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ll Monologo Interiore

Tecniche del romanzo psicologico
La novità più visibile del nuovo romanzo psicologico d'inizio Novecento è certamente il monologo interiore, che nella sua applicazione più radicale si trasforma nel flusso di coscienza.
Sono due tecniche attraverso cui il narratore fa spazio, sulla pagina, ai pensieri del personaggio: il quale, per così dire, pensa a voce alta, in forma più o meno libera.
  • Se i pensieri del personaggio emergono sì sulla pagina, ma sempre sottoposti al controllo logico-razionale da parte del narratore, allora si parla di monologo interiore. Questa è la modalità prediletta, nei suoi romanzi, da Svevo, che ebbe a definire il monologo interiore come la tecnica del teschio scoperchiato.
  • Se invece il personaggio pensa con libertà a voce alta, mediante una spontanea catena di ricordi, considerazioni,a associazioni d'idee (spesso così libera e spontanea da risultare poco decifrabile per il lettore), allora si parla di flusso di coscienza. E' la modalità prediletta da James Joyce nell'Ulisse (1922).
Il monologo interiore lungo i secoli
Il monologo interiore non è una novità della narrativa novecentesca; si mostra a tratti in opere e autori anche della letteratura classica. Un celebre esempio di monologo interiore è quello che Apollonio Rodio, autore del poema Le Argonautiche, scritto intorno al 250 a.C., attribuisce a Medea, interiormente divisa tra l'amore per Giasone e la fedeltà al padre e alla patria. Un'altra opera che fa largo spazio al monologo interiore del protagonista è Vita e opinioni di Tristram Shandy dell'inglese Laurence Sterne (pubblicato tra il 1760 e il 1767).
Più avanti, nel romanzo naturalistico di fine Ottocento, il monologo interiore fu utilizzato dagli autori per mostrare nel modo più veritiero i processi mentali dei personaggi. Per esempio Verga utilizza il monologo interiore nel Mastro don Gesualdo, per far emergere nel protagonista i ricordi e l'empito della vita interiore. Un'altra celebre pagina di monologo interiore è quella che narra gli ultimi momenti di Anna Karenina nell'omonimo romanzo di Tolstoj (1877).

Chi fu il 1° ad usare il monologo?
A parere di Joyce, il primo autore a utilizzare con sistematicità il monologo interiore in un suo romanzo fu il francese Edouard Dujardin nel romanzo I lauri senza fronde (1888). L'opera è costituita da una narrazione in prima persona, intercalata da dialoghi e con frequenti associazioni e riflessioni, che rapidamente si formano e si spostano nella mente del protagonista: Daniel Prince, giovane studente figlio di una ricca famiglia, che a Parigi, nell'arco di una giornata, incontra alcuni amici per strada e si prepara a trascorrere la serata con l'amata, l'attricetta Léa. Il monologo interiore fa emergere le connessioni tra gli stimoli della città, le sensazioni prodotte su Daniel dalla bellezza di Léa e il suo mondo interiore.

Monologo di Svevo
Il primo notevole utilizzo del monologo interiore nella nostra letteratura avvenne nei romanzi di Svevo. Già in Una vita (1892) il monologo interiore diviene, almeno a tratti, un mezzo efficace per spostare l'interesse del racconto dai fatti alla loro rifrazione nella coscienza. Osserviamo questo passaggio, in cui Svevo considera le cose dal punto di vista stesso di Alfonso deluso; il ragionamento del personaggio viene sottolineato nei momenti più emotivamente vivi attraverso l'uso di esclamazioni, domande, supposizioni.



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