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Storia: 2° Rivoluzione Industriale

Nella seconda metà dell'ottocento, in Europa e nel mondo, il processo di industrializzazione visse un'importante trasformazione che gli storici hanno definito seconda rivoluzione industriale. In una prima fase (1850-1870) questo sviluppo interessò la tecnologia, l'organizzazione della finanza e delle banche e il potenziamento delle infrastrutture e delle vie di comunicazione, che favorirono la circolazione e lo scambio delle merci. In una seconda fase (1870-1905) si assistette a una crescita senza precedenti dell'industria, grazie anche alla scoperta e all'utilizzo di nuove fonti energiche (petrolio, elettricità), nuovi metalli (acciaio, cromo, tungsteno, manganese) e nuovi strumenti operativi (macchinari, sistemi di produzione).

Un nuovo capitalismo
L'innovazione tecnologica e organizzativa comportò una progressiva concentrazione di imprese:
solo quelle che avevano a disposizione maggiori possibilità di investimento, un maggior numero di addetti e macchinari tecnologicamente più avanzati riuscivano a sopravvivere. Nacquero così i monopoli (organizzati in cartelli o trust), che detenevano il controllo su un prodotto o un settore produttivo. per far fronte alle nuove esigenze di imprese più grandi, anche nel mondo della finanza sorsero grandi banche che assunsero un ruolo sempre più importante come finanziatrici dell'industria (capitalismo finanziario). Un'analoga crescita interessò anche il mondo del commercio: le industrie acquistavano materie prime e compensavano queste uscite con il ricavato dello sfruttamento sempre più aggressivo delle risorse coloniali e con l'espansione dei mercati, ossia con la crescita delle aree in cui vendevano la proprie merci. In questa economia sempre più mondializzata, molti Stati adottarono fin dagli anni Sessanta il sistema monetario aureo, in cui il valore della moneta era calcolato in rapporto al prezzo dell'oro, che era stabilito a livello mondiale. L'espansione dell'industria e della tecnologia non si tradusse, però, in sviluppo dell'economia e tra il 1873 e il 1896 si ebbe una delle più lunghe crisi dell'età moderna, definita lunga depressione.
La fragilità dell'economia rese più feroce la competizione tra le nazioni più forti per acquisire nuovi territori coloniali.

Il colonialismo imperialista
I primi imperi coloniali risalivano al XVI secolo, quando, grazie alle esplorazioni geografiche, gli Europei avevano acquisito il controllo di gran parte del globo. Agli inizi dell'Ottocento nuove esplorazioni avevano riguardato soprattutto l'Africa, ma nell'ultimo quarto del secolo l'interesse economico spinse a una vera e propria corsa alle colonie e alla nascita dell'imperialismo. Alla fine del secolo le grandi potenze mondiali, Inghilterra, Francia, Belgio, Germania, Stati Uniti e Giappone, avevano imposto la loro sovranità su gran parte dell'Africa e dell'Asia. Il colonialismo imperialista, che cercò giustificazione anche nell'ideologica tesi di superiorità naturale dell'uomo bianco (o in un'analoga tesi della superiorità dei Giapponesi sui popoli vicini), non portò alcun beneficio ai popoli colonizzati, anzi lasciò dietro di sé una pesante eredità fatta di confini arbitrari, di monocolture agricole, di arretratezza e di sottosviluppo.

Movimento socialista e cattolicesimo sociale
Con l'industrializzazione si affacciò sulla scena politica e sociale una nuova protagonista: la classe operaia o proletariato industriale. Essa creò progressivamente delle forme associate che, ben presto, assunsero la forma di organizzazioni sindacali e politiche. Le prime conquiste furono l'acquisizione del diritto di sciopero, la creazione di una legislazione sociale che regolamentava i rapporti e le condizioni di lavoro, il miglioramento della situazione sociosanitaria sui luoghi di lavoro e l'accesso all'istruzione elementare per tutti. In ambito politico si affermò il movimento socialista, che si raccolse in associazioni transnazionali, punti di riferimento per i partiti e le associazioni dei lavoratori operanti nei vari Stati. Sulla questione sociale intervenne anche la Chiesa cattolica, che fece appello alla responsabilità delle parti sociali, sostenendo il diritto dei lavoratori a un salario giusto e il dovere dei proprietari a un uso sociale della ricchezza, contrapponendosi così sia al socialismo sia all'individualismo egoistico del liberalismo. L'intervento più significativo della Chiesa fu l'enciclica Rerum Novarum, promulgata nel 1891 da papa Leone XIII. Oltre a questo, la Chiesa si impegnò anche in un'intensa attività di assistenza e favorì la crescita di un associazionismo cattolico (casse rurali, società di mutuo soccorso, cooperative).

L'evoluzione politica mondale
Lo scenario europeo del secondo Ottocento vide come protagoniste Francia, Prussia, Inghilterra e Russia. Tra queste non vi era più l'Austria, ripiegata ormai in una politica difensiva: oltre ad aver subito la perdita delle province italiane, doveva affrontare le spinte nazionalistiche interne e inoltre contrastare l'espansionismo della Prussia e della Russia in quelle che da secoli erano state le sue zone di influenza. La soluzione politica trovata dall'imperatore Francesco Giuseppe fu la creazione dell'impero austro-ungarico (1867), costituito da due Stati diversi, con Costituzioni autonome e capitali distinte, ma entrambi a lui sottoposti.

La Francia del Secondo Impero
Francia era invece molto attiva sia nella politica interna che sul piano internazionale. Dopo la rivoluzione del '48 e l'instaurazione della Seconda Repubblica, nel 1851 salì al potere, grazie a un colpo di Stato confermato da due plebisciti popolari, Luigi Napoleone Bonaparte che nel 1852, attraverso un terzo plebiscito, ottenne la restaurazione dell'impero e il titolo di Napoleone III. Sotto il suo governo la Francia raggiunse un livello di industrializzazione molto elevato, al quale si accompagnò un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. Le scelte politiche dell'imperatore accontentarono sia il partito dell'ordine (composto del clero, dalla borghesia liberale e dai proprietari terrieri piccoli e grandi), che giudicava positivamente il rafforzamento dell'esercito, della polizia e dell'amministrazione statale; sia le classi lavoratrici, alle quali vennero concessi una legislazione sociale e diritti sindacali. A partire dal 1860, però, Napoleone III iniziò a perdere consensi, soprattutto a causa della sua rinuncia al protezionismo a favore dei prodotti francesi e della firma di un trattato di libero commercio con l'Inghilterra; a ciò si aggiunsero i numerosi interventi militari all'estero, che gli inimicarono del tutto l'opinione pubblica francese.

La Prussia di Bismarck
Al centro dell'Europa acquistava sempre maggiore influenza la Prussia, che aveva voluto l'evoluzione industriale più intensa dell'intero continente. Sotto la guida del cancelliere Otto von Bismarck e del re Guglielmo I di Hohenzollern, lo Stato prussiano assunse sempre più i caratteri di potenza militare, mentre il Parlamento venne progressivamente esautorato dei suoi poteri. Lo scopo basilare della politica di Bismarck era realizzare l'unità tedesca sotto l'egemonia della Prussia: questo provocò il conflitto con l'Austria del 1866, in cui anche l'Italia si schierò a fianco della nuova potenza tedesca. La vittoria della Prussia e i successivi tentativi per allargare la propria egemonia, attraverso accordi commerciali e trattati di alleanza militare con gli Stati tedeschi del Sud, provocarono la reazione della Francia e le due potenze arrivarono ben presto a scontrarsi, dando inizio a un conflitto che, passando da fasi di guerra aperta a farsi di ostilità latente, avrebbe interessato per molti decenni il cuore dell'Europa.

La guerra franco-prussiana e la nascita dell'impero germanico
Il pretesto per la guerra fu abilmente innescato da Bismarck, che sfruttò un contrasto tra Napoleone III e il re Guglielmo a proposito della successione al trono spagnolo. La guerra fu dichiarata dalla Francia nel luglio 1870, ma l'esercito francese crollò nel giro di pochi giorni, perdendo la sua definitiva battaglia a Sedan (12 settembre). Napoleone III fu costretto alla resa e il suo regime terminò: venne proclamata la Terza Repubblica, mentre i Tedeschi assediavano Parigi. In quella situazione i principi tedeschi offrirono al re di Prussia la corona del Secondo impero (Reich) germanico (il primo era stato il Sacro romano impero fondato da Carlo Magno nell'800 e terminato nel 1806). Parigi, bombardata e stremata dalla fame, si arrese nel gennaio del 1871 e alla Francia furono imposti un pesante armistizio e la perdita dell'Alsazia e di parte della Lorena.

La Comune di Parigi
Il popolo parigino non accettò la resa del governo repubblicano e il 18 marzo del 1871 insorse costituendo un governo rivoluzionario e democratico, impegnato nella realizzazione di uno Stato federale (la Comune) all'interno del quale tutte le comunità cittadine avrebbero goduto di una piena autonomia. La Comune però fu ben presto dilaniata da forti contrasti interni tra l'ala moderata, borghese-repubblicana, e quella socialista più radicale. Alla fine prevalse quest'ultimo gruppo, che il 26 marzo 1871 realizzò il primo regime proletario della storia. La radicalità delle posizioni dei cosiddetti comunardi facilitò la dura reazione dei conservatori, che in una settimana (21-28 maggio) riconquistarono Parigi, dopo una sanguinosa lotta che lasciò sul campo oltre 20.000 morti.

La Russia e la questione d'oriente
Nell'Europa orientale intanto cresceva l'influenza della Russia, anche se la società russa era ancora molto arretrata: mancava una classe borghese e permaneva il grande latifondo nobiliare, che si reggeva sulla servitù della gleba. Di fronte alle continue rivolte contadine, lo zar Alessandro II prese la decisione di riformare lo Stato e la società, iniziando con la promulgazione dello Statuto dei contadini liberati (1861). Tutte le sue riforme, però, affrettate e imposte dall'alto, fallirono, lasciando un profondo malcontento che favorì la diffusione di movimenti radicali. Ritornato su posizioni autocratiche, lo zar venne infine ucciso in un attentato nel 1881. Nel frattempo la Russia aveva cercato inutilmente di espandersi verso la penisola balcanica, ma le altre nazioni si erano coalizzate impedendoglielo. Il regista della politica europea, Bismarck, favorì la rivalità reciproca in modo da garantire la Germania: il risultato del congresso di Berlino (1878) fu un ritrovato accordo con l'Austria per ostacolare l'influenza russa nei Balcani.

L'Inghilterra vittoriana
La vera potenza egemone era ancora l'Inghilterra che, grazie allo sviluppo economico, si estraniò dai conflitti europei dedicandosi al consolidamento della propria organizzazione statale, economica e sociale e all'espansione dei propri domini coloniali, riuniti sin dal 1867 in una confederazione di Stati dipendenti dalla corona britannica, il Commonwealth. Avvantaggiata dall'esser stata la culla della prima rivoluzione industriale e dall'aver scelto il liberismo economico, l'Inghilterra dominava il commercio internazionale grazie alla propria organizzazione finanziaria e all'imponente flotta mercantile. Durante il suo lungo regno (1837-1901) la regina Vittoria collaborò sapientemente con il Parlamento e con due grandi primi ministri, Benjamin Disraeli e William Gladstone. Essi favorirono la modernizzazione dello Stato inglese potenziando servizi sociali e istruzione e promuovendo l'integrazione delle masse lavoratrici attraverso il riconoscimento delle associazioni dei lavoratori (Trade Unions, 1871) e la concessione del diritto di voto. Le loro riforme garantirono all'Inghilterra una lunga pace sociale.

Gli Stati Uniti
Dall'altro lato dell'Oceano Atlantico, intanto, negli Stati Uniti, crescevano l'occupazione e la produzione industriale, grazie a uno straordinario incremento demografico. Questo fu uno dei motivi della continua e ininterrotta espansione nei territori del Far West (che fra l'altro ebbe come conseguenza il genocidio delle popolazioni indiane) e l'acquisizione dei territori del Sud. Contemporaneamente, si acutizzò lo scontro sulla questione della schiavitù, che si risolse solo attraverso una lunga e sanguinosa guerra civile tra Stati del Nord e Stati del Sud (guerra di secessione, 1861-1865), e che terminò con la vittoria degli antischiavisti, senza risolvere i problemi di integrazione della popolazione afroamericana. Gli Stati Uniti parteciparono anche alla corsa delle colonie, occupando Cuba, Portorico, affermarono il proprio diritto a considerare l'America centrale e l'America meridionale territori sottoposti alla propria egemonia, in nome del proprio interesse nazionale. Complessivamente gli Usa posero le basi per sostituire nel XX secolo l'Inghilterra come potenza mondiale egemone.

L'occidentalizzazione del Giappone e la dissoluzione dell'impero cinese
Anche le due grandi civiltà orientali vennero coinvolte negli scontri coloniali. Il Giappone, organizzato come una società feudale guidata da un capo militare, lo shogun, dovette accettare trattati commerciali svantaggiosi con gli Stati Uniti e vide limitata la propria sovranità, dato che gli Americani non potevano essere sottoposti al giudizio della legge giapponese (patti ineguali, 1853). Questo provocò una reazione nazionalistica che, grazie alle riforme intraprese dall'imperatore Mutsuhito a partire dal 1868, trasformò il Giappone in una potenza industriale e imperialista in grado di competere per l'egemonia dell'area.
Ben diverso fu invece il destino della Cina che, sottoposta a ripetuti attacchi militari, fu costretta a uscire dal proprio isolamento e ad aprirsi al commercio con l'Occidente. La potenza europea che per prima impose patti ineguali all'impero cinese fu l'Inghilterra nel 1842, ma in seguito anche Stati Uniti e Francia ottennero privilegi commerciali speciali. Dilaniata da rivolte popolari, causate dall'estendersi della povertà e dall'indebolirsi del potere imperiale, la Cina vide la propria millenaria cultura travolta e il proprio territorio diviso in sfere d'influenza controllate da Russia, Inghilterra, Germania, Italia e Stati Uniti.

L'Italia del secondo Ottocento il divario tra nord e sud
L'Italia era stata unificata politicamente, ma non socialmente né economicamente. Dato che essa era ancora in gran parte un paese agricolo, pesava molto il divario tra il Settentrione (dove erano diffuse molte piccole e medie aziende) e la Toscana (in cui prevaleva la mezzadria), che avevano migliorato i metodi di coltivazione e le condizioni di vita degli agricoltori, e il Meridione, dove era largamente diffuso il latifondo. Nel Sud i proprietari non investivano, né miglioravano i sistemi produttivi; l'analfabetismo, che aveva percentuali alte anche nel resto del Paese, riguardava in alcune regioni il 90% della popolazione e la situazione igienico-sanitaria e abitativa era più carente che altrove, favorendo maggiormente l'insorgere di malattie infettive. A questi fattori si aggiunse, dopo l'unità, il tracollo di molte imprese meridionali quando vennero abolite doganali interne.

Il commercio e le industrie 
Agli inizi del regno, anche l'industria italiana si trovava in condizioni decisamente arretrate: le materie prime erano molto limitate ed esportate grezze; l'industria metallurgica quasi inesistente per la carenza del combustibile fossile necessario alla lavorazione; l'industria meccanica si limitava alla cantieristica, che però entrò ben presto in crisi per l'inadeguatezza tecnologica e strutturale a produrre moderne navi a vapore. esisteva solo la piccola industria, per lo più alimentare o tessile, nelle campagne, dove era diffuso il lavoro a domicilio. Le scelte liberiste dei primi governi della Destra non riuscirono a mutare la situazione, anzi la peggiorarono, nonostante gli investimenti in infrastrutture (strade, ferrovie, ponti, porti, poste e telegrafi ecc.).
Questi, però, attrassero capitali esteri, che favorirono lo sviluppo del settore del commercio e la partecipazione estera alle imprese pubbliche italiane.
Sotto il governo della Sinistra, nell'ultimo ventennio del XIX secolo l'industria italiana compì un vero progresso, favorita dagli investimenti stranieri e dalla nascita di nuove banche, sorte appositamente con il fine di concedere prestiti a questo settore.
Dopo il 1897 sorsero le grandi industrie prevalentemente nel Nord, tessili (Rossi, Marzotto, Cantoni), siderurgiche e meccaniche (Falck, Ansaldo, Breda, Acciaieri di Terni), complessi quali quello idroelettrico della Edison, quello chimico della Montecatini, quello automobilistico della Fiat.

La questione sociale
Le difficili questioni economiche e sociali delle popolazioni italiane non trovarono inizialmente una forma di rappresentanza politica, dato che alla vita pubblica partecipava un numero ristretto di persone: aristocratici, notabili, proprietari. I movimenti più presenti erano il mazzinianesimo e l'anarchismo di Bakunin, fino a quando, nell'ultimo decennio dell'Ottocento sorsero, quasi contemporaneamente, il Partito socialista italiano (1892-1895), i cui primi leader furono l'avocato milanese Filippo Turati (1857-1932) e la sua compagna russa Anna Kuliscioff (1857-1925), e il primo movimento sindacale: le numerose società operaie di mutuo soccorso diedero vita, infatti, alle prime Camere del lavoro, finalizzate alla tutela dei diritti dei lavoratori.

L'Italia unita e i problemi che rimangono
Nella seconda metà dell'Ottocento l'Italia portò quasi a compimento il processo di unificazione politica, ma molti problemi si presentarono ai nuovi governanti: oltre agli squilibri sociali ed economici descritti sopra, le finanze pubbliche erano in condizioni disastrose; si poneva il problema di organizzare l'esercito nazionale, fondendo forse militari eterogenee e spesso divise da conflitti secolari; bisognava inoltre uniformare costumi e usi, pesi, misure e monete diverse; alfabetizzare popolazioni che parlavano prevalentemente il dialetto e che non avevano una lingua comune.
In quegli anni prese corpo la cosiddetta questione meridionale, che non riguardava soltanto i problemi derivanti dal diverso grado di sviluppo economico, ma anche le resistenze delle popolazioni al controllo governativo. La scelta centralizzatrice operata dal Piemonte, la coscrizione obbligatoria e la mancanza di miglioramenti nella vita dei contadini resero il nuovo Stato una realtà lontana ed estranea, a cui alcuni reagirono con atti di ribellione: questo fenomeno, definito impropriamente brigantaggio, fu affrontato solo con gli strumenti della repressione, rendendo ancora più acuti i sentimenti di estraneità e di rivolta.

Il governo di Destra
Oltre a tutti questi problemi vi era in Italia uno scollamento più ampio che negli altri Stati tra classe politica e popolazione. I due gruppi in cui si suddivisero gli eletti alla Camera (il Senato era composto da persone nominate dal re) erano la Destra, conservatrice e composta da monarchici, cavouriani e liberali, e la Sinistra, più aperta al cambiamento e formata da repubblicani, democratici, mazziniani, garibaldini.
La Destra conservò il potere dal 1861 al 1867 e i suoi più importanti risultati furono il pareggio di bilancio, il completamente dell'unificazione e una netta demarcazione dei rapporti con la Chiesa cattolica attraverso leggi anticlericali come l'incarnamento dei beni ecclesiastici, la soppressione degli ordini religiosi e il riconoscimento del matrimonio civile come l'unico valido per lo Stato. Dopo la conquista di Roma, la Destra regolamentò ulteriormente questi rapporti attraverso la legge delle guarantigie (garanzie) del 1871.
Economicamente però essa portò il Paese alla stagnazione economica, perché il risanamento fu realizzato solo con riduzione delle spese e una forte imposizione fiscale, e inoltre affrontò i problemi legati all'unificazione soltanto con gli strumenti della repressione sociale.

Il Governo della Sinistra
Nel 1876 andò al potere la Sinistra, che riformò il sistema elettorale e quello fiscale, si impegnò nel combattere l'analfabetismo riproponendo la gratuità e l'obbligatorietà dell'istruzione elementare, introdusse in Italia la prima legislazione sociale. Per affrontare la questione meridionale, che nel frattempo aveva favorito la nascita di associazioni a delinquere come la mafia e la camorra, Agostino Depretis (1813-1887), il primo presidente del Consiglio, inserì nei suoi governi personalità rappresentative di tutte le regioni italiane e contrattò di volta in volta l'appoggio di ogni gruppo o schieramento (questa politica fu detta trasformismo). In politica economica la Sinistra adottò, a partire dal 1878, una posizione protezionistica che giovò però solo alle industrie del Nord, che conquistarono il mercato nazionale soffocando sul nascere ogni tentativo di industrializzazione del Sud. Anche nel settore agricolo il protezionismo non dette buoni risultati, perché rafforzò la tendenza a non investire per migliorare la produttività e le tecniche di coltivazione. Inoltre esso provocò una guerra doganale con la Francia, causando un forte calo delle esportazioni e un pauroso crollo dei prezzi, dovuto alle grandi quantità di merci invendute. Per le difficoltà economiche negli ultimi decenni dell'Ottocento aumentò l'emigrazione, in particolare verso gli Stati Uniti, e vi furono anche numerose rivolte e manifestazioni contro il governo.

L'Italia e l'Europa
In politica estera la Sinistra scelse il non impegno internazionale, che condusse l'Italia a un pericoloso isolamento. Per uscirne Depretis si avvicinò alla Germania di Bismarck e quindi all'Austria, dato che tra le due nazioni esisteva un patto (Duplice Alleanza, 1879). Nel 1882 si giunse così alla firma della Triplice Alleanza. Il patto, rinnovabile ogni cinque anni garantiva all'Italia l'aiuto austro tedesco nel caso di un aggressione francese, la liberava dalla minaccia austriaca, favoriva le esportazioni in Germania e rappresentava un grave scacco per il pontefice, posto di fronte all'alleanza tra la cattolica Austria e il regno d'Italia.

Le avventure coloniali andate in fallimento
L'opinione pubblica nazionalista intanto spingeva perché anche nell'Italia partecipasse alla corsa alle colonia e Depretis avviò una timida politica di espansione coloniale, orientando le sue mire verso le coste eritree del Mar Rosso e in seguito verso l'interno in direzione dell'Etiopia o Abissinia. Tale avanzata incontrò l'opposizione del negus Giovanni IV, che nel 1887 inviò contro gli italiani il suo luogotenente, che il il 26 gennaio 1887 sorprese a Dogali una piccola colonna italiana e la massacrò.
Nel luglio 1887 Depretis morì e gli succedette Francesco Crispi, il quale decise di inviare rinforzi in Africa orientale, avviando contemporaneamente un'azione diplomatica che sfociò nel trattato di Uccialli (1889): in base ad esso vennero definiti i limiti della zona che gli italiani avrebbero occupato sulla costa del Mar Rosso e nell'entroterra e venne anche riconosciuto il protettorato dell'Italia sull'Etiopia. Attraverso altri accordi nacque anche in Somalia un protettorato italiano. Intanto, nella colonia eritrea il negus Menelik, con l'appoggio della Francia, dichiarò guerra all'Italia e sconfisse le truppe italiane ad Adua (1° marzo 1896).

La crisi di fine secolo
Durante l'ultimo decennio del secolo il regno d'Italia fu attraversato anche da pesanti conflitti sociali a cui i vari governi reagirono con una politica autoritaria e repressiva, che culminò con la strage di un centinaio di manifestanti a Milano nel 1898 da parte delle truppe del generale Bava Beccaris (1831-1924). Il risentimento popolare trovò espressione nell'assassionio a Monza del re Umberto I (29 luglio 1900) per mano dell'anarchico Gaetano Bresci (1869-1901).



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