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Capitolo 33 de I Promessi Sposi - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del trentatreesimo capitolo (cap. XXXIII) del celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.


La struttura

Conclusa l’ampia digressione sulla peste, la ripresa del racconto coincide con il ritorno in scena dei protagonisti.
La struttura del capitolo si presenta simmetrica rispetto a quella dell’XI, diviso anch'esso in due parti: la prima, dedicata agli intrighi di don Rodrigo; la seconda, al viaggio di Renzo a Milano.
Come si può osservare, la situazione si è rovesciata: don Rodrigo, che nell’XI capitolo era in vantaggio sul rivale, lontano dal paese, nel XXXIII si rivela il vero sconfitto, tradito dal fedel Griso che, maltrattato dal padrone nell’XI, ora viene addirittura implorato da lui. Renzo, allora costretto a fuggire per Milano, ritorna ora al villaggio spopolato dalla peste e, animato dal desiderio di ritrovare Lucia, si rimette di nuovo in cammino verso la grande città.
Don Rodrigo conclude la sua esistenza abbandonato da tutti, mentre Renzo inizia una nuova fase della vita, sostenuto dal conforto dell’amico d’infanzia.



Personaggi e le tecniche narrative


Don Rodrigo
Il primo a fare la sua comparsa sulla scena è don Rodrigo, colto nel momento del crollo fisico e della disperazione.
Il nucleo fondamentale della prima parte della narrazione è il sogno di don Rodrigo, preparato dalla pagina iniziale dove si scontrano realtà e desiderio:
Il dialogo con il Griso è segnato dal sospetto e dalla paura; in esso ha grande importanza non solo la parola, usata dal bravo traditore per mascherare le sue vere intenzioni, ma anche la mimica.
La drammaticità della scena è creata dall’incrociarsi degli sguardi, che riflettono le sensazioni e i pensieri dei personaggi come in un gioco di specchi, all’interno del quale la parola è stravolta, mistifica la realtà, cerca di cancellare i sospetti. Il lettore, che ha già compreso la verità (don Rodrigo appestato, il Griso pronto al tradimento), aspetta che essa si riveli in tutta la sua atrocità, mentre il signorotto vive questo momento cruciale della propria vita durante la notte (è accaduto lo stesso a Lucia e all’innominato, per esempio).
Egli è il protagonista di un sogno o, più propriamente di un incubo, preparato da una serie di opprimenti sensazioni fisiche: la luce fastidiosa, il peso delle coperte, il caldo soffocante, rappresentano infatti i segni che annunciano l’esplodere della malattia.

Le fasi confuse del sogno si intrecciano, alternando due tipi di immagini: quelle concrete, estremamente realistiche e quelle indefinite, sfumate.
Ad accentuare il clima di orrore, si aggiungono notazioni a proposito di uno spazio e di un tempo che non appartengono alla realtà, ma alla dimensione della coscienza e del ricordo: lo spazio è prima dilatato, poi ristretto e soffocante; il tempo si divide tra il presente (la sensazione del dolore, non prodotto dal pomo della spada, ma dal bubbone) e il passato, che fa riemergere la figura di padre Cristoforo e il lontano e misterioso spavento, causato dalla sua profezia.
La paura del male e della morte, insieme a quella del giudizio, incapace di esprimersi a parole, scoppia in un grand’urlo liberatorio che segna il risveglio di don Rodrigo. Anche in questa circostanza è presente il dualismo desiderio-realtà: da un lato, il personaggio, riprendendo coscienza, si illude che tutto era stato un sogno; ma, dall’altro, si rende conto ben presto di sentirsi peggio di quando era andato a letto e gli basta uno sguardo per vedere un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.
Il sogno, anticipando la realtà, ha messo don Rodrigo di fronte all’inesorabile intervento della divinità, predetto dalle oscure allusioni del frate. Però, non tutto, forse, è negativo in questo destino, come il narratore lascerà intuire nel seguito della vicenda. Don Rodrigo non è l’innominato e non ci si può aspettare una conversione da parte di chi non ha spessore morale, né grandezza spirituale.
Tuttavia, Manzoni non nega neppure a lui una possibilità, un barlume di luce, il cui accoglimento da parte dell’uomo resta tuttavia un mistero che avvolge anche il significato morale e religioso della peste da cui è stato colpito.


Renzo
L’attenzione del narratore si sposta ora alla vittima, Renzo, che torna al paese lasciato nella famosa notte degl’imbrogli. Allora dominavano il chiasso, la confusione, il movimento frenetico delle persone, accompagnati dal sottofondo musicale delle voci e del suono delle campane. Adesso il villaggio si offre agli occhi di Renzo in tutta la sua desolazione, sottolineata essenzialmente da una serie di episodi:
  • l’incontro con Tonio, degradato dalla malattia che lo ha ridotto a un folle, simile in tutto e per tutto al fratello Gervaso. La reazione del giovane è di profonda tristezza dinanzi all’amico irriconoscibile e chiuso nel ritornello insensato delle sue parole;
  • l’incontro con don Abbondio: neppure la peste ha avuto il potere di scardinare il suo sistema di vita, la sua incessante ricerca della tranquillità. Il curato è rimasto sempre lo stesso: egoista, preoccupato del proprio interesse, senza sensibilità per la sorte altrui: non spende una parola per esprimere pietà o ripianto di Perpetua e i nomi degli altri morti si snodano come in una filastrocca senza partecipazione, senza affetto. Il grande rivolgimento operato dal contagio non ha minimamente intaccato le sue opinioni: Renzo è nato per la sua sventura e don Rodrigo è un uomo che non dev’essere neppure nominato. Questo personaggio non ha subito alcuna evoluzione psicologica: egli è mutato solo fisicamente, ma il suo modo di sentire è quello di un tempo, diviso tra terrori apocalittici e sogni di quiete. Tra i due si svolge un breve dialogo, ma privo di vera comunicazione e Renzo, perciò, riprende la sua strada tristo e scontento;
  • la visione della vigna, minutamente descritta dal Manzoni con precisione degna di un botanico. Il giudizio dei critici al riguardo è piuttosto contrastante, sia a proposito del valore artistico della pagina sia del suo significato.

Per alcuni, è un pezzo di bravura descrittiva, in cui l’autore sfoggia le sue conoscenze botaniche, per altri la rappresentazione della vigna sconvolta deve esser letta in senso metaforico: il disordine delle piante e dei fiori tradurrebbe l’incapacità dell’uomo di dare una regola a se stesso e al proprio comportamento: al caos della natura corrisponderebbe così il disordine della ragione.
Comunque sia, la vista della vigna e della casa devastata, violata (un’immagine analoga a quella che si offre a don Abbondio e a Perpetua, nel capitolo XXX) accentua in Renzo il senso di solitudine che caratterizza il suo rientro. Ormai, al giovane non è rimasto più nulla che lo leghi al villaggio: non le cose, distrutte dai soldati tedeschi o dai compaesani, e neppure le persone, quasi tutte scomparse, tranne l’amico d’infanzia, la cui presenza discreta e affettuosa è l’unica nota positiva in mezzo a tanto dolore.
Renzo si incammina per la seconda volta verso Milano, non costretto dalle circostanze (come nel capitolo XI), ma per libera scelta, con lo scopo di ritrovare Lucia, ora che l‘ostacolo principale al loro matrimonio, don Rodrigo, non è più in grado di nuocere.



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