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Capitolo 29 de I Promessi Sposi - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del ventinovesimo capitolo (cap. XXIX) del celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.


La struttura

Conclusa la digressione storica sulle cause e gli effetti della carestia nel territorio lombardo, e a Milano in particolare, il narratore riprende il filo dell'intreccio, riportando in scena i personaggi principali. Il capitolo può essere diviso in due parti: la prima descrive il viaggio di don Abbondio, Agnese e Perpetua verso il castello dell'innominato, dove essi sperano di trovare rifugio e protezione; la seconda, prendendo spunto dalle parole del sarto, apre una nuova, ma breve digressione sul cambiamento di vita del potente signore. Dal punto di vista della struttura generale del romanzo, questo capitolo rappresenta, con il successivo, un intermezzo che raggiunge talvolta punte di umorismo, prima della drammatica descrizione della peste, con i suoi orrori e la sua follia.



I personaggi

Don Abbondio e Perpetua
Don Abbondio viene presentato con i caratteri che abbiamo spesso notato e che lo qualificano in modo inconfondibile: impiccio e spavento. Si tratta però di una situazione assolutamente eccezionale: arrivano i lanzichenecchi, preceduti da una fama sinistra di devastazioni e di saccheggi. In un contesto tanto drammatico, risaltano per contrasto il terrore di don Abbondio e la sua assoluta incapacità di prendere qualsiasi decisione.
Perpetua, personaggio minore sino a questo momento, acquista nell'episodio un rilievo particolare per quegli aspetti del suo carattere che ne fanno l'anti-don Abbondio, figura opposta, ma complementare, a quella del suo padrone, tanto che non sapremmo immaginare l'uno senza l'altra:
— il curato è in preda al terrore, Perpetua non ha perso il controllo della situazione e si dà da fare; mentre lui vorrebbe discutere, e quindi perdersi in chiacchiere, la donna agisce, rivelando attivismo e spirito d'iniziativa;
— don Abbondio non ha mai avuto coraggio e le circostanze lo dimostrano pienamente; Perpetua, invece, non si lascia sopraffare dalla preoccupazione e dallo spavento che anch'essa naturalmente prova;
— uno è chiuso nelle sue preoccupazioni egoistiche e vorrebbe dagli altri quella comprensione, quella generosità, quello spirito caritatevole, che lui stesso non è mai stato in grado di esercitare; l'altra invece, sensibile alle difficoltà altrui, sa, realisticamente, che in un momento simile ognuno ha da pensare ai fatti suoi.


Il sarto
Se la mania di don Abbondio è quella di voler preservare a ogni costo la propria tranquillità, quella del sarto è rappresentata dalla cultura. Per questo motivo, egli è condotto ad interpretare i fatti che stanno accadendo secondo una sua personalissima prospettiva: un evento ha per lui significato e valore solo se può avvicinarlo a uno che abbia ritrovato nei libri, solo se esso presenta analogie con le storie raccontate nel Leggendario o nei Reali di Francia. Al di là di questi limiti, però, il personaggio del sarto resta nel romanzo come un esempio di carità umile e attiva, disponibile all'accoglienza generosa del prossimo e sensibile alle necessità dei più poveri.


L'innominato
Le rassicurazioni fornite dal sarto circa l'effettivo cambiamento dell'innominato aprono la via alla digressione che sintetizza la vita di costui nell'arco di quasi un anno.
Il mutato stile di vita rivela nuovi aspetti di un uomo eccezionale e ne conferma altri che si erano già manifestati nell'esistenza disperata di un tempo.
Il castello, che in passato era visto come un enorme spauracchio, diventa ora il rifugio della gente della valle e dei paesi vicini, in fuga davanti alle bande tedesche. Come durante la carestia il cardinale Borromeo aveva soccorso e beneficato tanti indigenti, così ora, nella furia devastante della guerra, è l'innominato ad offrire protezione e sostegno a chi non ha i mezzi per difendersi.
Proprio Federigo, nel capitolo XXIII, aveva colto e sottolineato, con fine intuizione psicologica, due qualità del suo interlocutore: la volontà impetuosa e l'imperturbata costanza. Entrambe spiccano ancora nel comportamento dell'uomo rinnovato dalla grazia divina: colui che nessuno aveva potuto umiliare, era stato capace di umiliarsi da sé. Ne consegue un atteggiamento che scaturisce sempre da una decisione libera, da una volontà che non si lascia dominare da nulla e da nessuno e che, se si abbassa, lo fa perché lo ha voluto. Egli acquista grandezza e viene fatto oggetto di nuova venerazione, ben diversa dalla paura e dall'odio che prima ispirava. La fermezza della volontà si traduce nel rifiuto delle vecchie abitudini che potrebbero ricondurlo a un clima di violenza e di sangue.

Come in padre Cristoforo, anche nell'innominato convertito, nell'uomo nuovo, si fondono virtù antiche e recenti:
— gli restano, di un tempo: l'energia che lo spinge a operare concretamene nel bene; il coraggio; la solitudine che, se prima lo isolava nel male, lo pone adesso al di sopra della moltitudine, come figura straordinaria e già quasi immersa nella leggenda;
— gli elementi nuovi sono la mitezza, la carità, l'umiltà che si traduce nei gesti.

La conversione ha potenziato le doti positive e cancellato quelle negative di questo santo intrepido e forte.



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