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Purgatorio Canto 22 - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del ventiduesimo canto del Purgatorio (Canto XXII) della Divina Commedia di Dante Alighieri.
Dante Alighieri con il divino poema volge lo sguardo verso la montagna del Purgatorio in un dipinto cinquecentesco

Analisi del canto

Il rapporto fra i personaggi
L'inizio del canto ristabilisce l'atmosfera di solenne religiosità che si era perduta nella scena del riconoscimento di Virgilio da parte di Stazio (canto ventunesimo) in quanto caratterizzata da affettuosa confidenza e di reciproca simpatia.
Sia Stazio che Dante sono uniti dal comune amore per l'arte che essi rappresentano, entrambi ammirano il modello di «bello stile» di Virgilio, l'amato maestro e padre; proprio per questo motivo dietro alle parole di Stazio è possibile intravedere l'esperienza e le idee di Dante.


Stazio salvato dall'Eneide
Stazio afferma di essersi ravveduto dal peccato di prodigalità meditando su un passo dell'Eneide. Si tratta di soli due versi che, isolati dal loro contesto, vengono percepiti come un avvertimento morale.


Mondo pagano e cristiano
Durante tutto il medioevo il criterio di lettura era quello di associare la poesia alla sapienza, pertanto in tutte le opere poetiche classiche si andavano a cercare segni di una moralità naturale, raggiunta senza l'aiuto della grazia, ma capace di elevare l'uomo al punto che possa riceverla. Mondo pagano e mondo cristiano in campo morale sono dunque visti come omogenei e complementari.
Le parole della quarta Bucolica di Virgilio sono sembrate a Stazio un preannuncio della venuta di Gesù Cristo e quindi lo hanno indotto ad avvicinarsi ai cristiani (Virgilio ne è stato inconsapevolmente profeta).
Così la pietà di Enea era inconsapevole sottomissione ai disegni della provvidenza divina, che aveva destinato l'impero romano alla guida politica del mondo (Inferno Canto II).
Anche la stoica religiosità di Catone del primo canto del Purgatorio non era che fede inconsapevole nel vero Dio, capace di meritargli la salvezza.


Lo stile
Degni di nota in questo canto, oltre alla presenza dell'angelo, gli elementi stilistici quali le parole latine (sitiunt) e latinismi (labore), e la ricercata costruzione sintattica con l'inversione di oggetto e verbo (quei c'hanno detto n'avea).



Commento

Continua e si approfondisce, in questo canto, l'amicizia fra Virgilio e Stazio; mentre Dante si riserva piuttosto un ruolo di spettatore. È un canto, anche, assai indicativo del modo in cui il nostro poeta, attingendo a letture e informazioni disparate, talvolta erronee o magari esilissime (un nome, un titolo), riesce a rivitalizzare tale bagaglio culturale in situazioni narrative e in invenzioni poetiche di grande suggestione. Con l'ausilio, al solito, dell'atteggiamento attualizzante così tipico della sua cultura e, in genere, della cultura medievale non tanto interessata, come si è osservato più volte, all'accertamento storico dei fatti e all'esattezza dei dati, quanto all'appropriazione ideologica della cultura antica. Così qui con l'invenzione del personaggio di Stazio. Infatti, non c'è uno straccio di fonte antica che possa suggerire a Dante l'idea di uno Stazio convertito alla fede cristiana, e dunque destinato al Purgatorio, e non al Limbo. È Dante stesso a riconoscere candidamente questa totale mancanza d'indizi, quando fa osservare a Virgilio che, a leggere i poemi di Stazio, Tebaide e Achilleide, uno non potrebbe indovinare davvero di avere a che fare con uno scrittore cristiano. Ma che importa? Dove la storia tace, e le fonti non possono essere spremute a dire quello che non volevano dire, Dante inventa di sana pianta. Ecco così confezionata la leggenda di san Stazio: il quale avrebbe cominciato ben presto a frequentare i cristiani; sarebbe rimasto ammirato delle loro virtù morali; ne avrebbe commiserato la sorte sotto le persecuzioni di Domiziano; e, infine, si sarebbe fatto battezzare, ma rimanendo chiuso cristian, senza cioè rivelare all'esterno la sua nuova fede e, anzi, continuando a seguire i riti pagani; mancanza che gli ha fatto trascorrere quattrocento anni nel girone degli accidiosi, cioè dei tiepidi credenti. In particolare, è significativo l'uso che lo Stazio di Dante fa di Virgilio, e dei suoi scritti, ai fini di delineare il suo percorso di vita e di conversione. Va da sé che l'Eneide è stata, come ha già detto nel canto precedente, mamma e nutrice per la sua poesia. Ma il suo stesso ravvedimento dal peccato di prodigalità e, in seguito, la sua stessa adesione alla fede cristiana, vengono fatti risalire alla meditazione di testi virgiliani: e poco importa se per il primo, l'invettiva famosa contro la cupidigia, la auri sacra fames, l'"esecranda fame dell'oro", è del tutto stravolta, e diventa invece un auspicio che la "santa voglia di una giusta ricchezza" guidi le azioni umane, preservandole non dalla cupidigia, ma dalla pazza prodigalità (che è quello, naturalmente, che interessa a Stazio). Quanto poi alla conversione, ci dobbiamo stupire se anche Stazio (come tutto il Medioevo) ha letto la IV egloga come una profezia dell'avvento del Salvatore, invece che come un festoso augurio per la imminente nascita del bambino di un amico di Virgilio? E, di conseguenza, se Stazio ne ha ricavato la conferma dell'avvento di una nuova fede? Tutta questa abusiva costruzione della leggenda di san Stazio, tuttavia, dà luogo (come sempre in Dante) a una situazione sentimentale e narrativa di profondo significato. Lo Stazio di Dante, infatti, finisce con l'essere una sorta di transfuga del Limbo, da lui evitato per merito di un Virgilio che, invece, ci è rimasto imprigionato per sempre; un Virgilio, per riprendere la bella immagine di Stazio stesso, che ha fatto come quei viandanti i quali, di notte, portano la lanterna alle loro spalle, e illuminano il cammino non per sé, ma per quelli che li seguono. Delicata e nuova variazione del paradosso incarnato nel personaggio di Virgilio, simbolo dei meriti e dei limiti del puro ben far umano. Ma che Stazio sia personaggio sfuggito di misura al Limbo lo dice la curiosità stessa con cui egli si informa del destino eterno di tanti letterati e poeti: Terenzio, Plauto, Cecilio, Vario; e la generosità con cui Virgilio completa la lista, riprendendo a distanza l'elenco del canto IV dell'Inferno: Omero, Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone... Molti di questi erano per lui meri nomi: ma Dante non resiste all'impulso di trasformarli, sia pure attraverso una breve menzione, in personaggi. E intanto, siamo arrivati alla sesta cornice. Uno strano albero, quasi un abete rovesciato, con la punta in basso e i rami più larghi e folti in alto, irrorato da una limpida acqua, ricco di pomi odorosi, si para davanti ai nostri tre poeti. Un albero parlante: appena ci si avvicina, dalle fronde esce una voce che proclama esempi di sobrietà nel bere e nel mangiare. Non ci vuole molto a capire che siamo entrati nel girone dei golosi.


VEDI ANCHE: Purgatorio Canto 22 - Figure retoriche



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