Si trattava di una condizione simile a quella in cui si era trovato Manzoni quasi un secolo prima.
- Sia Svevo sia Manzoni erano dialettofoni, parlavano cioè il dialetto per la comunicazione quotidiana e familiare: Svevo il dialetto triestino, affine al veneto, Manzoni il dialetto milanese.
- Entrambi usavano invece una lingua straniera per gli usi sociali: Svevo usava il tedesco (a scopi burocratici e commerciali), Manzoni si serviva del francese per fini culturali.
- Entrambi, infine scelsero l'italiano per la scrittura letteraria. Era una scelta dettata anche da finalità politiche: l'attaccamento alla letteratura italiana era tradizionale per la società triestina che si sentiva estranea al mondo asburgico, proprio come Manzoni aveva scelto l'italiano per i suoi Promessi Sposi, finalizzati a dare una comune patria linguistica a tutte le genti della penisola.
La scelta dell'italiano come lingua letteraria implicò per Svevo e Manzoni la necessità d'imparare l'italiano come si farebbe con una lingua straniera. A tale scopo Manzoni nel 1827 dimorò alcuni mesi in Toscana; Svevo s'immerse intorno al 1880-85 nei libri della Biblioteca Civica di Trieste. Altri concittadini di Svevo sceglieranno come lui la professione di scrittori, come Slataper e Saba: essi però avranno avuto la possibilità di recarsi a Firenze per impratichirsi nel toscano. Invece Svevo poté contare su una preparazione scolastica di tipo solo tecnico commerciale (appresa in tedesco) inoltre dovette iniziare presto a lavorare. Non poté dunque conoscere il toscano di prima mano.
Tale lacuna ha ripercussioni evidenti nelle sue opere, soprattutto per due aspetti:
- le incertezze morfosintattiche: spesso Svevo usa in modo scorretto alcune preposizioni in espressioni che sono calchi dal tedesco (per esempio: Sarebbe stato di dire perché... Attraverso al pensiero nobilante di Amalia ecc.);
- le incertezze lessicali: da qui il suo vocabolario ora arcaicizzante (per esempio: i portati per i doni, adusti per inariditi, aggradevoli per gradevoli ecc), ora sciatto e povero (continuammo a succhiellare, termine gergale per sfogliare le cartelle).
Tuttavia Svevo non era affatto un illetterato o uno scrittore ingenuo o naif. Soprattutto al tempo della Coscienza di Zeno avrebbe potuto scrivere in modo più elegante o letterario; ma non volle mai ripulire in profondità la lingua della patina di dialettalismi e arcaismi. In sostanza, scelse di scrivere male, o meglio, di utilizzare quello che Montale chiamò uno stile commerciale. Sempre Montale però si accorse che quel linguaggio era il solo che fosse connaturale ai suoi [di Svevo] personaggi. La neutralità e piattezza stilistica erano per Svevo un mezzo di sincerità, di adesione ai contenuti.
La sua prosa scialba e uniforme intendeva infatti riprodurre la banalità e la monotonia della psicologia e della vita dei suoi personaggi: il vocabolario è povero perché è povera l'esistenza interiore di chi lo parla.
Si rivela qui quella scelta di realismo che è il fondamento della poetica sveviana: una scelta vicina a quella compiuta, negli stessi anni, da Pirandello, un altro prosatore che preferisce la sobrietà a qualsiasi affettazione e magniloquenza.
Va perciò preso con prudenza quanto Zeno affermerà nella Coscienza, scusandosi per il suo brutto italiano: Una confessione per iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana [cioè di buona forma letteraria] noi mentiamo! Se egli [lo psicanalista] sapesse come raccontiamo con predilizione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario!
Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto. L'osservazione di Zeno è uno degli infiniti sotterfugi dietro cui egli si nasconde per mascherare e mistificare la realtà: Zeno utilizza cioè la propria (pretesa) scarsa padronanza della lingua per giustificare preventivamente le proprie bugie.