Un’altra faccia dello sperimentalismo dannunziano è quella costituita dalla scrittura teatrale. Lo scrittore vi si dedicò dopo l’incontro con Eleonora Duse, sia per alimentare il repertorio della più famosa attrice di allora, sia per divulgare in modo più diretto e spettacolare i propri miti letterari.
Tra il 1896 e il 1899 compose tre drammi: La città morta, La Gioconda, La gloria. Il primo, ambientato in Grecia racconta la stria di una passione incestuosa (tra un archeologo e la sorella). Il secondo celebra l’artista superuomo, che abbandona la moglie in nome dell’arte (e per la bellissima modella che sta ritraendo in una statua). La terza inneggia a un superuomo-tribuno, proteso a fare di Roma il centro del mondo.
Stretti sono i legami fra queste opere e la narrativa coeva: infatti La città morta richiama Il trionfo della morte; La Gioconda pone al centro il tema dell’arte, analogamente a quanto accade nel romanzo Il fuoco; infine il dramma La gloria rappresenta la volontà di potere, secondo la linea delle Vergini delle rocce. Anche lo stile appare vicino a quello dei romanzi: dramma e narrazione propongono, senza vere differenze, un linguaggio elevato e una frase dall’andamento musicale, anche se spesso declamatorio.
Una seconda fase drammaturgica risale ai primi anni del XX secolo, quando nacquero nuove opere teatrali: Francesca da Rimini (1901), definita dall’autore stesso un poema di sangue e di lussuria; La figlia di Iorio (1904), l’opera migliore di questo teatro dannunziano, ambientata nelle campagne abruzzesi, tra passioni violente e selvagge; La fiaccola sotto il moggio (1905); La nave (1907); Fedra (1909); Le martyre de Saint Sebastien (1911), un dramma musicato da Claude Debussy e scritto in un’antica e raffinata lingua francese; infine Parisina (1912), musicata da Pietro Mascagni. Si tratta in tutti i casi di tragedie in versi costruite su soggetti storici. Rivivono in esse i drammi di personalità eccezionali (come le passionali Francesca da Rimini e Parisina), i fasti nazionalistici (La nave ricorda le origini di Venezia), i miti classici (Fedra).
Il teatro in versi dannunziano si propone come uno spettacolo magniloquente, solennemente letterario; tuttavia, l’effluvio di parole non approfondisce i caratteri e risulta, sulla scena, scarsamente teatrale.
Tra il 1896 e il 1899 compose tre drammi: La città morta, La Gioconda, La gloria. Il primo, ambientato in Grecia racconta la stria di una passione incestuosa (tra un archeologo e la sorella). Il secondo celebra l’artista superuomo, che abbandona la moglie in nome dell’arte (e per la bellissima modella che sta ritraendo in una statua). La terza inneggia a un superuomo-tribuno, proteso a fare di Roma il centro del mondo.
Stretti sono i legami fra queste opere e la narrativa coeva: infatti La città morta richiama Il trionfo della morte; La Gioconda pone al centro il tema dell’arte, analogamente a quanto accade nel romanzo Il fuoco; infine il dramma La gloria rappresenta la volontà di potere, secondo la linea delle Vergini delle rocce. Anche lo stile appare vicino a quello dei romanzi: dramma e narrazione propongono, senza vere differenze, un linguaggio elevato e una frase dall’andamento musicale, anche se spesso declamatorio.
Una seconda fase drammaturgica risale ai primi anni del XX secolo, quando nacquero nuove opere teatrali: Francesca da Rimini (1901), definita dall’autore stesso un poema di sangue e di lussuria; La figlia di Iorio (1904), l’opera migliore di questo teatro dannunziano, ambientata nelle campagne abruzzesi, tra passioni violente e selvagge; La fiaccola sotto il moggio (1905); La nave (1907); Fedra (1909); Le martyre de Saint Sebastien (1911), un dramma musicato da Claude Debussy e scritto in un’antica e raffinata lingua francese; infine Parisina (1912), musicata da Pietro Mascagni. Si tratta in tutti i casi di tragedie in versi costruite su soggetti storici. Rivivono in esse i drammi di personalità eccezionali (come le passionali Francesca da Rimini e Parisina), i fasti nazionalistici (La nave ricorda le origini di Venezia), i miti classici (Fedra).
Il teatro in versi dannunziano si propone come uno spettacolo magniloquente, solennemente letterario; tuttavia, l’effluvio di parole non approfondisce i caratteri e risulta, sulla scena, scarsamente teatrale.