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Inferno Canto 4 - Parafrasi

Appunto di italiano riguardante la parafrasi del canto quarto (canto IV) dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.
Dante vede i non battezzati

Dante si risveglia nel Limbo, dove stanno i non battezzati privi di colpe (di cui ne fa parte lo stesso Virgilio). Dante nota un certo turbamento nel volto della sua guida, al punto che interrompe per un attimo il cammino, ma Virgilio gli spiega che la sua non è paura bensì angoscia verso i dannati di quel cerchio. In seguito Virgilio lo conduce a un castello luminoso, al cui interno lo salutano Omero, Orazio, Ovidio e Lucano.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 4 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Mi interruppe il sonno profondo (l'alto) nella testa
un forte (greve) tuono, così che io mi risvegliai,
come chi è destato bruscamente (per forza);
e volsi intorno lo sguardo (l’occhio) riposato,
levatomi in piedi (dritto levato), e guardai con attenzione (fiso)
per riconoscere il luogo dov’ero.
Certo è che mi trovai sull’orlo (proda)
di quella cavità infernale (valle d’abisso) piena di sofferenza (dolorosa)
che raccoglie (accoglie) il fragore (’ntrono) di lamenti (guai) senza fine.
Era buia, profonda e nebbiosa,
tanto che, per quanto aguzzassi la vista (viso) in profondità,
io non distinguevo nulla.
«Ora discendiamo giù nel mondo senza luce (cieco)»,
cominciò a dire il poeta molto pallido.
«Io camminerò davanti, e tu mi seguirai».
E io, che mi ero accorto del suo pallore (color),
dissi: «Come potrei seguirti, se hai paura (paventi)
anche tu, che sei solito essere sostegno (conforto) al mio esitare (dubbiare)?».
Ed egli a me: «È l'angoscia per la condizione delle anime
che qui si trovano, a riflettermi sul viso
quella pietà da te intesa come paura (tema).
Andiamo, poiché ci incalza (sospigne) un lungo cammino».
Così dicendo entrò (si mise) e mi introdusse
nel primo cerchio (si tratta del Limbo) che circonda (cigne) il baratro infernale.
Qui, per quanto si riusciva a sentire,
non c'era (non avea) pianto ma soltanto (mai che) sospiri
che facevano tremare l'aria di quel luogo eterno;
questo accadeva per le sofferenze non dovute a tormenti fisici (martìri),
che pativano quelle schiere, che erano molte e numerose,
di bambini, di donne e uomini (viri).
Il buon maestro mi disse: «Non mi domandi
chi sono questi spiriti che vedi?
Ora io voglio che tu sappia, prima che tu proceda (andi) oltre,
che essi non peccarono; il fatto che abbiano dei meriti (mercedi),
non è sufficiente (per essere salvati), perché non ricevettero il battesimo,
che è l'accesso indispensabile (la porta) della fede in cui tu credi;
e se sono vissuti prima del cristianesimo,
non adorarono Dio in modo dovuto (debitamente):
e tra costoro sono io stesso.
Per tale mancanza (difetti), non per altra colpa (rio),
siamo condannati (perduti), puniti (offesi) soltanto in questo:
che viviamo nel desiderio (della salvezza) senza speranza».
Un grande dolore mi strinse il cuore quando lo ascoltai,
perché capii che anche genti di grande valore
erano sospese (tra il desiderio della salvezza e la dannazione, tra l’assenza di gioia e l’assenza di dolore) in quel Limbo.
«Dimmi, maestro mio, dimmi, signore»,
cominciai io a dire, volendo essere confermato
con quella fede che supera ogni dubbio (errore):
«di qui è mai uscito qualcuno per merito proprio
o di altri, che poi fosse beato (salisse al Paradiso)?».
Ed egli, che aveva inteso il mio parlare per allusioni (coverto),
rispose: «Mi trovavo ancora da poco tempo in questa condizione,
quando vidi giungere un potente,
coronato con l’emblema della vittoria (si riferisce a Cristo, disceso agli Inferi dopo la morte in croce e prima della resurrezione).
Trasse di qui (Trasseci, portò via dal Limbo) l'anima (l'ombra) di Adamo, primo padre (parente) dell'umanità,
di suo figlio Abele e di Noè,
di Mosè legislatore e ubbidiente;
il patriarca Abramo e il re Davide,
Giacobbe (Israèl) con il padre Isacco e i figli
e la moglie Rachele, per sposare la quale per lungo tempo (tanto) lavorò (fé),
e insieme molti altri, e li rese beati.
E voglio che tu sappia che, prima di loro (dinanzi ad essi),
nessun uomo si era salvato».
Non interrompevamo il cammino perché egli parlava,
ma attraversavamo ancora (tuttavia) la selva,
la selva, voglio dire, affollata (spessi) di anime.
Non avevamo ancora percorso un lungo tratto di strada dal punto in cui ero caduto
per il sonno, quando vidi un fuoco
che vinceva le tenebre formando un emisfero illuminato.
Eravamo ancora un poco distanti di lì,
ma non tanto che io non scorgessi, almeno in parte,
che in quel luogo (la zona illuminata) dimorava gente degna di onore (orrevol).
«O tu che onori la dottrina e l’arte,
chi sono costoro che ricevono un tale onore
che li separa (diparte) dalla condizione (modo) degli altri?».
Ed egli a me: «La onorevole fama (nominanza) di loro,
che risuona ancora nel mondo terreno dove tu vivi,
ottiene a essi meriti in cielo che così li privilegia».
Intanto da me (per me) fu udita una voce:
«Onorate l’altissimo poeta;
torna il suo spirito (l’ombra sua) che si era allontanato (dipartita)».
Dopo che la voce si interruppe e si spense,
vidi venire verso di noi quattro grandi ombre:
avevano un aspetto né triste né lieto.
Il buon maestro cominciò a dire:
«Osserva quello con la spada in pugno,
che precede gli altri tre come loro signore (sire):
quello è Omero, il sommo poeta;
l’altro che segue è Orazio, il poeta satirico (satiro);
Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano.
Poiché ognuno ha in comune (si convene)
con me il nome che quella voce solitaria ha fatto risuonare (cioè l’appellativo e la condizione di sommo poeta),
mi rendono onore, e fanno bene».
Così io vidi riunirsi quella prestigiosa compagnia (scola)
di quel maestro (segnor) della più eccelsa poesia (canto)
che si innalza sugli altri come l’aquila vola (più alta degli altri uccelli).
Dopo che ebbero parlato (ragionato) alquanto insieme,
si rivolsero a me con un cenno di saluto;
il mio maestro sorrise di questo;
e mi fecero (fenno) ancora più onore,
perché mi accolsero nella loro schiera,
in modo che io fui sesto fra poeti di tanto ingegno (senno).
Arrivammo così fino alla luce (lumera),
discorrendo di cose che è bello passar sotto silenzio,
così com’era bello parlarne là dove mi trovavo.
Giungemmo ai piedi di un nobile castello,
circondato (cerchiato) da sette cerchi di alte mura,
difeso tutto intorno da un bel corso d’acqua.
Lo attraversammo come fosse terra asciutta (dura);
Io entrai con questi savi attraverso sette porte:
giungemmo in un prato di tenera erba (verdura).
Lì vi erano persone dallo sguardo posato e solenne,
con grande autorità nell’aspetto.
Parlavano pacatamente (rado), con voce soave.
Ci mettemmo (Traemmoci) così su uno di quei lati (canti),
in un luogo aperto, illuminato dal sole ed elevato,
in modo da poterli vedere tutti.
Là, di fronte a me (diritto), sopra il verde prato (smalto),
mi furon mostrati gli spiriti magnanimi,
ed esulto nel mio intimo (in me stesso) per averli veduti.
Vidi Elettra con molti compagni,
tra i quali riconobbi Ettore ed Enea,
Cesare in armi dagli occhi minacciosi e fieri (grifagni).
Vidi Camilla e la Pentesilea;
dalla parte opposta vidi il re Latino che
sedeva insieme a sua figlia Lavinia.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio il Superbo (l’ultimo re di Roma),
Lucrezia (moglie di Collatino), Giulia (figlia di Giulio Cesare), Marzia (moglie di Catone l’Uticense), Cornelia (madre dei fratelli Gracchi);
e da solo, in disparte (in parte), vidi il Saladino (sultano d’Egitto).
Dopo che sollevai un poco gli occhi,
vidi il maestro di tutti i sapienti (Aristotele) sedere
in mezzo al gruppo di filosofi (filosofica famiglia).
Tutti lo ammirano e tutti gli fanno onore:
qui vidi Socrate e Platone che,
davanti a tutti gli altri, gli stanno più vicini (più presso);
vidi Democrito che ritiene (pone) il mondo nato dal caos (a caso),
Diogene, Anassagora e Talete,
Empedocle, Eraclito e Zenone;
e vidi l’abile classificatore delle qualità (del quale) delle erbe,
Dioscoride, voglio dire; e vidi Orfeo,
Tullio (Cicerone), Lino (mitico poeta greco) e Seneca, il filosofo morale;
Euclide studioso di geometria e Tolomeo (l’astronomo),
Ippocrate (medico greco), Avicenna (filosofo arabo) e Galeno (medico e filosofo greco),
Averroè (filosofo arabo), che fece il famoso commento (al pensiero di Aristotele).
Non posso riferire di tutti in modo esauriente (a pieno),
poiché l’ampio argomento (il lungo tema) mi incalza (mi caccia),
tanto che la narrazione molte volte trascura (vien meno) i fatti.
La compagnia dei sei (sesta) poeti diminuisce (si scema) di due:
per un cammino diverso mi conduce la saggia guida,
lontano da quel luogo di pace verso dove l'aria trema (di sospiri e lamenti).
E giungo in una parte dove non c'è nulla che sia illuminato.



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