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Analisi: Guido i vorrei che tu e lapo ed io


Analisi del testo:

Livello metrico
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e invertite nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC. Questo schema metrico, frequente in Cavalcanti e spesso ricorrente nelle poesie della Vita nuova [G6b, G10, G13b], presenta nelle quartine una serrata omofonia tra le rime. Nella prima terzina si succedono invece tre versi privi di rima, che vengono poi specularmente riproposti dalla seconda terzina; tra le due rime in C sono interposti ben quattro versi. Ma l’effetto di rottura dell’omofonia è in questo sonetto temperato dagli stretti rapporti che legano le rime in A delle quartine (-io) e le rime in C delle terzine (che presentano le stesse vocali in ordine invertito: -oi) e, ancor più chiaramente, dalla somiglianza tra le rime in B delle quartine (-ento) e le rime in D delle terzine (-enta, con variazione della sola vocale finale).

Livello lessicale, sintattico e stilistico
Tema del componimento è il desiderio, il sogno: lo testimoniano, tra l’altro, parole-chiave come «talento» (v. 7) e «disio» (v. 8), o una parola come «contenta» (v. 13) che si riferisce alla realizzazione del desiderio. La rappresentazione della situazione desiderata è introdotta dal condizionale «vorrei» del v. 1, dal quale discende una catena sintattica rigorosissima, che si snoda lungo due proposizioni oggettive coordinate (vv. 1-3), da cui dipendono (oltre alla relativa dei vv. 3-4) le due consecutive della seconda quartina (l’ultima delle quali regge a sua volta due altre subordinate: «vivendo sempre in un talento» e «di stare insieme»). È sempre il «vorrei» del v. 1 a governare sintatticamente gli infiniti e i congiuntivi delle terzine (vv. 9-13), benché queste siano divise dai versi precedenti da un punto fermo.
Tale rigorosa e logica costruzione sintattica non impedisce però che il sonetto assuma un’andamento sognante, inducendo il lettore a perdersi nella contemplazione delle singole immagini e situazioni. Gli espedienti sintattici che concorrono a generare questa impressione sono essenzialmente tre:
1) L’uso del polisindeto (la congiunzione «e» ricorre per ben sette volte) guida il lettore a soffermarsi, più che sull’impianto logico-sintattico del sonetto, su ciascuno dei singoli oggetti del desiderio; questi balzano così nettamente in primo piano, prevalendo sulla tessitura logica del discorso. L’effetto di rallentamento contemplativo del ritmo è particolarmente sentito nel secondo emistichio del v. 1 («che tu e Lapo ed io»), in cui le congiunzioni si inseriscono in un tessuto verbale fatto di parole brevi, monosillabe o bisillabe, inducendo il lettore a indugiare su ciascuna di esse.
2) Nella prima terzina i nomi e i riferimenti alle donne desiderate occupano i primi due versi, e precedono, per anastrofe, il verbo che li regge («ponesse», v. 11, a sua volta retto da «vorrei», v. 1). Anche in questo caso, il primo piano è occupato dagli oggetti del desiderio che prevalgono sulla tessitura logica del discorso.
3) I congiuntivi e gli infiniti della seconda terzina (ma anche il «ponesse» del v. 11), pur essendo sintatticamente dipendenti da «vorrei», possono essere letti autonomamente. Le due terzine assumono in tal modo un valore esclamativo-desiderativo. L’uso del congiuntivo in questa funzione è assai comune nella lingua parlata; quanto all’infinito, va ricordato che questo modo verbale è frequentemente utilizzato per descrivere le situazioni piacevoli in un genere di poesia di ascendenza provenzale, il plazer (in cui si elenca una serie di situazioni gradevoli che ci si augura di vivere), al quale qui Dante evidentemente si rifà1.



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