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Inferno Canto 13: analisi, commento, figure retoriche

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del tredicesimo canto dell'Inferno (Canto XIII) della Divina Commedia di Dante Alighieri.
L'arbusto sanguinante, illustrazione di Gustave Doré

Il canto è ambientato nella selva dei suicidi, luogo in cui Dante ha modo di vedere in azione le Arpie, che aggrediscono gli scialacquatori, cioè coloro che in vita hanno sciupato il loro patrimonio (tra cui Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea) e dialogare con Pier della Vigna, che ha assunto le sembianze di una pianta.



Analisi del canto

Il ritmo della narrazione del canto cambia a seconda dell'argomento narrato: 
  • lento e statico nella prima parte, dove viene descritta l'inquietante selva dei suicidi (vv. 1-108), 
  • dinamico e violento nella seconda parte con l'improvvisa apparizione dell'inseguimento degli scialacquatori da parte delle cagne fameliche (vv. 109-151).


Uno schema che si ripete
In questo canto vi è una costante strutturale (ovvero scene già viste nei precedenti canti):
  • la presenza del custode del cerchio, in questo caso i custodi, dal momento che le Arpie sono più di una. Quelli incontrati in precedenza da Dante sono Caronte, Minosse e Cerbero, tutti personaggi mostruosi della mitologia pagana che Dante li ha convertiti in creature demoniache;
  • la descrizione della pena per contrappasso (vv. 94-108); 
  • l'incontro con uno dei dannati, Pier della Vigna, 
  • la richiesta di Pier della Vigna che vuole che si continui a parlare di lui nel mondo terreno (e Dante infatti ne parla in questo canto). Richieste simili già ricevute da Ciacco (Inferno Canto VI), da Cavalcante Cavalcanti e da Farinata degli Uberti (Inferno Canto X).


La selva dei suicidi
La selva dei suicidi, come già lascia intendere il suo nome, è un ambiente cupo e inquietante. Quindi un'altra selva negativa dopo la selva oscura incontrata nel Canto I dell'Inferno. A rendere ancora più forte quella sensazione di suspense ci pensa Viriglio dicendo a Dante che "vedrà cose che toglieranno credibilità alle sue parole", cioè qualcosa di straordinario. Quello che vede sono i dannati con le sembianze di alberi dai rami contorti, perché contorta è stata la loro mentalità nella vita terrena. Le anime sono state degradate a vegetali, e nemmeno dopo il giudizio universale si riuniranno al loro corpo in quanto lo hanno disprezzato scegliendo il suicidio. Quel giorno i loro corpi penzoleranno dai rami, immagine macabra che rappresenta uno dei metodi di suicidio più comuni: l'impiccagione.


Pier della Vigna e il mondo della corte
Protagonista del canto è Pier della Vigna, che per contrappasso ha assunto le sembianze di una pianta. È stato un politico, scrittore e letterato italiano del Regno di Sicilia al servizio dell'Imperatore Federico II di Svevia. Il suo tono elevato e gentile rivela un animo nobile e moralmente risentito: da un lato egli afferma di essere sempre stato leale nelle sue scelte politiche, per la fedeltà verso l'imperatore, dall'altro condanna la corruzione della vita di corte e l'ingiustizia dei giudizi umani. Da questa descrizione possiamo vedere come Dante lo difenda per la sua condotta politica e ne rievoca il suo ricordo, ma prende le distanze sia dall'ambiente di corte diventato corrotto e ingannevole (anche se inizialmente lo ammirava per gli ideali di fedeltà, cortesia, dignità e giustizia) sia verso la scelta di Pier della Vigna di suicidarsi in quanto anche Dante ha vissuto una situazione simile ma non ha ceduto nemmeno in situazioni difficili come quando venne bandito da Firenze per la sua attività politica tra i Guelfi Bianchi, quando presero il potere i Neri.


Il suicida fiorentino
Dante incontra un altro dannato nelle sembianze di cespuglio che dice di essere anch'egli originario di Firenze, vittima di continue guerre, e come tanti fiorentini che in quegli anni di boom economico spendevano fino a dilapidare tutto il patrimonio si tolse la vita impiccandosi nella propria casa.




Commento

Una foresta intricata, rami nodosi e intrecciati, un'atmosfera cupa e sinistra: è la selva dei suicidi. Basta spezzare un ramo per accorgersi che imprigiona quella che un tempo era una vita umana, perché dallo sterpo spezzato escono parole e sangue. Disperati, i suicidi disprezzarono a tal punto il proprio corpo da privarsene deliberatamente e ora, fatti sterpi, sono condannati a mantenere l'anima in eterno prigioniera di un vegetale. La tristezza di questi dannati si sprigiona già dalla lugubre ambientazione e si concentra sulla tragica figura di Pier della Vigna. Notabile alla corte di Federico II in Sicilia, per l'invidia degli altri cortigiani cadde in disgrazia del sovrano e fu accusato di alto tradimento. Rinchiuso in carcere a Cremona e accecato, si uccise per disdegnoso gusto. Il suicidio acquista per Pier della Vigna il gusto sadico della vendetta perpetrata contro una persona profondamente amata e poi intimamente odiata per l'ingiusta sofferenza inflittagli. Ma, come è nella psiche tortuosa e contraddittoria dei suicidi, di fatto la vendetta si consuma contro la loro stessa persona. L'amore si è trasformato in un odio autodistruttivo. Le stesse nodosità che intrecciano i rioni della foresta attestano un pensiero contorto, un'emotività avvolgente. In realtà Pier della Vigna non solo non assolve pienamente il suo bisogno di vendetta contro coloro che ingiustamente lo condannarono, ma si aliena completamente l'amicizia di Dio: perde contemporaneamente la vita terrena e la vita eterna. Dante deve condannarlo perché ha disperato di Dio, commettendo una delle colpe più gravi per un cristiano. Il poeta fiorentino, che forse più di una volta, nei tragici momenti dell'esilio, pensò al suicidio, analizza molto bene questa problematica. La disperazione è una cattiva consigliera: ottenebra la mente, gonfia il cuore, disponendolo a una violenza estrema contro natura.
Durante il suo viaggio verso la salvezza, Dante saprà che le grandi braccia di Dio sono infinite, che nel suo amore si placa ogni ingiustizia, che la sofferenza è strumento di perfezione, se sopportata con fede. Ora sa soltanto che il suicidio nega la ragione umana, perché, come racconta Pier della Vigna, "ingiusto fece me contra me giusto". Canto di dolore e di tristezza, il XIII dell'Inferno si conclude con un'altra annotazione di ordine e morale: scialacquare è un po' lasciarsi dilaniare dai propri indomabili istinti. Le cagne affamate che straziano gli scialacquatori inseguiti, braccati e poi fatti a brandelli, testimoniano che, anche nello spreco di proprietà, c'è una perdita della luce della ragione: i beni terreni vanno usati per un fine costruttivo utile a sé e alla comunità; chi li disperde in modo assurdo non fa che confermare la propria soggezione a un istinto autodistruttivo. Ecco perché anche gli scialacquatori si trovano nella selva dei suicidi: la loro presenza attesta che le passioni di qualsiasi tipo, lasciate libere di crescere e svilupparsi a dismisura, al dì là di ogni ragionevole presa di coscienza, si ritorcono contro l'uomo, inchiodandolo alla sua condizione di infelicità, prima terrena e poi eterna.



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del tredicesimo canto dell'Inferno.  Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 13 dell'Inferno.


Non
= anafora (vv. 1, 4, 7). NON fronda, NON rami, NON porni.

Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco = antitesi (vv. 4-6).

Pennuto ’l gran ventre = anastrofe (v. 14). Sta a significare "gran ventre piumato".

Fanno lamenti in su li alberi strani = iperbato (v. 15). Cioè non sono strani gli alberi bensì i lamenti; il significato è "emettono suoni lamentosi e orribili (strani) sugli alberi".

Cred’io ch’ei credette ch’io credesse = poliptoto (v. 25). Perché si ripete la stessa parola a breve distanza ma con significati diversi.

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi...se state fossimo anime di serpi = chiasmo (v.37 e v.39).

Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme = similitudine (vv. 40-45). Sta a significare "Come quando si brucia un ramoscello verde da una delle estremità, e dall'altra cola la linfa e si sente un cigolio in quanto esce dell'aria, così dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue; allora io lasciai cadere il ramo spezzato e restai lì pieno di timore.".

La mia rima = sineddoche (v. 48). La parte per il tutto.

Adeschi...inveschi = paronomasia (vv. 55-57).

Non gravi = litote (v. 56). Sta a significare "non sia fastidioso".

Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo = metafora (vv. 58-59). Sta a significare "Io sono colui che tenni entrambe le chiavi del cuore di Federico II".

La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio = metafora (vv. 64-66). Sta a significare "La prostituta (invidia) che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore, e che è morte di tutti e vizio delle corti".

Fede portai = anastrofe (v. 62). Sta a significare "portai fede, fui fedele".

'Nfiammati infiammar = poliptoto (v. 68). Sta a significare "infiammarono a loro volta".

Lieti...tristi = antitesi (v. 69).

Ingiusto...giusto = paronomasia (v. 72).

Vi giuro che già mai non ruppi fede = antitesi (v. 74). Sta a significare "vi giuro che non fui mai infedele".

Quivi germoglia come gran di spelta = similitudine (v. 99). Sta a significare "lì germoglia come un seme di farro".

Fanno dolore, e al dolor fenestra = chiasmo (v. 102). Sta a significare "provocano dolore e insieme sfogo al dolore".

Bramose e correnti come veltri ch’uscisser di catena = similitudine (vv. 125-126). Sta a significare "correvano affamate come cani da caccia scatenati".

I’ fui de la città che nel Batista mutò il primo padrone = perifrasi (vv. 143-144). Per indicare Firenze.



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