Il termine “decadentismo” fu usato all'inizio in senso dispregiativo, da quei critici che giudicavano negativamente la nuova forma di poesia apparsa tra la fine dell'800 e l'inizio del 900. Ma poi il termine fu accettato dagli stessi poeti come loro segno distintivo. I poeti Decadentisti sentono con particolare sensibilità la crisi del loro tempo, la fine delle certezze ottocentesche nella scienza e nel progresso essi si sentono sempre meno capaci di interpretare la realtà, e tanto meno di proporre soluzioni ai delicati problemi, l'inquietudine che l'uomo avverte di fronte al mistero della realtà, che sfugge a ogni tentativo di spiegazione scientifica e razionale. Il mistero sta all'esterno di noi, ma anche nel nostro interno, tra le pieghe più nascoste del nostro animo. L'uomo sente di avere dentro di sé forze oscure, sentimenti contraddittori e a volte inconfessabili. Spesso fra il mondo esterno e il mondo interno coglie misteriosi rapporti e analogie. La poesia decadente tenta di esprimere questo mistero, e non può farlo in modo allusivo, simbolico e istintivo. Essa dà molta importanza alla musicalità dei versi, alle similitudini, alle immagini che possono in qualche modo andare oltre le apparenze per giungere a una verità più profonda e nascosta. Quella decadente è quindi una poesia di grande fascino, ma più difficile rispetto a quella tradizionale, in quanto non sempre basata sulla logica e sulla descrizione oggettiva. La poesia decadente si sviluppa in Francia agli inizi dell'800 ad opera di Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e Sthepane Mallarme. In Italia i primi ad accogliere questa nuova sensibilità furono Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio.