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Capitolo 25 de I Promessi Sposi - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del venticinquesimo capitolo (cap. XXV) del celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.


La struttura

Il capitolo si ricollega idealmente all'ottavo capitolo, conclusosi con l'abbandono del paese da parte di Renzo e delle due donne, in seguito al fallimento della notte degl'imbrogli. Nella prima parte, infatti, si descrive il rientro al paese di Lucia e della madre: la necessità di trovare un rifugio sicuro per la giovane porta in scena due nuovi personaggi, don Ferrante e donna Prassede, di cui si parlerà più avanti.
Il capitolo ha una funzione importante nell'intreccio: in esso infatti giungono a compimento varie fasi del racconto che erano state momentaneamente interrotte. Abbiamo, così, il ritorno a casa della giovane; il fallimento dei piani don Rodrigo; il colloquio chiarificatore tra don Abbondio e il cardinale, desideroso di conoscere le ragioni del matrimonio mancato.
La struttura del capitolo appare varia anche per l'uso della tecnica del flash-back: per questo motivo, la fabula e l'intreccio non coincidono.



I personaggi e le tecniche narrative


Don Rodrigo
Apre il capitolo il riferimento a don Rodrigo. In paese non si parla che di lui: le sue imprese sono sulla bocca di tutti, anche di coloro che, per paura, prima tacevano. La figura del cattivo della storia si è andata via via appannando: all'inizio del romanzo, il prepotente signorotto era apparso sicuro di sé fino all'arroganza, circondato dai suoi bravi, arroccato nel palazzotto-fortezza, dal quale si dipartivano i fili dell'intrigo ai danni dei due promessi. La visita di padre Cristoforo e le parole minacciose del frate incrinano la sua fiducia in se stesso e nella forza che gli deriva da una condizione sociale privilegiata. Egli risulta ulteriormente diminuito dal confronto con altri due personaggi: il cugino Attilio, al quale deve confessare il fallito rapimento, e l'innominato, al quale si rivolge per consiglio e per aiuto. Il primo è un sottile diplomatico; l'altro è dotato di una statura morale ricca di sfumature e contrasti che lo rendono grandioso nel bene e nel male. Paragonato ad essi, egli è semplicemente un mediocre tirannello, ormai incapace di nuocere e costretto ad andarsene all'alba, per evitare di essere notato da qualcuno. La parabola discendente di don Rodrigo si conclude qui, con una fuga ingloriosa che dovrebbe sottrarlo alle chiacchiere, ma, soprattutto, al fastidio di incontrare il cardinale, in visita nella zona. La sua partenza è descritta efficacemente attraverso il discorso raccontato, con cui l'occhio del narratore coglie in modo impietoso e riferisce con ironia i particolari dell'evento.


Lucia
I sentimenti di Lucia sono sempre rivolti alle conseguenze del voto. Raccolta nel suo lavoro di cucito e dolorosamente tormentata dalla madre, ignara di quanto è accaduto, la giovane è ritratta dal narratore che, attraverso il discorso indiretto, ne rivela lo stato d'animo, segnato da una sofferenza interiore che spesso si esprime con il pianto. Lucia è però fiduciosa nella Provvidenza, animata dalla speranza di una guida sicura, quella divina , il cui intervento si concretizza nell'offerta di ospitalità da parte di donna Prassede.


Donna Prassede
Il narratore si assume il compito di presentare questo nuovo personaggio, per mezzo di un ritratto inizialmente orientato in senso positivo. L'aspettativa del lettore, che pensa di trovarsi di fronte a una figura moralmente ammirevole è gradualmente delusa: far del bene al prossimo è un mestiere che, come tutti gli altri, può produrre seri danni. A partire da questo momento, l'ironia del narratore, attraverso il contrasto apparenza-realtà, mette spietatamente in ridicolo donna Prassede e la distrugge.
La descrizione avviene per mezzo di una duplice tecnica narrativa, il discorso indiretto e l'indiretto libero, che tratteggiano la figura della donna da due punti di vista: quello dissacrante di chi, raccontando, vede il personaggio così com'esso è realmente, e quello della stessa donna Prassede che presenta le proprie convinzioni come assolutamente esatte e indiscutibili .
L'ottica del narratore e l'ottica del personaggio si scontrano continuamente producendo un effetto umoristico irresistibile che nasce dal contrasto fra le qualità positive che ella si attribuisce (apparenza) e quelle negative che effettivamente possiede (realtà):
— donna Prassede si ritiene intelligente, ma in effetti è limitata e imbevuta di pregiudizi; non sa nulla di Renzo, tuttavia quelle poche informazioni distorte che circolano sul conto del giovane le bastano per classificarlo come uno scampaforca;
— si ritiene piena di carità e di sollecitudine verso il prossimo, ma in realtà è invadente e presuntuosa: è sicura, infatti, che le disgrazie di Lucia siano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono e si propone di liberare la giovane dal suo amore;
— si ritiene un'infallibile conoscitrice della natura umana, ma non riesce a cogliere le qualità positive di Lucia che ella, con esasperato autoritarismo, velato da ipocrita dolcezza e generosità, vorrebbe ridurre a copia di se stessa;
— si ritiene uno strumento della provvidenza , ma in realtà, prendendo il proprio cervello come misura di tutte le cose, manca di simpatia e di rispetto verso gli altri e le loro effettive esigenze.

In definitiva, è il tipo di donna che, presumendo di incarnare la verità, la carità e la perfetta applicazione delle massime evangeliche, finisce per essere l'antitesi dei personaggi autenticamente e profondamente cristiani (Federigo, fra Cristoforo, Lucia). L'ironia feroce del narratore smaschera la sua vera natura, che è quella dell'ipocrita travestita di falsa virtù: un modello di immoralità, contro cui la critica manzoniana è particolarmente severa.


Don Abbondio
Il colloquio tra il curato e il cardinale, mettendo in luce l'opposizione tra due modi del tutto opposti di concepire la vita e la missione sacerdotale, offre a don Abbondio l'opportunità di esporre una versione completa del proprio sistema di vita.
L'argomento del dialogo, iniziato con una richiesta di giustificazione dell'operato del parroco, finisce per trattare sul problema dei rapporti tra i principi della religione cristiana e la loro effettiva applicazione nelle situazioni concrete dell'esistenza.
Don Abbondio condivide, in linea di massima, le idee del suo interlocutore, ma il sacrificio di sé ha un limite e questo limite è la propria salvezza, la propria incolumità fisica. Quindi, poste simili premesse egli non può accettare la logica del cardinale, che è un sincero e coraggioso combattente per la fede, un santo. Le parole di quest'ultimo non possono in alcun modo incidere sull'animo dell'altro che non è in grado di comprenderle: si tratta di un vero e proprio dialogo tra sordi.
Tra i due, il personaggio più riuscito è sicuramente don Abbondio, con la sua umanissima debolezza e il tormento interiore che gli fa ardentemente desiderare la fine immediata della discussione, del tutto inutile dal suo punto di vista.
La rappresentazione trae particolare efficacia dal fatto che le battute del curato sono poste su un duplice piano: quello delle risposte ufficiali al cardinale, sempre impacciate e confuse, e quello personale del soliloquio, in cui don Abbondio commenta e spiega tra sé e sé i fatti accaduti e la propria responsabilità, esprimendo quel che pensa realmente.
L'incontro si chiude con una sospensione del discorso, un momento di silenzio carico di significato. Non si tratta di ottenere una giustificazione ormai tardiva, poiché il danno è irrimediabile, ma di indurre il curato ad analizzare il proprio comportamento, a riflettere su di esso, a sviscerarne le ragioni.



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