Opera tratta da La tregua, romanzo autobiografico.
La tregua inizia esattamente dove Se questo è un uomo ha fine, ovvero dall'ingresso delle avanguardie sovietiche nel campo di Aushiwitz: quattro giovani soldati osservano sconvolti e ammutoliti lo spettacolo del Lager. I sovietici organizzano i soccorsi, poi Levi e i sopravvissuti sono portati al Campo Grande, il Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco Lazzaretto. Qui lo scrittore vede Hurbinek, il bambino nato nel Lager. E solo dopo, una volta ristabilitosi, cercherà di mettersi in viaggio per tornare a casa.
Il narratore definisce il piccolo Hurbinek un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Il bambino incarna l'innocenza devastata, l'orrore della guerra allo stato puro. Il mondo degli adulti lo ha privato di tutto, principalmente di una identità (dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome) e, in sostanza, della possibilità di esistere.
La testimonianza di Levi acquista forza e immediatezza, grazie anche al linguaggio asciutto, razionalmente analitico e meditativo. Lo scrittore si sforza di comprendere e di definire, per mantenere vivo il segno della ragione di fronte all'assurdità del male commesso da uomini sopra altri uomini. Il linguaggio è rapido, scarno, essenziale. Di fronte a una degradazione così evidente e così totale, non c'è bisogno di commentare, di esprimere sdegno o indignazione, perché i fatti parlano da soli.
In realtà però emerge da questo brano anche una forte commozione, che si esprime nella ripetizione del nome del bimbo che non aveva nome (Hurbinek, che aveva tre anni... Hurbinek, che aveva combattuto... Hurbinek, il senza-nome... Hurbinek morì): di fronte a quel piccolo essere umano sofferente, si leva un inno all'umanità calpestata e sofferente.
La tregua inizia esattamente dove Se questo è un uomo ha fine, ovvero dall'ingresso delle avanguardie sovietiche nel campo di Aushiwitz: quattro giovani soldati osservano sconvolti e ammutoliti lo spettacolo del Lager. I sovietici organizzano i soccorsi, poi Levi e i sopravvissuti sono portati al Campo Grande, il Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco Lazzaretto. Qui lo scrittore vede Hurbinek, il bambino nato nel Lager. E solo dopo, una volta ristabilitosi, cercherà di mettersi in viaggio per tornare a casa.
Il narratore definisce il piccolo Hurbinek un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Il bambino incarna l'innocenza devastata, l'orrore della guerra allo stato puro. Il mondo degli adulti lo ha privato di tutto, principalmente di una identità (dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome) e, in sostanza, della possibilità di esistere.
La testimonianza di Levi acquista forza e immediatezza, grazie anche al linguaggio asciutto, razionalmente analitico e meditativo. Lo scrittore si sforza di comprendere e di definire, per mantenere vivo il segno della ragione di fronte all'assurdità del male commesso da uomini sopra altri uomini. Il linguaggio è rapido, scarno, essenziale. Di fronte a una degradazione così evidente e così totale, non c'è bisogno di commentare, di esprimere sdegno o indignazione, perché i fatti parlano da soli.
In realtà però emerge da questo brano anche una forte commozione, che si esprime nella ripetizione del nome del bimbo che non aveva nome (Hurbinek, che aveva tre anni... Hurbinek, che aveva combattuto... Hurbinek, il senza-nome... Hurbinek morì): di fronte a quel piccolo essere umano sofferente, si leva un inno all'umanità calpestata e sofferente.