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Purgatorio Canto 14 - Parafrasi

Appunto di italiano riguardante la parafrasi del canto quattordicesimo (canto XIV) del Purgatorio della Divina Commedia di Dante Alighieri.

Guido del Duca chiede a Dante la sua provenienza, e Dante risponde con una perifrasi. Rinieri de' Calboli chiede perché il poeta non abbia dato una risposta diretta, ma risponde Guido sostenendo che è giusto che la Val d'Arno non si nomini più, lanciandosi in un'aspra invettiva contro la Toscana e la Romagna.

In questa pagina trovate la parafrasi del Canto 14 del Purgatorio. Tra i temi correlati si vedano la sintesi e l'analisi e commento del canto.



Parafrasi

«Chi è costui che gira (cerchia) intorno al monte,
dimora, prima che la morte abbia concesso alla sua anima di volare qui,
e apre e chiude (coverchia) gli occhi a sua volontà?».
«Non so chi sia, ma so che non è solo;
chiediglielo tu che gli sei più vicino,
e accoglilo (acco’lo) con parole dolci, in modo che sia indotto a rispondere».
Così, dal mio lato destro (a man dritta), due anime,
l’una china verso l’altra, parlavano di me in quel luogo;
poi, per parlarmi, sollevarono i volti in alto (fer li visi ... supini);
e una di esse disse: «O anima, che ancora rinchiusa (fitta)
dentro il corpo te ne vai verso il cielo,
consolaci in nome della carità e di’ (ditta) a noi
da quale luogo vieni e chi sei;
perché tu, per via di questa tua grazia, ci fai meravigliare
quanto ci meraviglia una cosa mai accaduta prima».
E io: «Attraverso la Toscana centrale (mezza) scorre
per largo tratto (si spazia) un fiume, che nasce dal Falterona,
e non gli bastano (nol sazia) cento miglia di percorso.
Io sono venuto (rech’io) con questo corpo
da un luogo bagnato da tale fiume (sovr’esso);
dirvi chi sia sarebbe parlare inutilmente, poiché il mio nome non è ancora molto noto (non suona)».
«Se con la mia intelligenza comprendo (accarno) bene
l’allusione (’ntendimento) delle tue parole», mi rispose allora l’anima
che aveva parlato per prima, «tu parli dell’Arno».
E l’altra anima disse alla compagna: «Perché costui tacque
il nome di quel fiume (riviera), proprio come fa
l’uomo quando parla di cose orribili?».
E l’anima a cui era stata rivolta questa domanda,
accontentò (si sdebitò) l’altra dicendo così: «Non so; ma è ben giusto
che il nome di questa valle dell’Arno perisca (pèra);
perché dalla sua sorgente (principio), dove il monte Appennino,
da cui si staccò (ond’è tronco) il capo Peloro, è così gonfio e alto (pregno),
che in pochi altri punti supera quella misura,
fino a dove si riversa nel mare (si rende) per risarcirlo (per ristoro)
di quell’acqua che il cielo (sole) fa evaporare (asciuga) dal mare,
e dal quale poi i fiumi riceveranno l’acqua che forma il loro corso (ciò che va con loro),
la virtù è schivata (si fuga) da tutti come nemica,
quasi fosse una serpe, e ciò per malefico influsso del luogo,
o per cattiva abitudine (mal uso) che spinge (fruga) gli uomini:
per cui gli abitanti della sventurata valle (dell’Arno)
hanno modificato la loro natura così che
sembra che Circe li abbia in suo dominio (pastura) (trasformandoli in animali).
Fra sudici maiali, più degni (di nutrirsi) di ghiande (galle)
che di altro cibo conveniente agli uomini l’Arno
indirizza in un primo tempo il suo corso (calle), ancora magro d’acque (povero).
Scendendo a valle incontra poi cani (botoli) minacciosi
più di quanto dovrebbe consentire la loro potenza (possa),
e da lì (il fiume) sdegnoso compie una grande curva (torce il muso).
Procede in discesa (Vassi caggendo); e quanto più diventa ampia,
questa maledetta e sventurata valle (fossa),
tanto più vede i cani trasformarsi in lupi (i Fiorentini).
Discendendo poi attraverso bacini più incassati e tortuosi (pelaghi cupi),
trova le volpi (i Pisani), così piene di frode,
che non temono alcun ingegnoso artificio che possa ingannarle (occùpi).
Né smetterò di parlare perché altri mi ascoltano;
anzi sarà utile a costui (Dante), se in avvenire si ricorderà (s’ammenta)
ciò che ora una vera ispirazione (spirto) mi induce a rivelare (disnoda).
Vedo tuo nipote che (a Firenze) sulla riva di quel fiume malvagio (fiero)
diventa cacciatore di quei lupi,
gettandoli tutti nella costernazione.
Vende la carne delle sue vittime ancora vive:
poi le uccide con il furore di una bestia primitiva (antica);
priva molti della vita e se stesso di ogni onore (pregio).
Poi, grondante di sangue, si allontana dalla selva di sventura;
e la lascia così devastata che essa non riacquisterà
la condizione di prima (lo stato primaio) da qui a mille anni».
Come, quando vengono annunziati avvenimenti dolorosi,
il volto di colui che ascolta si turba,
qualunque sia la parte dalla quale il pericolo lo minacci (assanni),
così io vidi l’altra anima (Rinieri da Calboli),
che stava rivolta (verso Guido) ad ascoltare, preoccuparsi e addolorarsi,
quando ebbe recepito e compreso il senso di quelle parole.
Le parole dell’una (Guido del Duca) e l’aspetto (vista) turbato dell’altra (Rinieri da Calboli)
mi resero desideroso di conoscere i loro nomi,
e glieli chiesi aggiungendo parole di preghiera;
per cui l’anima, che mi aveva parlato prima,
riprese: «Tu desideri che mi lasci indurre (mi deduca) a rivelarti il mio nome,
mentre non vuoi dire a me il tuo.
Ma dal momento che Dio vuole che in te risplenda (traluca) la sua grazia
in misura così grande, non rifiuterò (ti sarò scarso) (di accontentarti);
perciò sappi che io fui Guido del Duca.
Il mio sangue fu così ardente di invidia,
che se avessi visto un uomo diventare lieto,
mi avresti visto diventare livido.
Di ciò che ho seminato raccolgo tale frutto (paglia);
o umana gente, perché concentri il tuo animo là (sui beni terreni)
dove è necessario (v’è mestier) che non siano ammessi (divieto) altri a possedere (lo stesso bene)?
Questi è Rinieri; è il prestigio e l’onore della casata da Calboli,
dove in seguito nessuno si è fatto erede (reda) della sua virtù.
E, nella regione tra il Po e l’Appennino
e il mare e il Reno, non solo la sua discendenza (sangue)
è diventata sterile (è fatto brullo) delle virtù necessarie
a una vita seria e gioiosa (trastullo);
perché entro questi confini vi è una così grande massa
di sterpi velenosi che, anche se si volesse coltivare questo territorio,
sarebbe ormai tardi (verrebber meno).
Dov’è il nobile Lizio e Arrigo Mainardi?
Piero de’ Traversari e Guido di Carpegna?
Oh Romagnoli tanto degenerati (tornati in bastardi) (da sembrare figli illegittimi!).
Ci sarà più un tempo in cui a Bologna attecchirà (ralligna) un uomo come Fabbro?
a Faenza uno come Bernardino di Fosco,
nobile virgulto (verga) di una famiglia (gramigna) modesta?
Non ti stupire se io piango, o Toscano,
quando ricordo, insieme con Guido da Prata,
Ugolino di Azzo, che non romagnolo visse tra di noi (nosco),
e Federico Tignoso e il suo gruppo di amici (brigata),
la famiglia Traversari e gli Anastagi (ma l’una e l’altra famiglia si sono estinte senza eredi),
le donne e i cavalieri, le fatiche militari (affanni)
e le comodità (agi) (delle corti),
che ci stimolavano (’nvogliava) all’amore e alla cortesia,
là (in Romagna), dove gli animi sono diventati così malvagi.
O Bertinoro, perché non sparisci,
poiché se n’è già andata (gita) la famiglia dei tuoi signori
e molti altri nobili per non diventar malvagi?
Fanno bene i signori di Bagnacavallo a non aver più eredi (rifiglia);
e fa male la casata di Castrocaro, e peggio quella di Conio,
che si ostina (s’impiglia) a generare tali conti (così degeneri).
Faranno bene i Pagani (a non rifigliare) dopo
la morte dell’ultimo dei loro (Maghinardo da Susinana, detto demonio);
ma non potranno far sì che di essi resti un buon ricordo.
O Ugolino dei Fantolini, il tuo casato è sicuro (dal disonore),
dato che non può più nascere un discendente che,
degenerando, possa oscurarlo (far lo possa ... scuro).
Ma ormai allontanati, Toscano, perché ora ho un desiderio (mi diletta)
troppo forte di piangere, più che di parlare,
tanto il nostro colloquio (ragion) ha oppresso la mia anima».
Noi sapevamo che quelle anime care ci sentivano camminare;
e perciò, dal momento che tacevano,
ci davano la fiducia (facëano noi ... confidare) di procedere (lungo la via giusta).
Poi, dopo che andando avanti rimanemmo da soli,
come una folgore quando taglia (fende) l’aria,
irruppe una voce proveniente dalla direzione opposta a noi (di contra),
che diceva: ‘Mi ucciderà chiunque mi troverà (m’apprende)’;
e si allontanò con la velocità del tuono che si dilegua,
quando improvvisamente squarcia (scoscende) le nuvole.
Appena l’orecchio, stordito dalla prima voce,
ebbe pace (triegua), ecco irrompere l’altra voce
con tale fragore da sembrare un tuono che segue immediatamente (tosto) l’altro:
«Io sono Aglauro, che fui trasformata in sasso»;
e allora, per stare più vicino a Virgilio,
spostai il mio passo verso destra (destro feci), e non in avanti.
L’aria era ormai tornata tranquilla da ogni parte;
allora Virgilio mi disse: «Quello udito fu il duro freno (camo)
che dovrebbe spingere l’uomo a mantenersi entro i limiti (sua meta).
Ma voi uomini siete attratti (prendete l’esca) dai beni mondani,
così che l’esca dell’antico avversario (il demonio) vi trascina a lui;
perciò a poco giovano gli esempi che servono da freno e da sprone.
Il cielo vi chiama e vi ruota intorno
mostrandovi le sue eterne bellezze,
e, malgrado ciò, il vostro sguardo si rivolge soltanto (pur) verso terra;
perciò Dio, che vede tutto, vi castiga (batte)».



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