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Paradiso Canto 16 - Parafrasi

Appunto di italiano riguardante la parafrasi del canto sedicesimo (canto XVI) del Paradiso della Divina Commedia di Dante Alighieri.
Cacciaguida, illustrazione di Gustave Doré

Continua il dialogo fra Dante e Cacciaguida, che nel canto precedente ha tratteggiato l’immagine della Firenze del passato. Ora il Poeta gli rivolge una serie di domande precise: chi furono i comuni antenati, in quale periodo il trisavolo visse, quali furono le caratteristiche dell’ovil di San Giovanni nei tempi passati e quali le famiglie più ragguardevoli. Illuminandosi di gioia nel rispondergli, Cacciaguida rivela di essere nato alla fine del secolo XI, aggiungendo che le case della sua famiglia si trovavano dentro la prima cerchia di mura: garanzia, questa, di antica nobiltà. La popolazione fiorentina era assai meno numerosa di quella dei tempi del Poeta, ma di sangue più puro. Ora, invece, essa è contaminata dalla presenza di famiglie venute dal contado, che la città, nella sua progressiva espansione, è giunta ad assorbire. Anche il numero dei nobili è aumentato, poiché molti feudatari, vinti dal comune fiorentino, sono stati costretti ad abbandonare il contado e a trasferirsi in città. Origine di questi sconvolgimenti sociali e politici è l’intervento della Chiesa in campo temporale a danno degli interessi dell’lmpero, che non può più opporsi all’espansione dei centri cittadini. Tuttavia questa mescolanza di stirpi e di famiglie porterà ad un aumento delle discordie e delle lotte civili e, quindi, ad una rapida decadenza delle città. Nella seconda parte del canto Cacciaguida enumera moltissime famiglie nobili della Firenze antica, ormai scomparse o in via di decadimento e conclude il suo discorso ricordando le famiglie degli Adimari e dei Buondelmonti, il cui dissidio causò le prime divisioni della città.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 16 del Paradiso. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

O fragile umana nobiltà di sangue, se tu fai
inorgoglire di te qui sulla terra dove i sentimenti
umani (l’affetto nostro) sono deboli (langue), a me
non sembrerà mai più un fatto sorprendente, dato
che lassù, dove il desiderio (appetito) non si travia,
cioè in Paradiso, io me ne inorgoglii.
Ma tu sei come un mantello (manto) che presto si accorcia,
così che il tempo con le forbici (force) lo riduce (va dintorno),
se non si aggiunge (stoffa) di giorno in giorno (di dì in die).
Dandogli del ‘voi’, usato in segno di reverenza (s’offerie)
per la prima volta a Roma, uso che la gente romana (sua famiglia)
conserva meno degli altri, riprese il mio parlare;
per cui Beatrice, che si trovava un po’ discosta (scevra),
sorrise, e così sembrò quella donna che tossì (tossio)
al primo errore (fallo) che si narra di Ginevra.
Io dissi: «Voi siete il mio progenitore;
voi mi date completa fiducia nel parlare;
voi mi sollevate tanto che io mi sento superiore a quello che sono normalmente (ch’i’ son più ch’io).
Da tante fonti (Per tanti rivi) si colma di gioia
la mia anima, che si rallegra con se stessa
perché può sostenerla senza spezzarsi.
Rivelatemi ora, o amato capostipite (mia primizia),
chi furono i vostri progenitori e quali furono gli anni
di cui si prese nota (segnaro) quando eravate fanciullo;
parlatemi di Firenze (l’ovil di San Giovanni), quanto era grande
a quei tempi, e quali erano le famiglie in città
che si meritavano i più grandi onori (alti scanni)».
Come al soffio dei venti il carbone ardente (in fiamma)
si ravviva, così io vidi il lume (di quell’anima) sfolgorare
per i miei affettuosi omaggi (blandimenti);
e come si fece più bella agli occhi,
così con voce più pura e aggraziata (nel rispondermi),
ma non nella lingua di oggi, mi disse:
«Dal giorno dell’Annunciazione (Da quel dì che fu detto ‘Ave’)
al parto con il quale mia madre, che adesso è qui beata,
si sgravò di me di cui era incinta (grave), questo pianeta
Marte (foco) si congiunse (venne) 580 volte (fiate)
alla costellazione del Leone, e sotto la sua
zampa (pianta) acquistò nuovo fulgore (rinfiammarsi).
Io e i miei antenati (antichi) nascemmo nella zona di Firenze
che si incontra all’entrata (si truova pria) dell’ultimo sestiere
da parte di chi corre l’annuale palio fiorentino (annüal gioco).
Tanto ti sia sufficiente sapere dei miei avi;
chi essi siano stati e da dove siano giunti qui,
è più conveniente tacerlo che parlarne.
Tutti gli uomini idonei alle armi che ai miei
tempi vivevano tra Ponte Vecchio (Marte) e il Battistero (Batista),
erano un quinto di quanti vi vivono oggi.
Ma la popolazione, che adesso si è mescolata
con la gente di Campi, di Certaldo, di Figline,
la si trovava pura fino al più umile artigiano (ultimo artista).
Ah, come sarebbe (fora) meglio che la gente
di quei luoghi che ho nominato fosse solo confinante (vicine),
e che (Firenze) avesse i suoi confini a Galluzzo e Trespiano,
invece che averla fra le proprie mura (dentro) e dover sopportare
il fetore del contadino di Aguglione e di Signa,
che ora ha lo sguardo attento (l’occhio aguzzo) a far baratteria (per barattare).
Se il clero, la famiglia che più al mondo degenera (traligna),
fosse stato con l’imperatore (Cesare) non una matrigna (noverca),
ma una madre benevola verso il figlio amato,
qualcuno che è diventato fiorentino e vi fa il cambiatore
e il mercante invece sarebbe rimasto (vòlto) a Semifonte,
dove l’antenato andava in giro a vendere la sua merce al minuto (a la cerca);
il castello di Montemurlo sarebbe ancora dei conti Guidi;
la famiglia dei Cerchi sarebbe nelle parrocchie (piovier) di Acone,
e i Buondelmonti probabilmente nella valle del Greve.
Da sempre il mescolarsi (confusion) delle stirpi
è stato l’inizio della rovina delle città, come causa
del male dell’uomo (vostro) è il cibo che si aggiunge ad altro (s’appone);
e un toro cieco crolla più velocemente (avaccio) di un agnello cieco;
e molto spesso una sola spada colpisce
più e meglio di cinque spade.
Se tu pensi a come sono finite (ite) le città di
Luni e di Orbisaglia, e a come stanno decadendo
sulla loro scia (di retro ad esse) le città di Chiusi e
Senigallia, non ti sarà incredibile (nova) e difficile da
capire (forte) il fatto che le stirpi vadano in rovina,
dal momento che (poscia che) le stesse città sono destinate a finire.
Tutte le cose terrene muoiono, proprio come voi uomini;
ma la morte si nasconde in alcune cose che hanno
la vita lunga, in confronto alla vita umana che è breve.
E come il girare del cielo della Luna copre
e discopre continuamente (sanza posa) le coste,
così il Destino fa con Firenze: per cui non deve
sembrare un fatto incredibile (mirabil cosa) quello
che narrerò dei Fiorentini nobili la cui fama
è occultata (nascosa) dal tempo.
Io vidi la famiglia degli Ughi, i Catellini,
i Filippi, i Greci, gli Ormanni e gli Alberichi, quando erano
ancora eminenti (illustri), benché in decadenza (nel calare);
e vidi, di potenza pari alla loro antichità, le famiglie
dei Soldanieri, degli Ardinghi e dei Bostichi,
insieme a quelli della Sannella e dell’Arca.
Nei pressi (Sovra) di Porta San Pietro, che
oggi è tanto oppressa e gravata (carca ... di tanto peso)
dalla recente malvagità che presto ci sarà zavorra (iattura)
nella barca, abitava la famiglia dei Ravignani,
da cui discende il conte Guido Guerra
e tutti coloro che dal nobile Bellincione Berti hanno preso il nome.
La famiglia della Pressa sapeva già governare (regger si vuole),
e i Galigai avevano già in casa la spada da cavaliere
con l’elsa e il pomo dorati (le insegne di chi ha l’investitura di cavaliere).
Già era potente lo stemma della lista di Vaio,
i Sacchetti, i Giochi, i Fifanti e i Barucci, i Galli e i Chiaramontesi,
che ancora arrossiscono per la frode dello staio.
Potente era già anche la famiglia (ceppo) da cui
ebbero origine i Calfucci, e già occupavano
le alte cariche (curule) i Sizi e gli Arrigucci.
In quanta gloria ho visto (gli Uberti) che ora sono scomparsi (disfatti)
per la loro superbia! E la casata delle palle d’oro (i Lamberti)
dava lustro (fiorian) a Firenze con ogni sua valorosa impresa.
E ugualmente agivano gli antenati di coloro i quali,
quando (sempre che) la sede vescovile è vacante (vaca),
s’impinguano sedendo nel collegio ecclesiastico (consistoro).
La tracotante stirpe che incrudelisce (s’indraca)
contro coloro che fuggono, ma si fa umile come un agnello
con chi oppone resistenza o offre denaro (la borsa),
cominciava allora a fiorire, ma da basse origini (picciola gente);
così che Ubertino Donati si dispiacque che il suocero,
Bellincione Berti, lo rendesse parente con loro.
La famiglia dei Caponsacchi era già venuta da Fiesole
ad abitare nella zona di Mercato Vecchio,
ed erano cittadini onorati i Giudi e gli Infangati.
Ti rivelerò un fatto difficile da credere ma vero:
nella piccola cinta muraria si entrava attraverso una porta
che prendeva il nome (si nomava) dalla famiglia Della Pera.
Tutti quelli che si fregiano (porta) dello stemma
del nobile Ugo il Grande (gran barone), di cui la
festa di s. Tommaso celebra fama e meriti,
da lui ricevettero la dignità cavalleresca e tale privilegio;
nonostante che (avvegna che) in questi tempi
faccia causa comune (si rauni) con il popolo colui
che cinge tale stemma (la fascia) con un fregio d’oro.
C’erano già i Gualterotti e gli Importuni; e
il Borgo Santi Apostoli sarebbe tuttora più tranquillo
se essi non avessero (fosser digiuni) nuovi vicini.
La famiglia degli Amidei da cui ebbe origine la vostra rovina (fleto),
per il giustificato sdegno che vi ha perduti (morti) e concluse
il periodo felice della vita di Firenze, era riverita, lei con i suoi parenti:
o Buondelmonte dei Buondelmonti, con quanto danno rifiutasti
il matrimonio con essa per i consigli (conforti) di altri!
Molti sarebbero oggi felici, e invece sono
nel dolore, se il Signore ti avesse immolato al fiume
Ema, il primo giorno che giungesti a Firenze.
Ma era destino che Firenze sacrificasse (fesse vittima)
il suo ultimo momento di pace a quella statua
mutilata (di Marte) (pietra scema) che è posta su Ponte Vecchio.
Abitata da queste nobili famiglie
e da altre loro pari, io vidi Firenze
in tanta pace che non aveva motivo di dolersi.
Insieme a tali famiglie io vidi la sua popolazione
in tanta gloria (glorïoso) e giustizia,
che l’insegna del giglio non era mai stata capovolta,
né si era mutata in rosso a causa di lotte intestine (divisïon)».



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