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Inferno Canto 18 - Parafrasi

Appunto di italiano riguardante la parafrasi del canto diciottesimo (canto XVIII) dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.
I ruffiani e seduttori, illustrazione di Gustave Doré

L’ottavo cerchio è interamente di pietra color ferro, diviso in dieci fosse dette Malebolge, in cui sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida; nella prima bolgia, sorvegliati da demoni cornuti, si trovano i seduttori per conto altrui (ruffiani), fra cui il mitico eroe Giasone; nella seconda, immersi nello sterco, gli adulatori, fra cui Alessio Interminelli da Lucca e la cortigiana Taide.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 18 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Nell'Inferno c’è un luogo chiamato Malebolge,
tutto in pietra scura come il ferro,
con lo stesso colore della parete di roccia (cerchia) che lo circonda (volge) tutto attorno.
Proprio (dritto) nel mezzo di tale distesa malvagia
si apre (vaneggia) un pozzo assai largo e profondo
di cui descriverò la struttura (l’ordigno) al momento (loco) opportuno (suo).
Quella fascia (cinghio), compresa tra il pozzo e la base dell’alta
parete rocciosa (dura), è circolare
e ha il fondo diviso in dieci bolge (valli).
Quale aspetto (Quale … figura), là dove a difesa delle mura
molti (più e più) fossati recingono i castelli,
offre (rende) il luogo (la parte) dove essi si trovano,
tale figura (imagine) qui facevano questi fossati;
e come dalle soglie (sogli) di tali fortezze
ci sono dei piccoli ponti levatoi verso la riva esterna (di fuor),
così dalla base di quella parete si dipartivano (movien)
i ponti rocciosi che attraversavano (ricidien) gli argini e i fossati
fino al bordo del pozzo che li interrompe (tronca) e li riunisce (raccogli).
In questo luogo ci trovammo, quando fummo scaricati dalle spalle
di Gerione; e il poeta voltò verso sinistra,
e io gli tenni dietro.
Sulla parte destra vidi un nuovo spettacolo di dolore (pieta),
un inconsueto tormento e strani frustatori,
dei quali era piena (repleta) la prima bolgia.
I peccatori stavano sul fondo completamente nudi;
dalla prima metà (del fossato) camminavano verso di noi,
dalla seconda metà nel nostro senso di marcia (con noi),
ma con un’andatura più sostenuta, come i Romani, a causa della grande folla (l’essercito molto),
nell’anno del giubileo, hanno escogitato un espediente
per far transitare la gente sul ponte (di Castel Sant’Angelo),
in modo che da un lato sono tutti rivolti
verso il castello e vanno verso San Pietro,
mentre dall’altra sponda (del ponte) vanno verso il monte.
Di qua, di là, su per la scura roccia (sasso)
vidi demoni con le corna muniti di grandi fruste (ferze),
che battevano impietosamente i dannati nelle parti posteriori (di retro).
Ahi come facevan levar le calcagna (berze)
dopo i primi colpi! nessuno più (già)
stava ad aspettare i secondi o i terzi colpi.
Mentre io procedevo, i miei occhi
incontrarono un peccatore; e io subito dissi:
«Non è la prima volta (non son digiuno) che vedo costui».
Per cui io mi fermai (i piedi affissi) per poterlo scrutare (a figurarlo);
e la guida premurosa si arrestò (si ristette),
e permise (assentio) che tornassi (gissi) un poco indietro.
E quello sottoposto a fustigazione credette
di nascondersi abbassando il viso; ma a poco gli servì,
per cui io dissi: «O tu che abbassi lo sguardo a terra,
se le fattezze (fazion) che mostri non sono ingannevoli,
tu sei Venedico Caccianemico.
Ma quale colpa (che) ti conduce a così pungenti pene (salse)?».
Ed egli a me: «Contro voglia ti rispondo;
ma m’inducono le tue parole (favella) chiare,
che mi fanno ricordare il tempo andato (antico).
Io fui il ruffiano che convinse (la sorella) Ghisolabella
a soggiacere alle voglie del marchese (Obizzo d’Este),
qualsiasi sia il modo in cui si racconta (suoni) la sconcia notizia.
E non sono il solo Bolognese che piange in questa bolgia (qui);
anzi questo luogo ne è così zeppo
che non ci sono adesso altrettante lingue che abbiano imparato (apprese)
a dire ‘sipa’ (cioè «sì» in dialetto bolognese) tra i fiumi Sàvena e Reno;
se di ciò vuoi aver conferma o testimonianza,
ricordati del nostro animo (seno) avaro».
Mentre così parlava, un diavolo
lo colpì con la sua frusta (scurïada), e disse: «Via, ruffiano!
qui non ci sono donne da sedurre per guadagnare denaro (da conio)».
Io (allora) raggiunsi la mia guida (scorta);
poi in pochi passi giungemmo
là dove un ponte in pietra (scoglio) si protendeva (uscia) dalla parete di roccia (ripa).
Vi salimmo con notevole facilità;
e, svoltando a destra su per la roccia scheggiata (scheggia),
ci allontanammo da quelle eterne sponde (cerchie).
Quando giungemmo là dove il ponte (el) forma un vuoto di sotto (vaneggia)
per permettere il passaggio ai dannati frustati,
la guida mi disse: «Fermati (Attienti), e mettiti in modo che cada (feggia)
su di te lo sguardo (viso) di questi altri disgraziati
dei quali non hai ancora visto la faccia
perché hanno seguito la nostra stessa direzione».
Dall’antico ponte osservavamo la fila (traccia)
che veniva verso di noi dalla parte (banda) opposta,
e che, come gli altri, è sospinta (scaccia) dalla frusta dei diavoli.
E il buon maestro, senza alcuna mia domanda,
mi disse: «Guarda quel grande che arriva,
e non sembra versi lacrime per il dolore:
quale portamento regale riesce ancora a mantenere (ritene)!
Quegli è Giasone (mitico capo degli Argonauti), che con il coraggio (cuore) e con l’astuzia (senno)
sottrasse (privati féne) agli abitanti della Colchide il vello del montone.
Egli passò per l’isola di Lemno,
dopo che (poi che) le audaci e spietate donne
uccisero tutti i loro uomini.
Qui con gesti e con parole di lusinga (ornate)
trasse in inganno Isifile, la giovane
che prima aveva ingannato tutte le altre donne (facendo loro credere di avere ucciso il proprio padre).
L’abbandonò poi gravida e sola;
questa è la colpa che lo condanna a tale tormento (martiro);
e si fa giustizia anche di Medea (anche lei ingannata da Giasone).
Con lui vanno coloro che ingannano in questo modo (da tal parte);
e basti sapere questo della prima bolgia
e di quelli che essa dentro strazia (assanna)».
Eravamo ormai giunti dove lo stretto passaggio (calle)
incrocia (s’incrocicchia) il secondo argine,
e fa di questo un sostegno (spalle) a un altro arco di ponte.
Di qui udimmo gente che si lamenta sommessamente (nicchia)
nell’altra bolgia e sbuffa rumorosamente (scuffa) con la bocca,
e si percuote con le mani.
Le rive della bolgia erano incrostate (grommate) di una muffa,
dovuta alla esalazione (alito) che dal basso vi aderisce (s’appasta),
che irritava (facea zuffa) il naso e gli occhi.
Il fondo è talmente profondo, che non esiste un luogo adatto
a vederlo se non si sale sul punto più alto (dosso) dell’arcata,
dove il ponte (scoglio) è più alto (più sovrasta).
Giungemmo qui; e da quel punto (quindi)
vidi giù nella bolgia gente immersa nello sterco
che sembrava proveniente (mosso) da latrine (privadi) umane.
E mentre frugavo con lo sguardo giù in basso,
vidi uno con il capo così carico di sterco,
per cui non si distingueva s’era laico o chierico.
Quegli forte mi gridò (sgridò): «Perché tu sei così avido (gordo)
di guardare me più degli altri insudiciati (brutti)?»
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già t’ho veduto quando avevi il capo asciutto,
e tu sei Alessio Interminelli di Lucca:
perciò (però) ti osservo (adocchio) più di tutti gli altri».
Ed egli allora, percuotendosi il capo:
«Mi hanno immerso qui sotto le adulazioni
per le quali non ebbi mai la lingua stanca (stucca)».
Dopo questo la guida mi disse: «Spingi (pinghe)
lo sguardo (viso) un poco avanti,
così che tu possa raggiungere (attinghe) bene con l’occhio
la faccia di quella sozza e scarmigliata meretrice (fante)
che si graffia là con le unghie insudiciate di sterco,
e ora s’accoscia e ora sta dritta.
È Taide, la prostituta che rispose
al suo amante (drudo) quando le chiese: "Sono io riuscito
a conquistare grandi meriti presso (apo) te?": "Grandissimi anzi!".
E di questo (quinci) i nostri occhi (viste) siano sazi».



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