di Eugenio Montale
Anno: 1954
Temi: le persecuzioni politiche nei regimi totalitari – il dilemma se rendersi complice del delitto o soccombere – la fantasia poetica come compenso alla triste realtà – l’attesa della donna
Il sogno del prigioniero, scritta nel 1954, è l’ultima poesia della Bufera. Montale immagina che a parlare sua un prigioniero politico, perseguitato in un gulag (campo di concentramento) staliniano, realtà di cui proprio allora si cominciavano ad avere notizie. Montale stesso però invita a scorgere in questo prigioniero non semplicemente un perseguitato politico, ma più in generale una vittima della condizione umana nella società di massa e, in senso ancora più lato, nella vita. Questo prigioniero è soprattutto l’intellettuale, lo scrittore, ristretto in una situazione senza vie di scampo e al quale rimane aperta solo una via, quella del sogno. E’ dunque la poesia questo sogno del prigioniero di cui parla il titolo: sogni di un <altrove> in cui la realtà sia sublimata e riscattata, sogno (o attesa dice Montale) di qualcuno (la donna? Dio?) che sappia conferire pieno significato alla vita e alla storia.
SCHEMA METRICO: cinque strofe (la prima costituita da un solo verso) composte di versi endecasillabi (spesso, però, ipermetri) o da versi più lunghi (fino a un massimo di 13 sillabe). Compaiono talora rime anche interne; numerose le assonanze.
Parafrasi
[Versi 1-10] Nella prigione le albe e le notti si distinguono tra loro soltanto per pochi particolari. Il volo irregolare degli uccelli sulle torri di guardia (battifredi) nei giorni di battaglia, mie uniche ali, uno spiffero di gelida aria dal Polo Nord, l’occhio della guardia che mi sorveglia dallo spioncino, un rumore (crac) di noci frantumate, il frigorifero dell’olio dai forni (dalle cave), e poi girarrosti veri o presunti – ma la paglia è come oro, la luce rossastra della lampada è come un focolare, se mentre dormo posso credere di essere accanto a te.
[Versi 11-17] L’epurazione è antica come il mondo e non ha vere ragioni. Si dice che chi rinnega le proprie idee e dichiara il falso può salvarsi da questo massacro di essere indifesi; che chi fa autocritica, ma al tempo stesso tradisce e per salvarsi denuncia altri uomini, impugna il cucchiaione, invece di finire lui stesso nel cibo preparato per gli dei crudeli.
[Versi 18-30] Privo di lucidità intellettuale, ferito dal pagliericcio che punge, mi sono identificato con il volo della tarma che la mia scarpa schiaccia sul pavimento della cella, nei kimoni che hanno i colori variopinti e mutevoli delle luci sparse all’alba dalle torri; ho ispirato nel vento il puzzo di bruciato delle ciambelle prodotte nei forni, mi sono guardato attorno: ho immaginato arcobaleni sull’orizzonte di ragnatele e petali di fiori sulle sbarre della cella, mi sono rialzato in piedi, sono ricaduto sul fondo dove il minuto dura quanto un secolo;
[Versi 31-34] e si susseguono continuamente i colpi e i passi e non so ancora se al banchetto sarò il cuoco o il cibo. L’attesa è lunga, il mio sogno di te non è ancora spento.
Analisi del testo
La prima parte occupa le prime tre strofe (vv.1-17) e descrive il triste stato di prigionia dell’io-narrante, insieme prigioniero e poeta, vittima e potenziale carnefice dei suoi compagni di sventura. Già i vv.8-10 alludono però al sogno di libertà che l’io concepisce pur in quella situazione di ristrettezza e frustrazione.
Quest’ultimo tema è ripreso e sviluppato nella seconda parte della poesia, coincidente con la quarta strofa. Essa è interamente dedicata al parallelo sogno-poesia e a un bilancio della vita e dell’attività poetica dell’io-narrante.
La terza e ultima parte è occupata dalla quinta, breve strofa (vv.31-34). Dapprima (vv. 31-33) essa rinvia alla situazione di prigionia descritta all’inizio. Il finale però ribadisce la fedeltà dell’io al proprio sogno e all’attesa della donna, in cui egli identifica la propria speranza.
Commento
Il componimento tratta a un primo livello una tematica politica riferibile alle purghe staliniane. Vi è chi per sfuggire alla tortura e alla morte, può solo tradire altri uomini, diventando complice dei carnefici e passando dalla loro parte: è chiara l’allusione alle autodenunce e alle delazioni che accompagnarono le persecuzioni nell’Urss di Stalin.
Ma la sostanza di questa lirica supera il piano politico: la prigionia di cui si parla qui è soprattutto una realtà esistenziale. Questo prigioniero è anzitutto il poeta: è lui l’artista intellettuale, a vivere in una prigionia buia e soffocante, in un mondo massificato, alienante, nel quale albe e notti… variano per pochi segni (v.1). In questo contesto, alla poesia tocca il compito di esercitare una funzione profetica, di trasfigurare la realtà, trasformando la paglia in oro, la lanterna in focolare. Soltanto il poeta può, come dicono i vv.27-28, suscitare iridi su orizzonti di ragnatele / e petali sui tralicci delle inferriate. L’attività poetica si pone quindi come una forma di resistenza morale, e come il risarcimento di uno scacco esistenziale.
Concludendo il suo terzo libro, l’autore traccia anche, nel Sogno del prigioniero, un bilancio della propria esistenza. Nella sua vita si alternarono momenti di caduta ee altri di ripresa; forse su prevalente la condizione di immobilità, di buio, e tuttavia il prigioniero Montale non si è mai arreso. Che il bilancio sia, per lui, cautamente positivo lo vediamo dalla litote del verso finale:il mio sogno di te non è finito. L’io ricco riafferma la fedeltà al sogno che lo ha tenuto in vita e che si identifica sia con la poesia sia con la donna. E’ infatti la donna il tu che egli si ostina ad attendere, senza escludere possibili implicazioni religiose: il poeta, cioè attende la donna e/o Dio, quel Dio di cui Clizia, come abbiamo visto in La primavera hitleriana (la puoi trovare tra le altre parafrasi) è sia pur oscuramente un’immagine.