“Memorie dal sottosuolo” è una complessa narrazione divisa in due parti: la prima parte è un monologo, la seconda un racconto in prima persona delle peripezie dell’autore.
L’opera esordisce con l’affermazione che l’io narrante è cattivo e dà una serie di esempi di questa cattiveria, come ad esempio il lavoro. Egli spiega che era una persona che si divertiva nel vedere la sofferenza altrui. È pure malato al fegato ma non vuole curarsi per cattiveria gratuita, anche se fosse stato a suo danno, lui è sempre stato così. Nell’immediato dopo si contraddice affermando che nulla di ciò affermato riguardante il suo esser malvagio era vero. Egli è sempre stato una persona incoerente, vuole esser buono o buono ma non ci riesce. La sua incoerenza è tale che anche i suoi sbalzi d’umore sono imprevedibili.
Egli non è stato capace neanche di essere un insetto: il protagonista si ritiene perdente a tal punto che non è neanche un insignificante animale. Tuttavia è cosciente di tutto questo, anzi ritiene di essere più intelligente di gran parte della gente comune. L’autoconsapevolezza che lui ha è una malattia poiché nella vita basterebbe una coscienza “comune”, anzi ogni coscienza – puntualizza l’io narrante – è una forma di malattia. Ogni suo errore commesso capitava nel periodo di vita in cui più era cosciente della gravità dell’azione sbagliata, e più tale questa conoscenza era forte, più trovava la forza di infischiarsene. Smise di cercare soluzioni alle sue azioni sbagliate e addirittura si compiaceva della situazione miserevole in cui si trovava: era contento di essere un vigliacco proprio perché era capace essersene reso conto, ma questo piacere era dolceamaro. Il flusso di coscienza lo porta a discutere di come si sarebbe sentito colpevole per natura se qualcuno gli avesse dato uno schiaffo e da qui si rende conto dell’inutilità di essere magnanimi – cioè saper perdonare o dimenticare. Tuttavia coloro che sono vendicativi sono sciocchi e agiscono istintivamente, ma chi segue il proprio cuore e non è affetto da troppi pensieri può essere quasi migliore. Probabilmente una persona spontanea e normale sarebbe stupida e per cui egli invidia gli sciocchi. Per chi è pensieroso come il protagonista, gli ostacoli che si presentano durante il proprio percorso son un falso pretesto per fare marcia indietro. L’io narrante si chiede poi se l’uomo non pensieroso ma stupido sia quello davvero “normale” cioè come madre natura aveva voluto: “uomini immediati e d’azione” sono il tipo di personaggio che egli contrappone a sé.
Si torna a parlare del piacere nel dolore: tra i gemiti del dolore egli trova un senso di appagamento nel farsi percepire come vili, mascalzoni o inetti. Egli per noia forza se stesso ad amare, alcune volte ad autocompatirsi. Il “tedium vitae” lo porta a desiderare in modo casuale e questo finisce con il non desiderare poi più niente, cioè finire nell'inettitudine. Infine l’autore riprende temi trattati all'inizio e li sviluppa per dimostrare l’irrazionalità dell’uomo del XIX secolo.
Nella seconda parte l’io narrante vuole dimostrare come anche una persona istruita ed educata in modi “standard” dell’epoca possa evolvere pensieri irrazionali e fuori dal coro. L’autore intende ripercorrere tratti della propria biografia per un’autoanalisi e inizia a narrare dall'età di 24 anni. Egli era un impiegato della burocrazia di San Pietroburgo, città detestata da lui, e già ai tempi la sua psiche era compromessa da una bassa autostima da cui nasce l’invidia per i suoi colleghi di lavoro. Quest’ultimi ai suoi occhi sembravano quasi perfetti in confronto a lui. La sua giovane età lo caricava di quella forza di volontà tanto da ambire ad una metamorfosi di sé e ascendere a un qualcosa di migliore. Tuttavia l’odio nutrito nei confronti dei colleghi non lo trattenevano dal compiere azioni indegne e vigliacche.
Giunge a narrare il suo tentativo di sfidare a duello un ufficiale che si mostrava arrogante e l’ha sbeffeggiato in una trattoria. Egli inizialmente era determinato a sfidarlo ma ad ostacolarlo ci sono i suoi pensieri. All'inizio vorrebbe affrontarlo dopo avergli scritto una lettera con data e luogo. A questa ipotesi accostò quella di un lieto fine generata dal chiarimento dei due. Le fantasie del protagonista lo portano a immaginare una grande amicizia con l’ufficiale. Ripensando a come il avesse voluto essere amico di una persona che lo ha umiliato ritornò al pensiero della vendetta ma questa volta in piccolo: si accontenta di una spallata mentre si era imbattuto nell'ufficiale. Il fatto narrato spiega alla perfezione la parte del monologo in cui si parla di vendetta: il fatto che si ha ricevuto uno schiaffo, può offendere, ma preso dai propri pensieri non si pensa alla vendetta ma si realizza l’inutilità di causare più danno a se stessi con un’azione violenta. Infatti il protagonista si pente anche di quella sua piccola vendetta, giudicandola prima meschina poi inconcludente.
Tornando alla sua ambizione di emergere socialmente, egli descrive come si è approcciato ai suoi ex-compagni di scuola. Con fatica i suoi amici riuscirono ad accettarlo, lui ormai ha gettato via il suo orgoglio pur di tentare la salita e riesce a farsi invitare a cena. Continua a persistere il suo senso di inferiorità anche nei confronti dei suoi ex-compagni. Il suo orgoglio viene ulteriormente ferito quando egli si ubriaca durante la cena e come un fenomeno da baraccone, tutti lo trattano come lo zimbello da prendere in giro. I suoi compagni lo portano ad una casa chiusa. Qui incontra una prostituta di nome Liza cui fa credere di essere un ricco filantropo pronto a migliorare le condizioni di vita della donna e infine dichiara falsamente il suo amore. Dopo qualche giorno la ragazza si presenta alle porte di casa del protagonista, il quale prepotentemente sfoga la rabbia dell’umiliazione subita sulla povera donna. La sforza in atti carnali, le fa violenza e infine le getta i soldi rozzamente trattandola in modo turpe. La prostituta non accetta il denaro e fugge via piangendo. Si sente spregevole e riluttante mentre ripensa alle proprie azioni: egli non è capace di umiliare chi considera inferiore a lui e non è capace di muovere un dito quando la situazione è invece capovolta. Si riduce così a pensare di valere meno di qualsiasi uomo sulla terra e queste sensazioni vengono descritte nel monologo che lui fa nella prima parte dell’opera.
COMMENTO DELLA PRIMA PARTE
Le “Memorie dal sottosuolo” si aprono con un monologo del protagonista. Questi inizialmente non si presenta, ma inizia una descrizione del proprio essere ex-abrupto. Nel monologo egli si contraddice e smentisce persino ciò che ha appena smentito. Si evince dal testo una persona estremamente consumata dal proprio essere inetto, non capace di percorrere fino in fondo la strada del “personaggio buono” che già scappa a ritroso sulla via del “personaggio cattivo”. Ma egli non è neanche capace di essere cattivo fino in fondo poiché la sua natura, propensa a essere una persona per bene, glielo impedisce.
Egli è malato al fegato, ma non vuole curarsi. È appunto una cattiveria, ma una cattiveria fine a se stessa, completamente improduttiva e anzi, dannosa nei propri confronti. Non si comprende dal testo se questa decisione di non curarsi sia una forma di schizofrenia – il protagonista stesso fa intendere che ne soffre – o è una maniera per lui di dimostrare a se stesso che in qualche modo è cattivo e determinato a esserlo: quest’ultima ipotesi sarebbe confermato dal desiderio di voler essere un qualcuno o di cattivo o di buono o comunque un personaggio che si possa definire – e quindi delimitare – con un solo preciso aggettivo. Ma il suo esser pigro, stanco e tedioso nei confronti della vita, non lo invoglia nel compiere una decisione: se vuol rimanere buono, ciò gli costa fatica, inoltre tutti i buoni che egli ha incontrato sembrano essere sciocchi; se egli invece vuol diventare cattivo, deve dominare
la sua coscienza e andar contro la sua natura: si tratta comunque di uno sforzo immane. Dunque fare un male a se stesso dichiarandolo una cattiveria, a mia analisi e interpretazione, è un modo pigro e veloce per definirsi cattivo: infatti questa “cattiveria” non è di danno a nessuno e dunque non va contro la sua indole sottomissiva e tendente al buono. Ma come ingannarsi se noi stessi sappiamo ciò che si cela sotto al nostro inganno? Egli infatti non riesce a ingannarsi. Nonostante cerchi disperatamente di trovare prove del suo esser cattivo affermando di esser stato un prepotente lavoratore e di aver burlato molte persone, alla fine si contraddice, come se la sua autoconsapevolezza avesse rivelato la verità, ormai accortasi che era impossibile raggirare se stessa: lui non è malvagio e il fatto che fosse un cattivo lavoratore è una menzogna. Ma una menzogna per ingannare chi? Probabilmente lui stesso. E per quale motivo? Per non sforzarsi di essere una persona senza contraddizioni: se egli è già un qualcuno, o buono o cattivo, egli avrebbe già raggiunto l’obiettivo della sua vita.
Egli poi dice di non essersi pentito delle sue azioni. Mente. C’è nelle sue parole un rimprovero a se stesso e anche una forma pentimento. Anche qui è un mentire a se stessi. Questa volta mente per lo stesso motivo di prima: è la pigrizia. Pentirsi equivarrebbe a struggersi nelle memorie del passato, e oltre che inutile, è faticoso. Egli è conscio di ogni suo comportamento scorretto, ma il “non potevo farci nulla” è la risposta che la sua indole impone. Infine egli sostituisce alla sensazione di colpa e di distruzione, una sensazione di aspro piacere. Forse l’irrazionalità che cerca di trasmettere l’autore non è altro che una razionalità eccessiva e inconscia guidata dalla paura, una paura che muta in pigrizia. Per comprendere meglio la mia personale interpretazio-ne, si può far ricorso ad un esempio: la volpe e l’uva. Cosa fa la volpe quando non riesce a cogliere l’uva? La rinnega: l’uva è in realtà aspra e questa impressione non è ipotesi ma certezza innegabile nonostante prove empiriche fornite dalla ragione. La volpe si compiace del fatto di non aver colto l’uva, sarebbe fatica sprecata, ma una parte di lei sa che quel grappolo in realtà è squisito. Più il suo subconscio piange nel veder l’uva così dolce, più ella ha bisogno di mentire a se stessa fino a provare piacere per opprimere il dispiacere. Ammettiamo che l’uva sia l’obiettivo di vita della volpe come l’esser una cosa definita sia l’obbiettivo del protagonista. Forse se avesse allenato le sue zampe sarebbe riuscita ad arrivare al grappolo d’uva, ma pur avendo questo in mente, la volpe non si muoverebbe. Il “forse” mette paura: cosa accadrebbe se poi la volpe fosse vicinissima al grappolo e non riuscisse comunque a raggiungerlo in tempo, prima che marcisca l’uva o che lei stessa invecchi? Delusione, cui segue la depressione. Allora si può valutare la vigliacca decisione della volpe come un atto assolutamente razionale. D'altronde non è vero che provare non costa niente, provare ti fa sperare. Si trova nella stessa situazione il protagonista delle memorie: egli non vuole provare, la paura di risultati negativi lo ferma. La vita del protagonista è dunque fallimentare, non avendo raggiunto nessun obiettivo ma scappando continuamente.
Rimanendo nella favola di Esopo, possiamo cercare di vedere cosa accadrebbe alla volpe quando l’uva è già marcia e la volpe già vecchia: la bestia ha il rimorso di non aver tentato, ma lo negherà. Quando si sarà accorta che forse valeva la pena di rischiare di rimaner delusi per quel grappolo d’uva, la mente fragile tenterà nuovamente una fuga: infatti il sentimento di rimorso fa ancora più paura di quella della delusione. I pensieri imposti a se stessi saranno allora ancora più prepotenti. La volpe dirà a se stessa che non ha tentato di cogliere l’uva non perché aveva paura non poterci arrivare, ma per una questione di autolesionismo. Ci vuol poco per convincersi di questa propria versione dei fatti, infatti la volpe, ritenendosi un perdente, odia se stessa.
Ma di nuovo daccapo: come può il protagonista ammettere di essere un perdente? Ammettere ciò significherebbe mandare in fumo tutto quelle menzogne fatte a se stessi, eppure le prove tangibili della propria inettitudine sono di fronte a lui: infatti non ha mai raggiunto un solo obbiettivo. Qui il protagonista pensa che tutte le persone che ottengono un qualcosa attraverso l’azione, cioè gli “uomini immediati”, sono in realtà stupidi. Egli ammettere di invidiare questi, ma nel suo subconscio si consola di non esser stupido. Per cui il voler, anzi, il “dover” ammettere l’inferiorità delle persone che sono riusciti a ottenere ciò che lui non ha ottenuto, è anch'esso un sotterfugio della mente per non cadere nella disperazione. Infatti si può notare leggendo il testo come il protagonista riapplichi lo stesso meccanismo di autodifesa più e più volte. Ma egli non è Don Chisciotte, si accorge di mentirsi e ricade in questo circolo vizioso: “mi commisero di essermi commiserato”.
Nella mia interpretazione qui sopra riportata ritengo di riuscire a vedere tutta questa complicazione nel monologo che lui scrive. È forse superbo da parte mia affermare che ogni cosa sarebbe assolutamente logica se si seguisse la chiave di lettura da me fornita, ma ugualmente lo dichiaro e lo sottoscrivo.
L’opera esordisce con l’affermazione che l’io narrante è cattivo e dà una serie di esempi di questa cattiveria, come ad esempio il lavoro. Egli spiega che era una persona che si divertiva nel vedere la sofferenza altrui. È pure malato al fegato ma non vuole curarsi per cattiveria gratuita, anche se fosse stato a suo danno, lui è sempre stato così. Nell’immediato dopo si contraddice affermando che nulla di ciò affermato riguardante il suo esser malvagio era vero. Egli è sempre stato una persona incoerente, vuole esser buono o buono ma non ci riesce. La sua incoerenza è tale che anche i suoi sbalzi d’umore sono imprevedibili.
Egli non è stato capace neanche di essere un insetto: il protagonista si ritiene perdente a tal punto che non è neanche un insignificante animale. Tuttavia è cosciente di tutto questo, anzi ritiene di essere più intelligente di gran parte della gente comune. L’autoconsapevolezza che lui ha è una malattia poiché nella vita basterebbe una coscienza “comune”, anzi ogni coscienza – puntualizza l’io narrante – è una forma di malattia. Ogni suo errore commesso capitava nel periodo di vita in cui più era cosciente della gravità dell’azione sbagliata, e più tale questa conoscenza era forte, più trovava la forza di infischiarsene. Smise di cercare soluzioni alle sue azioni sbagliate e addirittura si compiaceva della situazione miserevole in cui si trovava: era contento di essere un vigliacco proprio perché era capace essersene reso conto, ma questo piacere era dolceamaro. Il flusso di coscienza lo porta a discutere di come si sarebbe sentito colpevole per natura se qualcuno gli avesse dato uno schiaffo e da qui si rende conto dell’inutilità di essere magnanimi – cioè saper perdonare o dimenticare. Tuttavia coloro che sono vendicativi sono sciocchi e agiscono istintivamente, ma chi segue il proprio cuore e non è affetto da troppi pensieri può essere quasi migliore. Probabilmente una persona spontanea e normale sarebbe stupida e per cui egli invidia gli sciocchi. Per chi è pensieroso come il protagonista, gli ostacoli che si presentano durante il proprio percorso son un falso pretesto per fare marcia indietro. L’io narrante si chiede poi se l’uomo non pensieroso ma stupido sia quello davvero “normale” cioè come madre natura aveva voluto: “uomini immediati e d’azione” sono il tipo di personaggio che egli contrappone a sé.
Si torna a parlare del piacere nel dolore: tra i gemiti del dolore egli trova un senso di appagamento nel farsi percepire come vili, mascalzoni o inetti. Egli per noia forza se stesso ad amare, alcune volte ad autocompatirsi. Il “tedium vitae” lo porta a desiderare in modo casuale e questo finisce con il non desiderare poi più niente, cioè finire nell'inettitudine. Infine l’autore riprende temi trattati all'inizio e li sviluppa per dimostrare l’irrazionalità dell’uomo del XIX secolo.
Nella seconda parte l’io narrante vuole dimostrare come anche una persona istruita ed educata in modi “standard” dell’epoca possa evolvere pensieri irrazionali e fuori dal coro. L’autore intende ripercorrere tratti della propria biografia per un’autoanalisi e inizia a narrare dall'età di 24 anni. Egli era un impiegato della burocrazia di San Pietroburgo, città detestata da lui, e già ai tempi la sua psiche era compromessa da una bassa autostima da cui nasce l’invidia per i suoi colleghi di lavoro. Quest’ultimi ai suoi occhi sembravano quasi perfetti in confronto a lui. La sua giovane età lo caricava di quella forza di volontà tanto da ambire ad una metamorfosi di sé e ascendere a un qualcosa di migliore. Tuttavia l’odio nutrito nei confronti dei colleghi non lo trattenevano dal compiere azioni indegne e vigliacche.
Giunge a narrare il suo tentativo di sfidare a duello un ufficiale che si mostrava arrogante e l’ha sbeffeggiato in una trattoria. Egli inizialmente era determinato a sfidarlo ma ad ostacolarlo ci sono i suoi pensieri. All'inizio vorrebbe affrontarlo dopo avergli scritto una lettera con data e luogo. A questa ipotesi accostò quella di un lieto fine generata dal chiarimento dei due. Le fantasie del protagonista lo portano a immaginare una grande amicizia con l’ufficiale. Ripensando a come il avesse voluto essere amico di una persona che lo ha umiliato ritornò al pensiero della vendetta ma questa volta in piccolo: si accontenta di una spallata mentre si era imbattuto nell'ufficiale. Il fatto narrato spiega alla perfezione la parte del monologo in cui si parla di vendetta: il fatto che si ha ricevuto uno schiaffo, può offendere, ma preso dai propri pensieri non si pensa alla vendetta ma si realizza l’inutilità di causare più danno a se stessi con un’azione violenta. Infatti il protagonista si pente anche di quella sua piccola vendetta, giudicandola prima meschina poi inconcludente.
Tornando alla sua ambizione di emergere socialmente, egli descrive come si è approcciato ai suoi ex-compagni di scuola. Con fatica i suoi amici riuscirono ad accettarlo, lui ormai ha gettato via il suo orgoglio pur di tentare la salita e riesce a farsi invitare a cena. Continua a persistere il suo senso di inferiorità anche nei confronti dei suoi ex-compagni. Il suo orgoglio viene ulteriormente ferito quando egli si ubriaca durante la cena e come un fenomeno da baraccone, tutti lo trattano come lo zimbello da prendere in giro. I suoi compagni lo portano ad una casa chiusa. Qui incontra una prostituta di nome Liza cui fa credere di essere un ricco filantropo pronto a migliorare le condizioni di vita della donna e infine dichiara falsamente il suo amore. Dopo qualche giorno la ragazza si presenta alle porte di casa del protagonista, il quale prepotentemente sfoga la rabbia dell’umiliazione subita sulla povera donna. La sforza in atti carnali, le fa violenza e infine le getta i soldi rozzamente trattandola in modo turpe. La prostituta non accetta il denaro e fugge via piangendo. Si sente spregevole e riluttante mentre ripensa alle proprie azioni: egli non è capace di umiliare chi considera inferiore a lui e non è capace di muovere un dito quando la situazione è invece capovolta. Si riduce così a pensare di valere meno di qualsiasi uomo sulla terra e queste sensazioni vengono descritte nel monologo che lui fa nella prima parte dell’opera.
COMMENTO DELLA PRIMA PARTE
Le “Memorie dal sottosuolo” si aprono con un monologo del protagonista. Questi inizialmente non si presenta, ma inizia una descrizione del proprio essere ex-abrupto. Nel monologo egli si contraddice e smentisce persino ciò che ha appena smentito. Si evince dal testo una persona estremamente consumata dal proprio essere inetto, non capace di percorrere fino in fondo la strada del “personaggio buono” che già scappa a ritroso sulla via del “personaggio cattivo”. Ma egli non è neanche capace di essere cattivo fino in fondo poiché la sua natura, propensa a essere una persona per bene, glielo impedisce.
Egli è malato al fegato, ma non vuole curarsi. È appunto una cattiveria, ma una cattiveria fine a se stessa, completamente improduttiva e anzi, dannosa nei propri confronti. Non si comprende dal testo se questa decisione di non curarsi sia una forma di schizofrenia – il protagonista stesso fa intendere che ne soffre – o è una maniera per lui di dimostrare a se stesso che in qualche modo è cattivo e determinato a esserlo: quest’ultima ipotesi sarebbe confermato dal desiderio di voler essere un qualcuno o di cattivo o di buono o comunque un personaggio che si possa definire – e quindi delimitare – con un solo preciso aggettivo. Ma il suo esser pigro, stanco e tedioso nei confronti della vita, non lo invoglia nel compiere una decisione: se vuol rimanere buono, ciò gli costa fatica, inoltre tutti i buoni che egli ha incontrato sembrano essere sciocchi; se egli invece vuol diventare cattivo, deve dominare
la sua coscienza e andar contro la sua natura: si tratta comunque di uno sforzo immane. Dunque fare un male a se stesso dichiarandolo una cattiveria, a mia analisi e interpretazione, è un modo pigro e veloce per definirsi cattivo: infatti questa “cattiveria” non è di danno a nessuno e dunque non va contro la sua indole sottomissiva e tendente al buono. Ma come ingannarsi se noi stessi sappiamo ciò che si cela sotto al nostro inganno? Egli infatti non riesce a ingannarsi. Nonostante cerchi disperatamente di trovare prove del suo esser cattivo affermando di esser stato un prepotente lavoratore e di aver burlato molte persone, alla fine si contraddice, come se la sua autoconsapevolezza avesse rivelato la verità, ormai accortasi che era impossibile raggirare se stessa: lui non è malvagio e il fatto che fosse un cattivo lavoratore è una menzogna. Ma una menzogna per ingannare chi? Probabilmente lui stesso. E per quale motivo? Per non sforzarsi di essere una persona senza contraddizioni: se egli è già un qualcuno, o buono o cattivo, egli avrebbe già raggiunto l’obiettivo della sua vita.
Egli poi dice di non essersi pentito delle sue azioni. Mente. C’è nelle sue parole un rimprovero a se stesso e anche una forma pentimento. Anche qui è un mentire a se stessi. Questa volta mente per lo stesso motivo di prima: è la pigrizia. Pentirsi equivarrebbe a struggersi nelle memorie del passato, e oltre che inutile, è faticoso. Egli è conscio di ogni suo comportamento scorretto, ma il “non potevo farci nulla” è la risposta che la sua indole impone. Infine egli sostituisce alla sensazione di colpa e di distruzione, una sensazione di aspro piacere. Forse l’irrazionalità che cerca di trasmettere l’autore non è altro che una razionalità eccessiva e inconscia guidata dalla paura, una paura che muta in pigrizia. Per comprendere meglio la mia personale interpretazio-ne, si può far ricorso ad un esempio: la volpe e l’uva. Cosa fa la volpe quando non riesce a cogliere l’uva? La rinnega: l’uva è in realtà aspra e questa impressione non è ipotesi ma certezza innegabile nonostante prove empiriche fornite dalla ragione. La volpe si compiace del fatto di non aver colto l’uva, sarebbe fatica sprecata, ma una parte di lei sa che quel grappolo in realtà è squisito. Più il suo subconscio piange nel veder l’uva così dolce, più ella ha bisogno di mentire a se stessa fino a provare piacere per opprimere il dispiacere. Ammettiamo che l’uva sia l’obiettivo di vita della volpe come l’esser una cosa definita sia l’obbiettivo del protagonista. Forse se avesse allenato le sue zampe sarebbe riuscita ad arrivare al grappolo d’uva, ma pur avendo questo in mente, la volpe non si muoverebbe. Il “forse” mette paura: cosa accadrebbe se poi la volpe fosse vicinissima al grappolo e non riuscisse comunque a raggiungerlo in tempo, prima che marcisca l’uva o che lei stessa invecchi? Delusione, cui segue la depressione. Allora si può valutare la vigliacca decisione della volpe come un atto assolutamente razionale. D'altronde non è vero che provare non costa niente, provare ti fa sperare. Si trova nella stessa situazione il protagonista delle memorie: egli non vuole provare, la paura di risultati negativi lo ferma. La vita del protagonista è dunque fallimentare, non avendo raggiunto nessun obiettivo ma scappando continuamente.
Rimanendo nella favola di Esopo, possiamo cercare di vedere cosa accadrebbe alla volpe quando l’uva è già marcia e la volpe già vecchia: la bestia ha il rimorso di non aver tentato, ma lo negherà. Quando si sarà accorta che forse valeva la pena di rischiare di rimaner delusi per quel grappolo d’uva, la mente fragile tenterà nuovamente una fuga: infatti il sentimento di rimorso fa ancora più paura di quella della delusione. I pensieri imposti a se stessi saranno allora ancora più prepotenti. La volpe dirà a se stessa che non ha tentato di cogliere l’uva non perché aveva paura non poterci arrivare, ma per una questione di autolesionismo. Ci vuol poco per convincersi di questa propria versione dei fatti, infatti la volpe, ritenendosi un perdente, odia se stessa.
Ma di nuovo daccapo: come può il protagonista ammettere di essere un perdente? Ammettere ciò significherebbe mandare in fumo tutto quelle menzogne fatte a se stessi, eppure le prove tangibili della propria inettitudine sono di fronte a lui: infatti non ha mai raggiunto un solo obbiettivo. Qui il protagonista pensa che tutte le persone che ottengono un qualcosa attraverso l’azione, cioè gli “uomini immediati”, sono in realtà stupidi. Egli ammettere di invidiare questi, ma nel suo subconscio si consola di non esser stupido. Per cui il voler, anzi, il “dover” ammettere l’inferiorità delle persone che sono riusciti a ottenere ciò che lui non ha ottenuto, è anch'esso un sotterfugio della mente per non cadere nella disperazione. Infatti si può notare leggendo il testo come il protagonista riapplichi lo stesso meccanismo di autodifesa più e più volte. Ma egli non è Don Chisciotte, si accorge di mentirsi e ricade in questo circolo vizioso: “mi commisero di essermi commiserato”.
Nella mia interpretazione qui sopra riportata ritengo di riuscire a vedere tutta questa complicazione nel monologo che lui scrive. È forse superbo da parte mia affermare che ogni cosa sarebbe assolutamente logica se si seguisse la chiave di lettura da me fornita, ma ugualmente lo dichiaro e lo sottoscrivo.