e dame dell'alta società, ma riguarda la «cuoca diciottenne», naturale e immediata, che rifiuta ogni complicazione sentimentale e mentale.
Il verso finale sta a significare l'inutilità della vita, chiusa tra la nascita e la morte. Dal momento che sono state deluse le aspirazioni e sono crollati i sogni di una vita eccezionale, non gli resta che accettare il proprio destino e aspettare impotente la fine dell'esistenza.


Il poemetto evidenzia la caratteristica gozzaniana. L’autore si distanzia un po' da tutto; infatti irride:
  • la tradizione letteraria: il mondo del Libro di Lettura, una specie di letteratura scolastica e di seconda mano;
  • le correnti ideologiche politiche (Nietzsche);
  • i nuovi ceti sociali: gli arricchiti impellicciati.

Le stesse maiuscole di Vita (v. 37), Amore (v. 38), Spirito (v. 56), Tempo (v. 58) ammiccano al sublime che Gozzano respinge da sé.
Questa volontà dissacratoria e il sorriso distaccato si esprimono anche nel lessico. Si va da toni aulici (numerosi risultano le citazioni letterarie del testo, da Dante a Petrarca all'Ariosto) a toni prosaici (gazzettiere) e situazioni quotidiane (gli amori con la cuoca, il gioco in cortile con il gatto e la scimmia). Il linguaggio esprime molto da vicino lo scarto tra la vita reale e la vita soltanto sognata da Totò.

Inoltre, più volte nel testo compare "Nietzsche-dice", questo è un modo per sottolineare la polemica sottile nei confronti di quanti in Italia hanno fatto di Nietzsche il loro mito.



Figure retoriche

Similitudine = fresca come una prugna (v. 42). Paragona la donna gelata per via del freddo mattutino a un frutto fresco.

Metafora = fiorita d'esili versi (v. 52). I versi di una poesia non fioriscono come i fiori.
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La Signorina Felicita ovvero la felicità, Guido Gozzano


Il poemetto fa parte della seconda sezione dei Colloqui, intitolata Alle soglie. Ed è con "L'amica di nonna Speranza", tra i più famosi componimenti di Guido Gozzano e forse anche dell'intero Crepuscolarismo, per l'apparente facilità dei versi, che nascondono uno stile particolarmente raffinato e complesso e, per i temi trattati: l'antidannunzianesimo, la malattia, il rifiuto del ruolo della qualifica di poeta, l'attenzione per le piccole e semplici cose, l'ironia e la parodia di se stesso.


Testo


I.

Signorina Felicita, a quest'ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest'ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all'avvocato che non fa ritorno?
E l'avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d'un autunno addietro,
Vill'Amarena a sommo dell'ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l'orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa...

Vill'Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell'edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga dalle stanze morte!
Odore d'ombra! Odore di passato!
Odore d'abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
le gesta dell'eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d'Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore...

Penso l'arredo - che malinconia! -
penso l'arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell'Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere... Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente... Avita
semplicità che l'anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!


II.

Quel tuo buon padre - in fama d'usuraio -
quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

"Senta, avvocato..." E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l'ascoltavo docile, distratto
da quell'odor d'inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto...
"...la Marchesa fuggì... Le spese cieche..."
da quel parato a ghirlandette, a greche...
"dell'ottocento e dieci, ma il catasto..."
da quel tic-tac dell'orologio guasto...
"...l'ipotecario è morto, e l'ipoteche..."

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: "Ma l'ipotecario
è morto, è morto!!...". - "E se l'ipotecario
è morto, allora..." Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
"Ecco il nostro malato immaginario!".


III.

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d'efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l'iridi sincere
azzurre d'un azzurro di stoviglia...

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un'amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l'ignoto villeggiante forestiero.

Talora - già la mensa era imbandita -
mi trattenevi a cena. Era una cena
d'altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita...

Per la partita, verso ventun'ore
giungeva tutto l'inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma - poiché trasognato giocatore -
quei signori m'avevano in dispregio...


M'era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d'aglio di cedrina...

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell'acciottolio.

Sotto l'immensa cappa del camino
(in me rivive l'anima d'un cuoco
forse...) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d'un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio e il mio destino...

Vedevo questa vita che m'avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!
Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell'altra stanza.


IV.

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch'è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

"é quella che lascò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno... E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena... L'han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s'ode il suo passo lungo i corridoi...".

Il nostro passo diffondeva l'eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l'un piede ignudo in mano,
si riposava all'ombra d'uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v'era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v'erano stampe di persone egregie;
incoronato dalle frondi regie
v'era Torquato nei giardini d'Este.
"Avvocato, perché su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliege?"

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell'Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall'abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco - pensavo - questa è l'Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c'è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei "cosi
con due gambe" che fanno tanta pena...

L'Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all'odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere...

Schierati al sole o all'ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell'oro;
o Musa - oimè! - che pu˜ giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell'oro, dell'alloro...

L'alloro... Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l'alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s'esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui...

"Avvocato, non parla: che cos'ha?"
"Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città...
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!..."
"Qui, nel solaio?..." - "Per l'eternità!"
"Per sempre? Accetterebbe?..." - "Accetterei!"

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l'ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

"Che ronzo triste!" - "é la Marchesa in pianto...
La Dannata sarà che porta pena..."
Nulla s'udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena...

Un richiamo s'alzò, querulo e roco:
"é Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo; è l'ora della cena!". - "Guardi,
guardi il tramonto, là... Com'è di fuoco!...
Restiamo ancora un poco!" - "Andiamo, è tardi!"
"Signorina, restiamo ancora un poco!..."

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pippistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s'annunciò la notte
sulla serenità canavesana...

"Una stella!..." - "Tre stelle!..." - "Quattro stelle!..."
"Cinque stelle!" - "Non sembra di sognare?..."
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessitˆ crepuscolare:
"Scendiamo! é tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle..."


V.

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei marchesi, ove la traccia
restava appena dell'età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l'insalata.

L'insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi...
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

"Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m'avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell'aurora che dicono: l'Amore..."

Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
"Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?".

"Perché mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!..."
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m'accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
"Non mi ten...ga mai più... tali dis...corsi!"

"Piange?" E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l'orecchio, il collo snello...
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d'improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!


VI.

Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d'ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l'aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte...

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d'essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t'han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d'un'intellettuale gemebonda...

Tu ignori questo male che s'apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l'esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere io!


VII.

Il farmacista nella farmacia
m'elogiava un farmaco sagace:
"Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d'oro, in fede mia!"
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacitˆ mordace.

"Ma c'è il notaio pazzo di quell'oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca...
E la dote... la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno..."

"Ma dunque?" - "C'è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla..."
"é geloso?" - "Geloso! Un finimondo!..."
"Pettegolezzi!..." - "Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla..."

"Non tema! Parto." - "Parte? E va lontana?"
"Molto lontano... Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo..."
"Davvero parte? Quando?" - "In settimana..."
Ed uscii dall'odor d'ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva "un punto sopra un I gigante".

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d'argento fatti nell'incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s'usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull'altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l'Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s'udiva il grido delle strigi alterno...
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant'anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L'una m'incalza quando l'altra appare;
quella m'esilia in terra d'oltremare,
questa promette il bene che sarà...


VIII.

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell'estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti da bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

"Viaggio con le rondini stamane..."
"Dove andrà?" - "Dove andrò? Non so... Viaggio,
viaggio per fuggire altro viaggio...
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell'Atlantico selvaggio...

Signorina, s'io torni d'oltremare,
non sarà d'altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l'altare?"
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda:
trenta settembre novecentosette...
Io non sorrisi. L'animo godette
quel romantico gesto d'educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d'addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti...
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole...

"Un altro stormo s'alza!..." - "Ecco s'avvia!"
"Sono partite..." - "E non le salutò!..."
"Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò..."

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d'altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine...

M'apparisti così come in un cantico
del Prati, lacrimante l'abbandono
per l'isole perdute nell'Atlantico;
ed io fui l'uomo d'altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico...

Quello che fingo d'essere e non sono!



Parafrasi

PRIMA STROFA
Scende la sera nel giardino antico di casa tua, Signorina Felicita. Nel mio cuore (dell'autore) scende il ricordo di quando ci vedevano, e ti rivedo ancora e rivedo la città di Ivrea, la Dora Baltea e il paese a me caro che non nomino.

Questo è il giorno del tuo onomastico, Signorina Felicita. Cosa starai facendo a quest'ora? Starai tostando il caffè con il buon odore che si diffonde intorno. Oppure starai cucendo dei lini o cantando pensando a me, oppure all'avvocato che non fa rientro a casa. E l'avvocato è qui che ti pensa.

L'avvocato pensava ai bei giorni dell'autunno scorso, a Villa Amarena, in cima alla salita, coi suoi ciliegi, insieme al fantasma della Marchesa, e all'orto che emanava un profumo di bosso, e ai cocci di vetro disposti sull'antico muro di cinta come protezione.

Villa Amarena! È così dolce e silenziosa la tua nel mese di settembre. Casa tua è ricoperta da una parete di granoturco fino alla cornice: come una dama del Seicento, segnata dal tempo, che vestiva da contadina.

Che bell'edificio triste e abbandonato! Con le grate ricurve, consumate, piegate! Silenzioso, con stanze vuote, che odora di chiuso, di vecchio, con riquadri che ritraggono scene mitologiche sopra le porte.

Scene epiche come Ercole che infuria contro il Centauro, le imprese memorabili dell'eroe Ulisse, Fetonte e il Po, lo sfortunato innamoramento d'Arianna, Minosse, il Minotauro, Dafne che viene rincorsa e tramutata in un albero di alloro tra le braccia di Apollo...

Che angoscia il solo ripensare all'arredamento: squallido, serioso, antico: la pirografia in stile neoclassico, la cartolina della ballerina Carolina Otero sullo specchio... Che malinconia!

Antico accessorio puro ed elegante! Grandi armadi pieni di lenzuola che tu rattoppi pazientemente... Semplicità ereditaria che che conforta l'anima, semplicità nella tua vita vissuta da sola insieme a tuo padre.


SECONDA STROFA
Quel tuo buon padre usuraio, con ingenuità mi accoglieva senza neanche chiedersi perché gli facevo visita così spesso, mi raccontava della raccolta dell'uva e dell'addetto ai lavori, mi confidava dei suoi vecchi guai notarili, tutto con molto rispetto.

Con una carta notarile in mano che leggeva lentamente e a bassa voce, cercava di coinvolgermi nei suoi discorsi, come quello riguardante la fuga della Marchesa, dell'ipotecario morto e delle ipoteche, mentre me ne stavo tranquillo in salotto. Io fingevo di ascoltarlo ma l'odor dell'inchiostro putrefatto, quello strano disegno sul tappetto, la poca luce, l'enorme spaziosità, il ticchettio dell'orologio... distoglievano la mia attenzione.

E quando si accorgeva che non avevo capito nulla di quello che stava dicendo, si meravigliava e ripeteva lo stesso discorso (convinto che poi l'avrei capito). Per fortuna  arrivavi tu, tutta sorridente e dicevi che ero un malato immaginario.


TERZA STROFA
Sei bruttina, quasi priva di fascino e vestita in modo semplice, da campagnola. Però il tuo viso fa una buona impressione e hai dei bei capelli biondi lucenti, raccolti in piccole treccine molto belle che ti fanno sembrare una donna fiamminga.

E vedo la tua bocca rossa, così sicura e decisa, e il volto squadrato, con le sopracciglia molto chiare, ricoperto da lievi lentiggini e con degli occhi sinceri di un colore azzurro limpido come le stoviglie.

Mi hai amato. Nei tuoi bei occhi limpidi c'era uno guardo di lusinga. Mi parlavi cercando di nasconderlo, senza riuscirci, volevi attrarmi Signorina: e più importante di ogni conquista delle donne sofisticate di città mi piacque quel tuo essere guardata.

Ogni giorno risalivo sul sentiero che portava da te. Il farmacista non pensò ad una bella amicizia quando gli presentasti lo sconosciuto forestiero (egli stesso, il poeta).

Allora il tavolo era già imbandito e mi trattenevi a cena. Questa era una cena molto semplice con le solite cose come il gatto, la farfalla notturna, con la signora Maddalena (signora delle pulizie), con i soliti commenti sui cibi e il riposo che precedeva la partita.

Per la partita serale c'era tutto l'illustre collegio politico sociale: il Regio Notaio, il signor Sindaco, il Dottore; ma essendo un giocatore distratto la mia presenza al gioco non era gradita.

Mi faceva più piacere starmene in cucina tra le stoviglie e i colori vivi e, con il godevole silenzio tuo e mio, signorina Felicita e, tra gli odori di basilico e di cedro che mi rasserenavano.

Maddalena con i soliti lamenti per l'età avanzata disponeva bene gli arredi e puliva tutta la casa, intanto io mi smarrivo nei sogni di varia natura, più strani, e intanto accordavo le sillabe dei suoi versi con il rumore delle stoviglie (che Maddalena lavava e riassettava).


QUARTA STROFA
Oggetti preziosi del solaio dove tutto viene dimenticato! In quel dimenticatoio, vi sono ricordi di ciò che è stato utile e che non lo sarà mai più. Era così bianca e bella che feci un sobbalzo nel vederla, era la Dama, dipinta in un'enorme tela.

È la persona che dovette lasciare, per vai problemi, la casa al nonno di mio nonno... E noi l'abbiamo conservata nel solaio, a scontare la sua pena. Alcuni l'hanno rivista al di fuori del quadro; durante alcuni noviluni si può sentire il suo passeggiare lungo i corridoi.

Il nostro camminare su quei rottami dell'inutile passato rimbombava come un eco, e la Marchesa dallo stile tipicamente greco, a cintura alta, col piede nudo in mano, si riposava all'ombra di un tranquillo antro, sotto un bel cielo pagano (in quanto sovrasta questa immagine classicheggiante dell'antro, che è tipico dell'Arcadia, ovvero appartenente al Settecento).

Intorno al ritratto della Marchesa che rideva illusa nel pregiato abito, e che morì di fame, vi era una una ammucchiata di oggetti rovinati e messi alla rinfusa: trappole per topi, materassi, vasellame, lumi, ceste, mobili: roba vecchia e di nessun valore, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi deteriorati e le ceste vi erano ritratti di persone eccellenti; incoronato con le foglie di alloro vi era Torquato Tasso nei giardini d'Este, e mi chiedevi per quale motivo su quelle buffe teste vi fosse un ramo di ciliegie.

Io risi così tanto che dovetti fermarmi un attimo, e ridendo pensai che la Gloria non è altro che un corridoio, tre ceste, un mobile della biancheria, e un brutto ritratto con una cornice nera e con sotto scritto il nome di Torquato Tasso!

Ritornato in me, esplorai il paesaggio circostante attraverso l'abbaino del Seicento, ovale, con un telaio fitto e con un rivestimento in vetro levigato che deformava la vista e la rendeva innaturale.

Sotto la grande cappa del camino, quando in lui riviveva l'anima di un cuoco, egli godeva sul rumore che emanava il fuoco che sembrava la canzone di un grillo parlante, come quello di Pinocchio, che gli diceva parole piano piano e lì vedeva il suo destino, e cioè la sua triste fine, ma quando riapriva gli occhi vedeva la signorina Felicita che gli ridava speranza.

E non mi pareva vero, come in una vetrata quadrettata, apparve il Canavese: le torri di Ivrea, le colline di Montalto, l'altopiano della Serra, gli alberi, le chiese; e il mio desiderio di pace si protese da quel rifugio luminoso e alto.

Ecco - pensavo - che era questa l'Amarena, ma laggiù, oltre i piacevoli colli, c'è il Mondo: quella cosa fatta di lotte e di commerci travolgenti, e di esseri a due gambe che fanno tanta pena...

La Morte numera le fosse, ma chi ci deve andare dentro va spinto da chimere, e poi essi vanno suddivisi a schieramenti opposti, dediti esclusivamente all'odio e alle percosse: così come ci sono formiche di colore rosso e formiche di colore nero.

Disposti verso la luce del sole o alle spalle della Croce che gli fa ombra, travolge proprio tutti la forza travolgente dell'oro; o Musa, a cosa potrà servire a loro il ritmo della mia debole voce? Meglio prenderne le distanze dal lusso del piacere, dall'oro e dall'alloro...

L'alloro... che desideravo avere come un bambino ormai cresciuto per queste cose non è altro che il premio di colui che si esalta per gli squilli di trombe, di chi è un ciarlatano e arriva alla notorietà (riferimento polemico a D'Annunzio) per far parlare di sé agli altri.

La Signorina aveva notato il mio silenzio e si chiedeva cosa avessi, le risposi che pensavo ai miei fatti, a piccole cose di poco conto, alla città... E che sarebbe davvero dolce restare qui, nel solaio, assieme a lei, per sempre, per l'eternità! La Signorina avrebbe accettato.

Poi tacqui di nuovo. Vidi una farfalla detta "testa di morto" sola e intrappolata. Si stava riposando alla parete: e con le ali ripiegate si poteva notare sul suo dorso il segno di un teschio spaventoso. E non appena lo sfiorai si mantenne in equilibrio in aria ed emise un ronzio lamentoso.

La Signorina disse che era triste quel ronzio, come se la Marchesa stesse piangendo per le sue sofferenze. Non si sentiva nient'altro che la farfalla ronzante, almeno fino a quando non si udì un canto popolare provenire dalle vigne.

Era arrivata la Maddalena che con voce rauca richiamava i due perché era pronta la cena. Ma invitavo la Signorina a restare nel solaio, per continuare a guardare insieme il tramonto di fuoco che annunciava la sera canavesana e il crepuscolo serale.

Con le fronti appoggiate al vetro, a fissare la piana, seguimmo con gli sguardi i numerosi pipistrelli neri; poi un soffio di vento e il suono delle campane, il sole era sparito dietro le nubi frastagliate. Era calata la notte nel canavesano...

Contammo le stelle fino a tardi, poi ti ricordasti che dovevamo scendere immediatamente perché era già tardi e gli altri avrebbero potuto pensare che stavamo facendo cose maliziose.


QUINTA STROFA
Il non far nulla in pieno giorno, nel parco dei Marchesi, che lasciava appena una traccia dell'età passata. Le statue con il naso appiattito e senza braccia, fra mucchi di letame e residui di uva, emergevano tra i porri e l'insalata.

L'insalata, i legumi utili come fonte di guadagnano deridevano il busso delle aiuole; volevano le farfalle nel sole, gli scarabei e le vespe svolazzanti... Io ti sussurravo e tu cucivi ubriacata dalle mie parole.

Non mi piace più nulla di ciò che in passato mi è piaciuto. Vorrei rimanere qui, per sempre al tuo fianco, terminare con te la vita che mi resta tra questo verde e questo lino bianco. Se solo Lei sapesse di quanto sono annoiato delle donne false che imitano quelle dei romanzi!

Vennero donne ad offrirmi il loro amore e ognuna sparì, senza lasciare traccia. Solamente lei, probabilmente, riuscirebbe a educare il freddo sognatore al tenero miracolo dell'amore: nel grigiore della mia vita non è mai apparsa quella luce speciale che chiamano Amore.

Mi osservavi e nei tuoi bei occhi sinceri vedevo uno smarrimento, ti afferrai le mani che stavano cucendo e te le strinsi a lungo, poi ti chiesi se fosti disposta a sposarmi nel caso in cui guarissi dal mio malessere.

Per te erano discorsi imbarazzanti in quanto riconoscevi di essere bruttina e ti coprivi il viso con le mani per nasconderti dalla vergogna, mentre simulavi il singhiozzo e ridevi come una ragazzina.

Ma avvicinandomi a te mi resi conto che quel singhiozzo era reale e non riuscivi a riprenderti dall'imbarazzo, mi parve di sentire che avevi la voce spezzata mentre mi chiedevi di non farti più dei simili discorsi.

Adesso stavi pure piangendo e provai a sollevarti il viso, inutilmente. Così presi un ramoscello e ti accarezzai l'orecchio e l'esile collo... In questo modo riuscii a farti ritornare il sorriso. Le donne sono un oggetto del mistero, ma bello da scoprire.


SESTA STROFA
Mi hai amato. Nei tuoi bei occhi limpidi c'era uno guardo di lusinga. Mi parlavi cercando di nasconderlo, senza riuscirci, volevi attrarmi Signorina: e più importante di ogni conquista delle donne sofisticate di città mi piacque quel tuo essere guardata.

Unire le nostre sorti per sempre, in questa casa centenaria! Con te, probabilmente, piccola e vivace compagna, trasparente come l'aria, rinuncerei alla devozione letteraria che rende la vita simile alla morte.

Che vita piena di rimpianti questa. Meglio la vita ruvida e concreta del mercante dedicata a racimolare soldi, meglio vivere avendo sempre bisogno, ma almeno questo è vivere! Io perfino mi vergogno di essere un poeta!

Tu non scrivi versi. Ritagli le camicie per tuo padre. Sei arrivata fino  alla seconda classe, ti hanno detto che la Terra era di forma tonda e non gli hai creduto... E non studi Nietzsche. Mi piaci per questo. Mi renderesti più felice rispetto a quanto potrebbe fare un intellettuale lamentoso.

Tu ignori il male della Filosofia che si attacca in noi intellettuali. Tu vivi i tuoi giorni umilmente e beatamente nelle tue faccende. Mi piaci per questo. Penso che leggendo questi miei versi ispirati a te, non riuscirai a comprendere, e a me mi sta bene che tu non lo comprendi.

Ed io non voglio più essere quello che sono!
Non voglio più essere il freddo  e gelido sognatore, ma vorrei vivere nel tuo borgo selvaggio, conquistando una cosa per volta mercanteggiando tranquillamente, dimenticato da tutti come tuo padre, come il farmacista...

Ed io non voglio più essere quello che sono!


OTTAVA STROFA
Nel malinconico giorno degli addii mi piacque rivedere la tua villa ancora una volta. La fine dell'estate era serena in quel mattino a cielo chiaro che arrivava tra i vigneti già senza foglie, tra i pendii già ornati di fiori di colore violaceo.

Forse nel vedere il fiore dai bulbi e dai semi velenosi, le rondini iniziavano timidamente a prepararsi per migrare, e io che invece sono solo vedevo questo come un buon presagio per lasciarmi accompagnare da loro nel viaggio che sto per intraprendere.

Viaggio insieme alle rondini stamattina, andrò in viaggio, senza una meta precisa. Viaggio per fuggire alla morte... In Marocco e in qualche isoletta esotica, che sono ricche di alberi e piante come datteri, banane, dispersi nell'Atlantico selvaggio...

Signorina, se io dovessi tornare d'oltremare, non sarà mica diventata donna di altri? Mi assicurate che potrò ancora ritrovarla e portare questo amore vero e puro un giorno all'altare? E giurasti il tuo amore.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda sul muro, di viole e di saette, coi nostri nomi e la data da ricordare: 30 settembre 1907. Io restai serio e mi sono goduto quel tuo romantico gesto.

Le rondini emettevano versi assordanti, come se volessero dare loro l'addio, e andavano avanti e indietro come le macchine tessili, incitando le rondini più piccine a migrare... Tu seguivi gli stormi in lontananza proiettati in direzione dei luoghi più caldi...

È partito un altro stormo di uccelli, ma questo non lo saluterò, saluterò la Signorina Felicita, ma non loro perché stanno andando nella mia stessa direzione: in un palmeto dell'Africa Settentrionale e tra qualche giorno le rincontrerò...

Giunse il vero addio, così triste che sembrava non finire mai, e fu come i vecchi tempi, quando le amate pettinate con la riga al centro e indossando delle sottane rigide e rigonfie, sbucavano fuori da un roseo giardino e tra lacrime e singhiozzi salutavano le carrozze dei patrioti in fuga che per sottrarsi alle persecuzioni politiche andavano al confine.

Mi sei apparsa così come in un cantico del Prati, e le nostre strade si sono divise in modo triste; e io mi comportai come un giovin uomo d'altri tempi: sentimentale e romantico...

Questo è quello che ho finto di essere, ma che in realtà non sono!



Analisi del testo

Questo lungo poemetto è in sestine di endecasillabi con rime ABBAAB.

La protagonista e Musa alla quale il poeta al contempo si rivolge e ispira è un giovane amore di Gozzano, molto particolare, come apprendiamo nel corso della lettura.
L’introduzione alla poesia, ossia i primi versi, già introducono un'atmosfera intima e raccolta, di complicità e affettività; tale effetto è dato dall'abbondante uso di aggettivi possessivi e dai due vocativi che si riprendono all'interno della stessa strofa: l'effetto che il poeta vuole dare è quello di far percepire la vicinanza fra sé e la giovane. È sera ed è proprio dalla sera che scaturiscono i ricordi, che legano strettamente l’amata al luogo in cui Gozzano era abituato a vederla, l’ambiente naturale. L’atmosfera rievocata è quella del mondo delle piccole cose, in cui ogni gesto ha il proprio senso sebbene sia quotidiano (la tostatura del caffè, i lavori di cucito, il canticchiare).
L’autore richiama alla mente con evidente dolcezza il paesaggio canavesano e Villa Amarena, questa è descritta come portatrice di un passato decrepito, e dà un senso di tristezza e desolazione, di abbandono (dato dal fatto che non sia curata esteticamente). Eppure è questo che le conferisce quel fascino indefinibile e quella bellezza suggestiva. La villa ha con sé una carica di malinconia, allo stesso tempo, ed è questo dualismo, questo perenne accostamento di sensazioni o elementi fra loro scostanti e dissonanti, peculiare nel Gozzano, che ha indotto Eugenio Montale ha definirlo "poeta per lo choc", per il contrasto. Lo scontro dei due modi di vita sulla facciata, nel salotto, nel giardino e nella soffitta di Villa Amarena corrisponde ad un proposito di ironizzare dell’aulico contaminato dal contatto col prosaico, e perciò ad una precisa scelta morale ed estetica. È l’insieme di questi contrasti, paradossalmente, a dare armonia alla scena e a costruire l'idea di semplicità – che è poi ciò da cui il poeta è attratto.
Segue l'introduzione del padre di Felicita, il classico borghese arricchito scaltro e quadrato che non persegue che il proprio utile; sembra perfino disposto a chiudere un occhio sugli amori della figlia pur di poter usufruire dei preziosi consigli dell’avvocato, che non manca di assillare con questioni di denaro e faccende legali.
Il ritratto della ragazza è assolutamente originale: dà una descrizione fisica che non è certo ricca di complimenti (Felicità è "quasi brutta", ha gli occhi di un "celeste stoviglia") si finisce comunque per averne un'idea positiva, questo perché il poeta amava in lei la voglia di piacergli. È una donna che si oppone ai canoni di bellezza del tempo e che nonostante tutto li supera, guadagnandosi l'interesse del narratore. È in questo contesto che ha luogo l’idillio fra i due e si capisce che è l’unico luogo dove esso può esistere (è a mio parere questa consapevolezza che dà all’intero poemetto la sensazione di malinconia). Felicita, come si è capito, è atipica: tra il ritratto neoclassico della marchesa dal profilo greco e il ciarpame che lo circonda, la musa di Gozzano predilige il secondo. E Felicita, che abita in un mondo di marchesi, arbusti e statue decadute, è un ideale di tranquilla vita borghese. Il che comunque non toglie che in lei si possa leggere il dissidio interiore fra vera tranquillità e tensione all'avventura.
Una delle più importanti conseguenze dell'ambiente irreale, quasi di sogno, in cui è ambientata la poesia, è lo straniamento del poeta, che respinge, come privi di senso, i miti del presente. Il distacco dalla vita si esplica nei versi che alludono alla politica (le formiche nere, le formiche rosse), all’attivismo che egli non può soffrire, ai programmi e alla lotta ideologica.
Traspare anche il tema della morte, che tranquilla è appoggiata su una parete in soffitta con le sembianze di una farfalla (si tratta dell’"atropo soletto") e che preannuncia il calare delle tenebre.
Nella quinta strofa prosegue l'idillio rustico in un luogo non meglio definito fra il giardino e l'orto; si fa spazio fra le righe la voglia di staccarsi dal proprio passato ("Ed io non voglio più esser io!") e sembra che essa scaturisca proprio dal senso di pacifico benessere che il poeta prova trovandosi in quel luogo e con quella persona, in un contesto che è così estraneo alla sua vita di sempre, ma che gli è anche così congeniale. La Signorina Felicita arriva a rappresentare, come indica il titolo stesso del poemetto, la felicità stessa, l’ultima speranza per Gozzano di potersi riappropriare di una vita autentica e felice che la letteratura ha contribuito ad allontanare sempre di più, e sarebbe anche disposto a rinnegare la sua fede letteraria dal momento che si vergogna pure di essere definito un poeta. Verso il finire del componimento, tuttavia, si fa largo la cruda realtà, che sta nell'impossibilità per i due protagonisti di vivere la propria gioia: l'appartenenza a ceti sociali differenti impedisce un amore sul quale, sin dal principio, non brillava una buona luce.
L'avvocato è poi malato. Malato in duplice senso. In primo luogo soffre d'una malattia fisica (la tisi?) che, soprattutto, getta un'aura malinconico-crepuscolare su tutta la vicenda e in particolare sull'ambiguo legame con Felicita (lei promette, lui sa che non tornerà perché gli resta poco da vivere - ma così vede le cose Felicita e così ama figurarsele l'avvocato che però, in fondo, sa che non tornerà anche per altri motivi). In secondo luogo la malattia dell'avvocato è una malattia morale, di chi vuole e non vuole (rinuncia alla guerra, rinuncia a essere un poeta, rinuncia alla morte e infine rinuncia alla Signorina Felicita), ma in fondo non sa desiderare realmente nulla, di chi non sa vivere autenticamente, né in fondo lo vuole davvero, compiaciuto com'è della propria ambigua condizione, di chi guarda a ogni sentimento e a ogni ideale - alla vita stessa - con garbato cinismo.



Figure retoriche

Analogia = scende la sera nel giardino antico della tua casa (vv. 2-3), nel mio cuore amico scende il ricordo (vv. 3-4).

Polisindeto = E ti rivedo ancora, e Ivrea rivedo e la cerule Dora e quel dolce (vv. 4-6). Ripetizione della congiunzione "e".

Parallelismo = O cuci i lini e canti e pensi a me (v. 10), E l'avvocato è qui che pensa a te (v. 12). In questo modo viene stabilito un legame sentimentale fra i due protagonisti.

Metafora = come una dama secentisca (v. 21-25). Come se la casa fosse una persona.

Accumulazione =  (vv. 25-30). Vengono usati una serie di termini linguistici accostati in modo caotico.

Sinestesia = odore d'ombra, odore di passato, odore di abbandono (vv. 28-29). Appartengono a sfere sensoriali diverse, l'ombra non fa odore, nemmeno il passato e l'abbandono.

Similitudine = ti fanno un tipo di beltà fiamminga (v. 78). La Signorina Felicita viene paragonata a una donna fiamminga per la somiglianza fisica.

Allitterazione = bianca bella (v. 137). Ripetizione di parole dal suono simile.

Figura etimologica = pensai questo pensiero (v.164). Accostamento di due o più parole che condividono la stessa radice etimologica.

Personificazione = Eguagliatrice (v. 187). Personificazione della morte.

Anastrofe = con proteso il cuore (v. 260). Le ultime due parole sono in ordine inverso.

Figura etimologica trillando un trillo (v. 288)

Allitterazione = trillando - trillo - fringuello (v. 288).

Epifonema = Donna: mistero senza fine bello! (v. 289). Riassume un discorso con una frase enfatica e solenne, posta generalmente alla fine.

Figura etimologica = vivere di vita (v. 306).



Commento

Il poeta ricorda i giorni felici e lontani trascorsi a Villa Amarena in compagnia di una donna semplice e spontanea, di cui si era invaghito fino a chiederle di sposarlo. In un tono nostalgico, ravvivato da spunti di vivace ironia, Gozzano tratteggia il tranquillo paese, la casa in cui Felicita vive, l’aspetto e la personalità della donna, che sembra incarnare un ideale di vita semplice, sana e tranquilla, lontana dal mondo cittadino sofisticato e artefatto cui appartiene il poeta. Quella donna, da cui il poeta non è tornato e non tornerà, gli ha donato l’illusione di un’esistenza autentica, che egli rievoca con sorridente nostalgia.

La signora Felicita ovvero la felicità è un'opera di Gozzano, e rientra nella corrente del crepuscolarismo. È un periodo nel quale i letterati hanno un "rigetto anti-dannunziano", e quest'opera ne è l'emblema: se per d'Annunzio la donna era "femme fatale", che ammaliava gli uomini, distogliendoli dal loro percorso superonistico, in gozzano la donna ha una bellezza quasi volgare, gli occhi non sono comparati al cielo o alle profondità del mare, ma sono di un "azzurro stoviglia"; Felicita è incolta e non ha fatto nemmeno la terza media (ha gli occhi "fermi", scambia l'alloro sulla testa di Torquato Tasso per un ramo di ciliegie...). Allo stesso tempo la critica a D'Annunzio si articola anche sulla concezione stessa della poesia: mentre prima era qualcosa di elevato e sublime, raggiungibile e apprezzabile solo da pochi, ora Gozzano scrive le sue rime in cucina, usando come "metronomo" il rumore delle stoviglie.
Inoltre il poeta non è più il grande esteta, idolatrato dal popolo, in vista, grande tra i grandi, ma è considerato inutile, tanto che il quadro di Torquato Tasso con l'alloro sta in soffitta, nella polvere, e osserva in modo distaccato gli avvenimenti del mondo (vedi vv. 190-192, le formiche rosse e nere intesi come opposti partiti politici), dove ormai imperversano i valori utilitaristici e materialisti borghesi.
In conclusione Gozzano analizza il dilemma classico della letteratura: Felicita, ragazza semplice, sculturata, che non si fa problemi e domande esistenziali, vive felice, in un modo in cui un poeta, un colto, non potrà mai essere, e se durante il testo Gozzano dà la sensazione di invidiare questa condizione, le ultime parole sono illuminanti: meglio soffrire per quello che si vede rendendosene conto, e come La ginestra di Leopardi, farsi sommergere a testa alta, titanicamente: "Quello che fingo d'essere e non sono!"
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