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Inferno Canto 13 - Parafrasi

Appunto di italiano riguardante la parafrasi del canto tredicesimo (canto XIII) dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.
L'arbusto sanguinante, illustrazione di Gustave Doré

Passato a guado il Flegetonte, Dante e Virgilio vengono lasciati dal centauro ai margini di un bosco assai strano: una selva di alberi contorti e di colore fosco, spogli di verde e irti di spine attossicate, senza frutti. Qui le Arpie hanno i loro nidi. Penosi lamenti provengono dalla selva e Dante ne è turbato. Virgilio lo invita a staccare un ramoscello da un pruno e subito il tronco comincia a sanguinare e a rimproverare l’esecutore di quel gesto crudele. L’anima si presenta come Pier della Vigna e, oltre alla sua storia personale, spiega a Dante la pena delle anime dei suicidi di quella selva. Intanto Dante e Virgilio scorgono due spiriti nudi che fuggono scompigliando i cespugli. Sono due scialacquatori (Lano da Siena e Iacopo da Sant’Andrea) inseguiti da cagne nere e fameliche, che addentano e sbranano Iacopo, che aveva tentato di mettersi al riparo dietro a un cespuglio.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 13 dell'Inferno. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

Nesso non era ancora giunto dall’altra sponda (di là),
quando noi ci inoltrammo (ci mettemmo) in un bosco
non segnato da nessun (neun) sentiero.
Le fronde non erano verdi, ma di colore cupo (fosco);
non rami diritti (schietti), ma nodosi e contorti (’nvolti);
non c’erano frutti (pomi), ma spine (stecchi) con veleno (tòsco).
Non hanno dimora tra sterpi così intricati e folti
neppure quelle selvagge fiere che tra
Cecina e Corneto fuggono (’n odio hanno) i luoghi coltivati.
Qui nidificano le repellenti (brutte) Arpie,
che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi
con un funesto annuncio di una sventura (danno) prossima.
Hanno ampie (late) ali e collo e aspetto umani,
zampe (piè) con artigli, e il grande ventre coperto di penne (pennuto);
emettono suoni lamentosi e orribili (strani) sugli alberi.
E il buon maestro cominciò a dirmi: «Prima che ti addentri (più entre),
sappi che ti trovi nel secondo girone,
e vi rimarrai finché (mentre che)
non sarai giunto nell’orribile spiaggia (sabbione).
Guarda dunque (Però) attentamente; così vedrai
cose che toglierebbero (torrien) credibilità (fede) alle mie parole (sermone)».
Io sentivo lamenti (guai) levarsi (trarre) da ogni parte
e non vedevo nessuno che li emettesse (’l facesse);
per cui tutto smarrito mi arrestai.
Io credo che egli (Virgilio) pensasse
che io avessi dedotto che le numerose (tante) voci, in mezzo a quei cespugli (bronchi),
provenissero da gente che a (per) noi si nascondeva.
Perciò (Però) il maestro disse: «Se tu tronchi
qualche ramoscello (fraschetta) di una di queste (este) piante,
anche i tuoi pensieri si riveleranno tutti vani (monchi) (e scompariranno)».
Allora protesi (porsi … avante) la mano un poco
e colsi un ramoscello da un gran pruno;
e il tronco gridò: «Perché mi spezzi (schiante)?».
Dopo che divenne scuro (bruno) per il sangue,
ricominciò a dire: «Perché mi laceri (scerpi)?
non hai tu alcun sentimento (spirto) di pietà?
Siamo stati uomini, e ora siamo trasformati in sterpi:
la tua mano dovrebbe essere ben più pietosa (pia),
se fossimo state anime di serpenti».
Come da un tizzone (stizzo) verde che sia acceso
da una estremità (capi), e dall’altra trasuda (geme)
e stride (cigola) per il vapore (vento) che fuoriesce (va via),
così dal tronco (scheggia) spezzato uscivano insieme
parole e sangue; allora io lasciai cadere l’estremità del ramo (cima),
e rimasi immobile (stetti) come chi è pieno di timore.
«Se egli avesse potuto credere prima»,
rispose la mia saggia guida (savio), «o anima offesa (lesa),
ciò che ha veduto soltanto (pur) nella mia poesia (rima),
non avrebbe allungato (di stesa) la mano contro di te;
ma la realtà incredibile mi costrinse (mi fece)
a indurlo a un gesto che dispiace (pesa) anche a me.
Ma spiegagli (dilli) chi fosti tu, in modo tale
che come riparazione (ammenda) rinverdisca il tuo ricordo
lassù nel mondo, dove gli è possibile (li lece) tornare».
E il tronco: «Mi alletti (m’adeschi) a tal punto col tuo cortese parlar,
che io non posso tacere; e a voi non sia gravoso (non gravi)
che io m’attardi (m’inveschi) a conversare un poco.
Io sono colui che tenne entrambe le chiavi
del cuore di Federico, e le adoperai (volsi)
aprendo e chiudendo, in modo così soave,
che allontanai (tolsi) dalla sua intimità (secreto suo) ogni altro;
restai fedele (fede portai) all’onorevole incarico (glorïoso offizio),
tanto che persi la pace (sonni) e la vita (polsi).
La meretrice che mai allontanò i suoi occhi disonesti (putti)
dalla corte (ospizio) imperiale (di Cesare),
causa di rovina (morte) per tutti (comune) e vizio delle corti,
infiammò gli animi di tutti contro di me;
e coloro che ardevano d’invidia infiammarono così l’imperatore (Augusto)
che i lieti incarichi si trasformarono in tristi lutti.
Il mio animo, per un amaro piacere (disdegnoso gusto),
credendo con la morte di fuggire la vergogna (disdegno),
fece sì che commettessi contro di me, giusto, un atto ingiusto.
Vi giuro sulle recenti (nove) radici di questo albero (legno)
che non ho mai rotto la fedeltà
al mio signore, che fu sì degno di onore.
E se qualcuno di voi ritorna (riede) nel mondo,
riscatti (conforti) la mia memoria, che giace
ancora sotto il colpo infertole dall’invidia».
Il poeta attese un poco e poi mi disse:
«Dal momento che egli (Da ch’el) tace, non perdere tempo (l’ora),
ma parla e interrogalo, se hai desiderio di sapere altre cose (più)».
Per cui io a Virgilio: «Richiedigli tu quello che
credi mi possa soddisfare (satisfaccia);
perché io non potrei, tanta è l’angoscia che mi accora».
Perciò egli ricominciò: «Possa (Se l’om) spontaneamente accadere (ti faccia)
quanto le tue parole (’l tuo dir) hanno espresso (priega),
o spirito incarcerato, perciò acconsenti di dirci (dirne)
ancora come l’anima si congiunge
con questi nodosi arbusti (nocchi); e dicci, se puoi,
se mai qualche anima si libera (si spiega) da queste (tai) membra».
Allora il tronco soffiò forte, e poi
quel vento si trasformò (si convertì) in tali parole (cotal voce):
«Brevemente sarà data a voi risposta.
Quando l’anima crudele (feroce) si allontana (si parte)
dal corpo da cui (ond’) lei stessa si è separata (disvelta),
Minosse la invia nel settimo cerchio (foce).
Precipita nella selva, e non c’è luogo prestabilito (parte scelta);
ma dove la fortuna la scaglia (balestra),
germoglia, come il seme di spelta.
Si sviluppa (Surge) in pianticella (vermena) e poi in cespuglio selvatico:
le Arpie, cibandosi delle sue foglie,
procurano dolore, e insieme sfogo (fenestra) al dolore.
Come tutte le altre anime verremo per riprendere i nostri corpi (nostre spoglie),
ma non per questo alcuna se ne rivestirà,
poiché non è giusto avere quello di cui ci si è privati.
Li trascineremo qui, e sparsi per la triste
selva i nostri corpi saranno appesi,
ognuno al pruno nato dalla sua anima (ombra) ostile (molesta)».
Noi eravamo ancora attenti (attesi) all’albero,
pensando ci volesse dire altro,
quando fummo sorpresi da un rumore,
come colui che sente sopraggiungere il cinghiale (’l porco),
la muta dei cani e i battitori (caccia) verso il luogo dov’è appostato (posta),
poiché sente i cani (le bestie) e le frasche stormire.
Ed ecco due dalla parte (costa) sinistra,
nudi e graffiati, fuggivano così veloci,
che rompevano ogni fronda (rosta) della selva.
Quello dinanzi (gridava): «Ora vieni (accorri), vieni, morte!».
E l’altro, a cui pareva di procedere troppo lentamente (tardar troppo),
gridava: «Lano, non furono così leste (accorte)
le tue gambe alla battaglia (a le giostre) presso il Toppo!».
E dopo che forse gli venne meno (fallia) il respiro (lena),
un solo groviglio (groppo) fece di sé e di un cespuglio.
Dietro loro la selva era piena
di cagne nere, avide e veloci (correnti)
come veltri liberi dalla catena.
Affondarono (miser) i denti in quello che si era nascosto (s’appiattò),
e lo dilaniarono pezzo per pezzo;
poi si portaron via (sen portar) quelle membra dolenti.
La mia guida (scorta) mi prese allora per mano,
e mi condusse (menommi) vicino al cespuglio che piangeva
inutilmente attraverso le sanguinanti ferite (le rotture).
Diceva: «O Iacopo da Sant’Andrea,
a che cosa t’è servito farti riparo (schermo) di me?
Che colpa ho io della tua vita malvagia?».
Quando il maestro si fermò vicino a lui (fu sovr’esso fermo),
disse: «Chi fosti tu che dalle cime dei rami spezzati (tante punte)
fai uscire (soffi) con il sangue parole di dolore?».
Ed egli (elli) a noi: «O anime che siete giunte
a vedere lo scempio (strazio) crudele (disonesto)
che ha separato (disgiunte) da me in tal modo le mie fronde,
raccoglietele ai piedi del mio sventurato (tristo) cespuglio (cesto).
Io fui originario della città (Firenze) che mutò con il Battista
il suo primo protettore (padrone); perciò questi
l’affliggerà (farà trista) sempre con la sua arte della guerra;
e se non fosse che sul ponte (passo) dell’Arno
rimane ancora una sua immagine (vista),
quei cittadini che la ricostruirono
sulle rovine (ceneri) che Attila lasciò,
avrebbero compiuto un inutile lavoro.
Io mi impiccai (fei gibetto) nelle mie case».



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