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Parafrasi: Ad Angelo Mai, Leopardi

di Giacomo Leopardi
Parafrasi:


O italiano coraggioso, per quale motivo non cessi giammai di svegliare dalle tombe i nostri antichi padri romani, e li conduci a parlare a questo secolo, morto , spiritualmente per l’inettitudine, sul quale pesa tanta nebbia di noia?
E come ora, o voce antica dei padri, muta per così lungo tempo, arrivi così forte ai nostri orecchi e così frequentemente?
E perché tanti rìsorgimenti, cioè tanti ritorni a nuova vita delle opere antiche, mediante le molte scoperte del Mai?
D’un tratto le antiche carte divennero feconde di voci uscite dai palinsesti; le biblioteche dei chiostri, polverosi per l’abbandono, tennero nascoste le nobili e sante parole degli avi a beneficio dell’età presente.
E che forza, o illustre italiano, ti infonde il fato?
O forse il fato, che vorrebbe perpetuare lo stato di viltà degli Italiani, contrasta invano con l’umano valore (che ti induce a frugare nelle biblioteche, per scovare le opere dei nostri grandi)?

Certamente non è senza alto volere dei Numi che, quando il disperato oblio della nostra dignità è più pigro e grave, sempre una nuova voce dei nostri padriviene a percuoterci, a svegliarci dal nostro torpore.
Il cielo dunque, cioè Dio, è ancora pietoso verso l'Ita1ia; ancora ha cura di noi qualche divinità: poiché, essendo questa l’ora, e mai se ne presenterà un’altra simile, di ripristinare il nativo valore degli Italiani, tuttora inerte come una spada arrugginita, vediamo che la voce dei morti è grande e nobile, e che la terra fa quasi , uscire gli eroi (cioè i grandi scrittori antichi) per vedere se in questa età, venuta così tardi, ti piace, o patria, essere ancora vile.


O gloriosi eroi del passato, di noi dunque avete qualche speranza di resurrezione? Non siamo del tutto spiritualmente morti? Forse a voi non si impedisce di conoscere il futuro. lo sono moralmente distrutto dal dolore né ho alcuna difesa da esso, perché per me l'avvenire è oscuro, e tutto quello che vedo è tale da far parere la speranza sogno e favola. O anime di eroi, nella vostra terra ha preso posto una plebe priva di onore, perciò spregevole e turpe; per i vostri discendenti (al vostro sangue) ogni valore di azione (opra) nel campo civile, e di poesia (parola) nel campo della letteratura, è rigetto di scherno; dei vostri eterni meriti non hanno più né vergogna (rossor) né invidia; una vita oziosa ed indifferente si svolge intorno ai vostri monumenti; e siamo diventati un esempio di viltà per l'età futura.

O nobile ingegno, poiché ora agli altri non importa nulla dei nostri gloriosi progenitori, siano essi a cuore a te (a te ne caglia), a te a cui il fato spira o soffia (aspira) favorevolmente (benigno), così che, per merito tuo, sembrano presenti, cioè rivivono anno, quei giorni (dell’Umanesirno), quando dal triste e lungo oblio (del Medioevo) risorgevano insieme con gli studi, prima abbandonati, gli antichi eccelsi (divini) scrittori, ai quali la natura, pur senza rivelare i suoi segreti, parlo direttamente, ispirando fervide e generose illusioni, così che con le loro poesie allietarono gli ozi, i riposi magnanimi (perché goduti dopo i negotia, cioè dopo il lavoro) dei cittadini di Atene e di Roma.

Erano ancora calde le tue sante ceneri (o Dante), nemico indomito della fortuna, al cui sdegno e dolore fu più amico l’inferno che la terra, perché ti rifugiasti col pensiero nell’inferno per vedere puniti in esso i malvagi della terra. E quale luogo (parte)-perfino l’Inferno! -non è migliore della terra?
E le dolci corde della tua lira vibravano ancora al tocco della tua mano, o Petrarca, amante sfortunato. Ahimé, la poesia italiana comincia e nasce dal dolore. E tuttavia la sventura che ci addolora, è meno opprimente e straziante (grava e morde) del tedio, della noia derivata dall’inerzia, dal vuoto dell’anima. Oh te beato, o Petrarca, a cui il pianto fu ragione di vita! Noi, fin dalla nascita, la noia avvolse nelle fasce; sia quando nasciamo (presso la culla), sia quando tiriamo (su la tomba) vicino a noi siede irremovibile il Nulla.

La tua vita, o coraggioso figlio della Liguria (Cristoforo Colombo) era in compagnia degli astri e del mare, allorquando, oltre alle colonne d’Ercole e ai lidi occidentali, ai cui abitanti parve, verso sera, udire stridere le onde all’immergersi del sole affidato agli infiniti flutti dell'oceano, tu ritrovasti, a occidente, il raggio del sole tramontato, e (ritrovasti) il giorno che nasce, allorquando ai nostri lidi esso è giunto alla fine, cioè a sera; e, superato ogni contrasto della natura, un immenso continente sconosciuto fu motivo di gloria per il tuo viaggio e per i rischi del ritorno. Ma, ahimé, il mondo conosciuto dopo le nuove scoperte, non s’ingrandisce, anzi rimpicciolisce, perché l'ideale raggiunto è sempre deludente; perciò l’aria vibrante di suoni e la terra che ci nutre (alma) e il mare appaiono assai più vasti al fanciullino, che ne ignora le dimensioni, che non al sapiente che ne è informato.

Dove sono andate, che fine hanno fatto le nostre belle fantasticherie (sogni) intorno alle contrade sconosciute (ignoto ricetto) di ignote popolazioni (ignoti abitatori, come i Giganti, i Centauri, i Ciclopi, le Amazzoni, ecc.), e intorno alla dimora degli astri durante il giorno, e intorno al letto lontano, in fondo al mare, in cui di notte la giovane Aurora dormiva col vecchio marito Titone, e intorno al sonno nascosto (occulto) del sole (maggior pianeta)?

Ecco, dopo l’impresa di Colombo, a un tratto esse svanirono e il mondo è disegnato in una piccola carta geografica; ecco, tutto è uniforme, e con le scoperte aumenta solo il nulla, perché il reale è così povero e meschino che, rispetto all’ideale, a quello cioè che siamo capaci di immaginare, è nulla.
O caro immaginare, conforto quotidiano al nostro male di vivere, appena è
giunto, il vero ti vieta a noi, ti proibisce cioè di operare in noi; da te si allontana
per sempre la nostra mente; al tuo meraviglioso potere sopra di noi ci strappano
gli anni, cioè le esperienze della vita e le conoscenze fornite dalla scienza; e con
la tua scomparsa cesso il conforto, che ci veniva da te, delle nostre pene.

O Torquato (Tasso), allora, nel pieno Rinascimento sfolgorante di leggiadre fantasie, il cielo (destino), con la tua nascita (1544), preparava, a noi, il tuo alto ingegno, a te, unicamente (non altro) il pianto, una vita di dolore. Oh infelice Torquato! la dolce poesia non basto a consolarti o a' sciogliere il gelo, col quale l’invidia dei privati e dei principi Estensi ti avevano avvolto l’animo appassionato. Anche l’amore (per la principessa Eleonora d’Este), che è l’ultima illusione della nostra vita, perché è la più tenace, ti rendeva infelice (ti abbandonava). Il nulla, ossia la totale vanità delle cose, ti parve come un’ombra, qualcosa d’immateriale e inconsistente, e tuttavia reale e solida, e il mondo (ti parve) un luogo deserto. I tuoi occhi non videro il tardo onore della incoronazione poetica; l’ora della morte per te fu una grazia, non una sventura. Chi conobbe il dolore della nostra umana condizione, domanda la morte, non la corona di alloro, simbolo della gloria.

Torna a vivere tra noi, levati dal tuo sepolcro, silenzioso e desolato, perché non curato dai viventi, se sei desideroso (vago) di angoscia, o esempio pietoso (miserando) di vita dolorosa e infelice (sciagura). Il nostro vivere è assai peggiorato rispetto a quello che a te parve così triste e così spregevole. O caro, chi ti compiangerebbe, se per sfrenato egoismo, ciascuno non ha cura se non di se stesso? Chi anche oggi non chiamerebbe folle la tua grave angoscia, se desiderare qualcosa di
grande e di eccezionale è chiamato follia, se ai sommi ingegni tocca in sorte non più l’invidia che implica pur sempre il riconoscimento di un valore, ma l’indifferenza, che è ben più crudele dell’invidia, perché implica la negazione di ogni valore; o quale alloro ti si preparerebbe, se oggi il computar, la ricerca cioè dei beni materiali, è perseguito più della poesia?

Dopo di te, fino ad oggi, o sventurato ingegno (del Tasso), non è nato altro uomo degno dell’antica gloria italiana, se non uno solo (Alfieri): solo un fiero piemontese (Allobrogo), immeritevole di vivere nella sua epoca codarda, a cui nel petto il virile coraggio venne dal cielo, non dalla mia Italia stanca ed inaridita; per questa maschia virtù venutagli dal cielo (onde), egli, cittadino privato ed indifeso (memorabile audacia), con le sue tragedie sulla scena fece guerra ai tiranni: almeno si conceda questa piccola (misera) guerra a questo metaforico, e perciò insufficiente (vano), campo di battaglia, costituito dal teatro, alle ire impotenti degli oppressi contro i tiranni. Egli per primo e solo scese in campo, e nessuno lo seguì, perché l’ozio e il vile silenzio oggi importa ai nostri concittadini più di ogni altra cosa.


Aborrendo i tiranni ei vili e fremendo di sdegno contro di essi, condusse la vita intera in modo incontaminato e la morte lo liberò dal vedere il peggio dell’età seguente. O mio Vittorio, non era questa l’età adatta per te, né la terra. Altri tempi ed altra sede conviene agli alti ingegni. Oggi viviamo soddisfatti dell’ozio (riposo) e guidati da ideali mediocri: il sapiente è sceso e la plebe, il volgo, è salita allo stesso livello, che rende tutti uguali.

O famoso scopritore di opere antiche, continua la tua opera, riveglia i morti, poiché dormono i vivi; ridona la forza alle voci spente degli antichi eroi; così che, alla fine, questo secolo corrotto o aspiri a nuova vitae sorga a compiere azioni illustri o, almeno, si vergogni.


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