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Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira - Guido Cavalcanti

Il sonetto di Guido Cavalcanti "Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira": testo, parafrasi, analisi del testo, figure retoriche e commento.
La Pia de Tolomei - Opera di Dante Gabriel Rossetti

Testo

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’ omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn conoscenza.




Parafrasi

Chi è questa che viene, che tutti la guardano, e fa tremare l'aria di lucentezza e porta con sé Amore, sicché nessuno può parlare, ma tutti sospirano? O Dio, che sembra quando gira gli occhi intorno? Lo dica Amore poiché io non lo saprei raccontare: la mia donna è tanto umile che al suo confronto giudico ogni altra la personificazione dell'ira. Non si può descrivere la sua bellezza, poiché a lei si inchina ogni nobile pregio, e beltà la considera come sua dea. La nostra mente non è così alta e noi non abbiamo una capacità tale da poterla conoscere adeguatamente.

oppure

Chi è costei che avanza e ogni uomo l'ammira, che fa vibrare di luce l'aria e conduce con sè Amore così che nessun uomo può parlare, ma ciascuno sospira? O Dio, che cosa sembra quando volge lo sguardo, lo dica Amore, perché io non lo saprei riferire. Mi sembra a tal punto umile e benevola, che ogni altra donna rispetto a lei la chiamo malvagia. Non si potrebbe descrivere la sua bellezza, dato che a lei si inchina ogni nobile virtù e la bellezza la indica come sua dea. La nostra capacità intellettuale non fu mai così profonda e non fu posta mai in noi tanta grazia divina da poterne avere conoscenza.



Analisi del testo


Livello metrico: 
Sonetto con rime incrociate nelle quartine e rovesciate nelle terzine, secondo lo schema secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC.

Ogni strofa del sonetto corrisponde infatti a un periodo e ogni verso corrisponde a una frase (tranne che per i vv.3-4 in cui è presente un enjambement). Sul piano delle scelte lessicali il poeta evita le consonanti aspre e le vocali di suono chiaro.


Livello lessicale
Da notare il frequente ricorso a sostantivi astratti (il latinismo “chiaritate”, “umiltà”, “ira”, il provenzalismo “piagenza”, e poi “virtute”, “beltate”, “salute”, “canoscenza”), che contribuiscono a creare un’atmosfera rarefatta, nella quale il dato sensibile tende a sfumare.

Il passaggio della donna amata) viene trasportato in una dimensione trascendente (sottolineata sia dai richiami scritturali, sia dalla esplicita invocazione a Dio del v. 5).

Di grande rilevanza anche il ruolo delle negazioni: “null’omo” (v. 4), “i’ nol savria contare” (v. 6), “Non si poria contar” (v. 9), “Non fu sì alta” (v. 12), “non si pose” (v. 13). I due ultimi periodi del sonetto (corrispondenti alle due terzine) iniziano con l’avverbio “non”; in due casi (ai vv. 6 e 9) la negazione si riferisce al verbo “contare”: ne risulta una forte insistenza sull’impossibilità, per la parola poetica, di descrivere adeguatamente l’apparizione della donna.
Sul piano sintattico sono frequenti le relative e le consecutive.


Livello tematico
Il tema di questo sonetto è quello, già guinizzelliano, della lode della donna amata. Sono molti, sia sul piano tematico che su quello formale – per esempio nelle parole-rima –, i riferimenti a Io voglio del ver la mia donna laudare. A prima vista dunque la rappresentazione della figura femminile, di cui fin dalle quartine si sottolinea la trascendenza (con l’attribuzione addirittura di tratti mariani) sembrerebbe ricondurre il componimento di Cavalcanti nell’alveo di uno stilnovismo cristiano (molti tratti, tra cui la stessa poetica dell’ineffabile, sembrano anticipare Dante). In realtà, se è vero che la donna appare come una figura superiore e inattingibile, non ci sembra che questo contraddica i presupposti averroistici del pensiero-poesia di Cavalcanti. Tutto sta a capire cosa debba intendersi per “trascendenza” in questo contesto. Più che apparire come un vero e proprio angelo, la donna è qui infatti presentata come una manifestazione sensibile dell’“umiltà” e della “beltate”: manifestazione dunque di due “virtù”, di altissimi ideali (o di forme, se vogliamo usare la terminologia aristotelica) che possono essere conosciuti solo dall’intelletto e per giungere ai quali si deve andare oltre l’impressione lasciata sui nostri sensi dal phantasma.
L’apparizione della donna ha, a ben vedere, conseguenze paradossali. Da un lato essa è la manifestazione sensibile di un mondo ideale e perfetto, che può essere conosciuto solo intellettualmente. Dall’altro però proprio la sua apparizione impedisce all’uomo di trascendere la percezione sensibile, di elevarsi alla conoscenza intellettuale della “umiltà” e della “beltate”. È questa appunto l’eterna sconfitta dell’uomo innamorato: egli deve confessarsi incapace di conoscere queste “virtù” proprio nel momento in cui, in qualche modo, le “vede”.
Appare chiaro che l’uomo sia destinato a questa sconfitta. In primo luogo, ce lo dimostra l’insistenza sull’impossibilità di rappresentare adeguatamente con la parola l’apparizione della donna: dapprima (vv. 3-4) essa toglie la parola agli uomini che la vedono; poi (v. 6) il poeta proclama la sua personale impossibilità di descrivere (“contare”) la sensazione prodotta dal suo sguardo; infine (v. 9) l’impossibilità di “contare” non è più solo dell’io lirico, ma diviene universale (“Non si poria contar”).
Le ragioni di quest’insistenza sulla poetica dell’ineffabile (un vero e proprio climax che parte dal verso 6) si chiariscono nell’ultima terzina, dove l’impossibilità di “contare” viene fatta discendere direttamente dall’impossibilità di avere “canoscenza”: in altre parole, non si può dire ciò che non si può sapere. La donna, abbiamo detto, è manifestazione sensibile dell’“umiltà” e della “beltate”; ma la compiuta conoscenza di queste idee (non sensibili, ma universali e puramente intellettuali) non può essere data all’uomo innamorato. La “mente” infatti non può giungere a quell’altezza (v. 12), all’uomo non è data questa possibilità di salvezza (“salute”, v. 13)1. E ciò perché la mente (come abbiamo chiarito nell’analisi di Voi che per li occhi mi passaste ’l core ) non è l’intelletto, ma piuttosto una parte dell’anima sensitiva, e precisamente il luogo della memoria e dell’immaginazione. Secondo la filosofia averroistica l’intelletto (che può conoscere le verità universali senza il continuo supporto dei sensi) non è dato ai singoli uomini. Esiste soltanto un intelletto unico e universale, immortale, comune all’intera umanità (l’anima del singolo uomo è invece destinata a perire). È vero che per Averroè l’intelletto si congiunge (copulatur) ai singoli uomini, i quali contribuiscono alla conoscenza e possono, a loro volta, riceverla, ma per far questo essi devono saper astrarre dalla visione sensibile, andare oltre il phantasma che domina la memoria e l’immaginazione: cosa, come sappiamo, impossibile per l’uomo in preda alla passione amorosa.
Si spiega quindi perché la “mente” (che è appunto, lo ripetiamo, il luogo della memoria e dell’immaginazione) non porta l’uomo innamorato verso il luminoso cammino della conoscenza, ma piuttosto lo allontana da essa. Come si vede, ancora una volta, la terminologia di Cavalcanti è rigorosissima. La trascendenza delle verità intellettuali, di cui la donna è manifestazione sensibile, lungi dal disegnare, come qualcuno ipotizza, il ritratto di un Cavalcanti vicino all’ortodossia cattolica, sembra confermare appieno le radici averroistiche del pensiero di cui si nutre la sua poesia.


Figure retoriche

Interrogativa retorica: Chi è questa che vèn?
Allitterazione: della nasale “m” o “n” nelle quartine: ven, om, mira, tremar, mena, amor, null’omo, ma, ciascun, sembra, quando, Amor, nol, cotanto, umiltà, dona, mi, chiam; della “r”: mira, tremar, are, Amor, parlare, sospira, sembra, gira, Amor, savria, contare, pare, altra, ver, ira; della “t” (v. 7): cotanto d’umiltà;
Enjambement: parlare / null’omo (vv. 3-4);
Iperbato: che sembra quando li occhi gira, / dical Amor (vv. 5-6); parlare / null’omo pote (vv. 3-4); cotanto d’umiltà donna mi pare (v. 7);
Anastrofe: di chiaritate l’are (v. 2);
Antitesi: umilità - ira (vv. 7-8);
Apostrofe: o Deo (v. 5);
Personificazione: dical' Amor (vv. 3, 6);
Chiasmo: parlare / null’omo pote, ma ciascun sospira (vv. 3-4);
Anafora: che /ch’ /ch’ / che (vv. 2, 8, 10, 14); non / non / e non (vv. 9, 12, 13);
Metafore: a lei s'inchin' ogni gentil (v. 10), e la beltate per sua dea (v. 11).
Esclamazione: O Deo, che sembra ...


Commento

È un sonetto di Guido Cavalcanti, caro amico di Dante, che aderì alla corrente stilnovistica. A contrario del maggior esponente (ovvero Guido Guinizzelli) Cavalcanti ha un modo diverso di interpretare il dolce stil novo; egli infatti utilizza un modo diverso di rappresentare gli elementi tipici di questa corrente letteraria:tutto è caratterizzato da un maggiore coinvolgimento emotivo, tutto acquista una valenza drammatica,di rappresentazione. In questo sonetto è presente il tema della lode,che si differenzia da Guinizzelli per il cadere dei paragoni naturali e per la trasformazione della donna in un essere sovrumano ed irraggiungibile.

Il sonetto comincia con una celebre quartina giustamente lodata: la bella donna appare tra gli sguardi ammirati e i sospiri. Non è una «entrata in scena» perché non ha nulla di spettacolare, ma una visione che crea, intorno a sé, un clima amoroso, come un'aria chiara che trema.

La frase iniziale è stata ripresa dal cantico dei cantici (quae est ista quae progreditur?); questa espressione cristiana collega la bellezza della donna a quella della Madonna, proprio perché la donna è presentata come un'apparizione fuori dall'ordinario e dalla realtà, "miracolosa" appunto. Nonostante l'aspetto fisico della donna non sia descritto, si può vedere la sua bellezza negli effetti che produce su coloro che la guardano; infatti l'arrivo della donna desta nel poeta e in tutti i presenti un turbamento, al punto che nessuno riesce a parlare. Il motivo dell'indescrivibilità, quindi, attraversa tutto il sonetto e ne diventa il tema principale. Nell'ultima terzina viene infine sviluppata una riflessione del poeta su sé stesso e sul fatto che non riesca con nessun aggettivo ad interpretare ed esprimere la bellezza della donna, quindi di non avere sufficiente capacità di conoscenza per comprendere a fondo il mistero che questa creatura angelica porta con sé.



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