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17° capitolo, Storia di dieci giorni, Se questo è un uomo - Riassunto

Riassunto:
L’ultimo capitolo del libro di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, narra della ritirata tedesca dal campo e del lento processo di riabilitazione dei prigionieri rimasti. Levi scrive in forma di diario gli avvenimenti che vanno dal 18 gennaio del 1945, al 27 gennaio del medesimo anno, raccontando come egli e gli altri che con lui furono costretti a rimanere nel campo si salvarono, o morirono di stenti. L’avanzata dell’Armata Rossa, nel ’45, costrinse i tedeschi a ritirarsi dai territori dell’Est e questo portò anche ad un abbandono totale dei campi di sterminio costruiti in Polonia e negli altri stati dell’Unione Sovietica. I tedeschi, però, fedeli alla “soluzione finale”, non permettevano ai loro prigionieri di andarsene, ma ne facevano lunghi drappelli, che venivano inviati in marcia a ritirarsi con le truppe delle SS: chi, fra i deportati, non era in forze di andare avanti, veniva freddamente ucciso lungo il percorso e abbandonato. Levi ci parla di come egli, essendo malato di febbre, fu costretto a restare confinato nel “Infektionsabteilung”, vale a dire una camera dove venivano ricoverati quanti rischiavano di contagiare gli altri prigionieri. Insieme a lui erano li segregati altri dodici prigionieri, anche loro malati, anche loro con in quarantena. Nelle operazioni di ritirata, racconta Levi, i tedeschi non badarono ai malati e lasciarono diverse baracche del Ka-Be, l’infermeria, colme di tifosi, febbricitanti e dissenterici. Nella sua baracca, Levi fa conoscenza con Charles e Arthur, entrambi francesi, che insieme a lui intraprenderanno un processo di riumanizzazione che permetterà a loro tre e agli altri ricoverati della baracca di sopravvivere. Sparsi per il campo, Levi e i suoi compagni, trovano gli oggetti e i viveri di cui hanno bisogno, abbandonati dai tedeschi nella loro fuga: è grazie alla ormai assente presenza di carnefici che i deportati possono riprendere a rilassarsi, a respirare e a relazionarsi fra loro come esseri dotati di una mente e un cuore e non come bestie “che aspettano che il vicino muoia per rubargli un quarto di pane”. Azioni fino ad allora inconcepibili, quali un ringraziamento in forma di beni, ceduti volontariamente, sono adesso di nuovo possibili fra i deportati rimasti al campo e in poco tempo Levi, Charles e Arthur ritrovano parte del loro “essere umani”, pur nelle condizioni di estrema miseria nelle quali ancora vertono e sono costretti a sopravvivere. L’annullamento delle barriere, che impedivano la normale espressione dell’umanità dei prigionieri e la fine della loro tortura è ben rappresentata da un squarcio nel filo spinato, descritto da Levi sotto i suoi aspetti simbolici: il superamento fisico di questa barriera è anche per i deportati il segno dell’annullamento del lager, che pian piano muore, e con esso muoiono i suoi effetti disastrosi negli animi dei prigionieri. Levi non si ferma a descrivere l’arrivo dei soldati russi al campo, ma dopo essersi dilungato, in forma di diario, nella descrizione della sua vita stentata alla baracca, passa, come per un ritorno al presente, alle considerazioni sui suoi compagni, visti con il senno di poi, alla luce dell’ormai completa liberazione dal campo. Dei dodici compagni che condivisero con lui l’agonia degli ultimi giorni, racconta, solo cinque se ne salvarono, fra i quali i suoi compagni di sventura Arthur e Charles.



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