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Letteratura del Novecento

Premessa
Una profonda rivoluzione, parallela a quella che ha trasformato il romanzo contemporaneo, si è attuata nell’arco del Novecento anche nel campo della poesia in versi. All’inizio di tale processo vi è il momento culturale e letterario del Decadentismo: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento esso affidò alla poesia il compito di sperimentare nuovi linguaggio, evocativi e simbolici.
L’espressione poetica del Decadentismo, chiamata Simbolismo, irradia tori inizialmente dalla Francia a partire dalla celebre raccolta I fiori del male (1857) di Charles Baudelaire e proseguita poi con Arthur Rimbaud, Paul Verlaine e Stephane Mallarme, finì per contagiare via via quasi tutte le maggiori voci poetiche italiana ed europee.
In Italia, furono due protagonisti come D’Annunzio e Pascoli a preparare il rinnovamento profondo delle forme e dei temi poetici.
Pur se in modi diversi, entrambi interpretarono il mutamento in atto:
  • in D’Annunzio, specialmente nella sua raccolta Alcyone, del 1903, i versi sembrano ridursi (o sublimarsi, a seconda dei punti di vista) a puro suono, a fonema, a evocazione sottile e mutevole, nel canto trionfante del poeta esteta che vuole assaporare ogni aspetto della vita della natura;
  • in Pascoli il poeta si rimpicciolisce, diviene un semplice fanciullo: a lui spetta di sentire il mondo con la massima immediatezza possibile e di esprimerlo non con il tono alto del maestro Carducci, ma con le sillabe umili e le immagini piccine che gli sono proprie.

Tanto in D’Annunzio quanto in Pascoli, a comandare non è più il messaggio intellettuale o civile, ma piuttosto il primato della sensazione (secondo la poetica dell’estetismo decadente). E’, questo, un tratto ormai nuovo e novecentesco. L’aspetto ancora ottocentesco, nella poesia di Pascoli e D’Annunzio, è che l’epicentro del canto poetico rimane l’io-poeta: un io dominatore (l’esteta dannunziano) oppure piccolo e umile (il fanciullino pascoliano), ma in entrambi i casi è il poeta che continua con convinzione a dire io. Saranno i poeti del Novecento a mettere in discussione questo primato dell’io-poeta.

La nuova poesia del ‘900 in Italia
Inaugurato da Pascoli e D’Annunzio, il rinnovamento poetico in Italia proseguì, in primo luogo, con i crepuscolari (Corazzini, Gozzano, Moretti) e i futuristi (Marinetti, Palazzeschi, quindi con i poeti vociani, collegati alla rivista La Voce (Rebora, Sbarbaro, Campana).
Le esperienze sopra ricordate accompagnarono l’emergere dei poeti classici del nostro Novecento:

  • Giuseppe Ungaretti (1888-1970), le cui prime raccolte (Il porto sepolto, del 1916, e Allegria di naufragi, del 1919) inaugurarono pienamente la nuova stagione lirica in Italia e anticiparono direttamente la stagione dell’Ermetismo;
  • Umberto Saba (1883-1957), il cui Canzoniere uscì in prima edizione nel 1921, ma la cui posizione rimase piuttosto defilata, rispetto alle ricerche di poesia pura o ermetica in corso a quell’epoca;
  • Eugenio Montale (1896-1981), che esordì nel 1925 con Ossi di Seppia; ma più vicini all’Ermetismo furono i due libri successivi, Le occasioni (1939) e La bufera e altro (1956).
  • L’Ermetismo si sviluppò negli anni trenta a Firenze, grazie a Salvatore Quasimodo (1901-68), Alfonso Gatto (1909-76), Mario Luzi (1914-2005), Vittorio Sereni (1913-83). Anche Sandro Penna (1906-77) fu vicino all’Ermetismo per la brevità e l’essenzialità delle sue liriche; ma per la musicalità prosastica del suo linguaggio, Penna è più accostabile a Saba.

La definizione di poesia ermetica fu proposta nel 1936 dal critico Francesco Flora con un’intenzione polemica: Flora voleva evidenziare che il linguaggio di quei giovani poeti era molto difficile, quasi per iniziati, come le dottrine dell’antico sapere magico-filosofico dell’Ermetismo. Ma in realtà l’effettiva difficoltà espressiva coincideva con una volontà di scavo interiore: l’Ermetismo parla non di ciò che è quotidiano, ma di ciò che è profondo ed essenziale; siamo vicini ai temi filosofici dell’esistenzialismo di Heidegger, Jaspers, Mounier e alla spiritualità di scrittori francesi come Paul Claudel, André Gide, Charles Peguy. Per rilevare ciò che è essenziale, l’Ermetismo adotta un linguaggio allusivo, evocativo, ricco di simboli e analogie (l’analogia, come la metafora, stabilisce rapporti di identità tra cose diverse: ma potremmo definirla una metafora intensiva, cioè una metafora che esige particolare concentrazione per essere intesa.

Il simbolismo
Tutte queste esperienze italiane vanno collegate alla stagione europea del Simbolismo e della poesia pura, due modi diversi per indicare l’unica grande fioritura lirica sorta sul solco del Decadentismo europeo. Queste le sue voci più note:

  • in Francia, Paul Valery (1871-1945) e Guillaume Apollinaire (1880-1918);
  • nella letteratura tedesca, l’austriaco Rainer Maria Rilke (1875-1926) e il tedesco Gottfried Benn (1886-1956);
  • nella poesia in inglese, l’anglo americano Thomas Stearns Eliot (1888-1965) e lo statunitense Ezra Pound (1885-1972);
  • in Spagna, Antonio Machado (1875-1939) e Federico Garcia Lorca (1898-1936);
  • in Russia, Anna Achmatova (1889-1966), Osip Mandel’stam (1891-1938) A. Esenin (1895-1925).


Nell’insieme, il ricco panorama che abbiamo riassunto, sia italiano che europeo, configura una nuova tradizione poetica, quella della modernità.

Caratteri della poesia moderna
Individuiamo i caratteri principali che caratterizzano la tradizione poetica novecentesca, differenziandola da quella precedente. In sintesi, sono cinque:
1. il superamento delle forme tradizionali: si adottano tecniche diversificazione molto diverse da quelle ottocentesche: spicca, in particolare, il verso libero e più in generale una parola poetica carica di energia, grazie ad accostamenti nuovi e imprevedibili, al ricorso di sinestesie e analogie;
2. la nudità verbale della poesia, come rifiuto di un’eleganza o bellezza puramente esteriore e come scelta per l’intensità e l’essenzialità espressiva: i poeti novecenteschi abbandonano lo sviluppo del poema lungo e prediligono forme brevi, dove a frase si scarnifica e i particolari vengono eliminati anche a costo di oscurità espressiva (è la cosiddetta poetica della parola);
3. il ridimensionamento del ruolo del poeta: l’autore si riduce a poetare quasi in sordina, in silenzio fino a vergognarsi del proprio essere poeta; nell’era della società di massa, il poeta non può costituire più una guida dell’opinione pubblica, ma diviene un semplice, solitario testimone del dolore del mondo.
4. un sentimento tragico dell’esistere umano, anche come risultato delle crisi storiche, dei totalitarismi, delle guerre mondiale ecc.: la poesia contemporanea non ha più né certezze né (spesso) messaggi positivi del male di vivere, così chiamato da Montale;
5. la persistente volontà di lanciare un messaggio agli uomini: molti poeti novecenteschi, malgrado tutto, non si arrendono al buio della storia, e concepiscono la poesia come l’ultimo luogo in cui affermare gli autentici valori umani, corrosi dall’alienazione o soffocati dai mali del mondo.

I primi due aspetti concernono lo stile; gli ultimi due i contenuti. Quello centrale, il ridimensionamento del ruolo del poeta, corrisponde alla crisi, tipicamente novecentesca, del ruolo dell’intellettuale.

Rivoluzione rispetto al passato
Tutti i cinque aspetti che abbiamo individuato rispondono a una nuova poetica: una visione della poesia (contenuti e linguaggio) completamente diversa rispetto a quella che aveva ispirato la produzione dei secoli precedenti.
La poesia tradizionale appariva chiaramente finalizzata al miglioramento civile, morale e religioso del pubblico. A tale scopo i poeti sceglievano forme belle e, insieme, razionali: le forme cioè più adeguate a supportare il messaggio. Prendiamo in considerazione i componimenti di Leopardi: certo, essi appaiono innovativi rispetto alla tradizione petrarchesca, ma, benché diano più spazio al sentimento del cuore, si fondano comunque su un impianto sintattico rigoroso, su ragionamenti inappuntabili sul piano logico: l’Infinito è costruito su un pensiero, prima espresso in prosa nello Zibaldone e quindi versificato.
Nel Novecento tutto ciò viene meno. La poesia tende a utilizzare una sintassi del tutto sua, quasi indipendente dalle esigenze del pubblico; non si pone più al servizio di un pensiero né è più finalizzata a comunicare contenuti logici. Il poeta finisce così per isolarsi dalla società, ben più di quanto non fosse isolato un Leopardi. Finisce per rinunciare a un linguaggio comune, alla lingua della tribù, secondo la terminologia usata da Mallarmé, per crearsi un linguaggio nuovo, una lingua speciale. La lingua speciale della poesia, fatta di parole, allusioni, riferimenti che solo pochi riescono a intendere.

Da eteronomia a autonomia della poesia
Il critico Luciano Anceschi ha riassunto tale passaggio in questi termini:

la poesia tradizionale si fondava sull’eteronomia del fatto poetico, era cioè finalizzata ad altro, cioè al mondo, alla società; finalizzata cioè a comunicare un messaggio di vero e di bene con le sue specifiche armi di bellezza estetica e di chiarezza logica;
adesso, nel Novecento, s’impone invece l’autonomia del fatto poetico, ovvero la poesia è finalizzata a se stessa: rinuncia a trasmettere ideali e messaggi, si chiude su se stessa, ritagliandosi un territorio tutto suo. In Italia furono soprattutto gli ermetici a incarnare l’idea di questa poesia separata, di questo linguaggio speciale.

Vi sono eccezioni a questa linea, seppur non numerose. Possiamo citare, nel panorama italiano tra le due guerre, quasi solo Saba con il suo Canzoniere. Egli riprende le forme tradizionali, come il verso endecasillabo e il sonetto, in nome di una ricerca di facilità, di chiarezza, di comunicatività; e tuttavia neppure la sua ispirazione è priva di ambiguità e contraddizioni, condizionata com’è dallo scavo psicoanalitico.
Gran parte della poesia del Novecento comunque, perlomeno fino alla Seconda guerra mondiale, è una poesia che rifiuta la lingua della tribù (espressione usata da Mallarmé, come si è detto, per indicare il linguaggio comune) e se ne costruisce una propria: una lingua di simboli e di analogie, già adottata da Pascoli, e poi da Ungaretti. E si tratta di una poesia non più finalizzata a lanciare un messaggio, non più pensata per un largo pubblico. Siamo davanti a quello che i critici chiamano un sistema autonomo. In esso la forma coincide, o rischia di coincidere, con il significato, un po’ come accadeva già in Alcyone di D’Annunzio.
Soltanto dopo il 1945 in Italia comincerà a prevalere una tendenza diversa. Il vero dei poeti post ermetici tornerà infatti un po’ più vicino al parlato e quindi, almeno in parte, anche all’esempio di Saba (seguito soprattutto dai poeti della cosiddetta linea sabiana: il citato Sandro Penna, e poi Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni, mentre i temi cominceranno a riavvicinarsi alla realtà sociale e politica.

Il poeta viene ridimensionato
L’autonomia del sistema poetico novecentesco costituisce un’importante conferma che, nel corso del XX secolo, il ruolo dell’intellettuale (e del poeta come intellettuale) diviene oggetto di un profondo ripensamento e spostamento. Il poeta deve rinunciare al proprio privilegio: le Grazie celebrate da Ugo Foscolo sono fuggite per sempre dal mondo; I tempi sono cambiati, gli uomini non domandano più nulla, dai poeti (A. Palazzeschi).
Nell’era della società di massa, dell’industria culturale, dell’alienazione, al poeta tocca un ruolo non più di guida riconosciuta dell’opinione pubblica, bensì di coscienza critica, spesso nascosta e solitaria. Anche se egli continua si a sentirsi un intellettuale, cioè un uomo di pensiero e di cultura, desideroso di trasmettere messaggi e valori ai suoi contemporanei, sa però che la gente non ascolta più i poeti: nella società di massa, altre voci (i giornali, i partiti, gli option makers, i personaggi che fanno tendenza) hanno soppiantato gli scrittori dal loro tradizionale ruolo di educatori e trasmettitori del vero. Da Rimbaud in avanti, il poeta si separa dalla gente comune: egli è anzitutto e solo poeta; segue una sua logica e una sua verità, che non sono più la logica e la verità di tutti.



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