Il regime fascista, coerentemente con la sua vocazione totalitaria, cercò di tenere sotto controllo il mondo delle arti e delle lettere. Ma, se alle origini il fascismo poté riscuotere un ampio consenso, sia pure ambiguo, tra gli intellettuali che non esitarono a sottoscrivere il Manifesto di Giovanni gentile, successivamente, in particolare durante gli anni ’30, il rapporto tra il regime e gli intellettuali fu alquanto controverso. I movimenti culturali di Strapaese e Stracittà si dichiararono entrambi intenzionati ad esaltare un’arte fascista, ma si contraddicevano nella misura in cui Stracittà (Massimo Bontempelli) esaltava il suo modernismo e il suo cosmopolitismo eludendo così la direttiva del regime di richiamarsi alla tradizione italiana e di esaltare il primato italiano; mentre Strapaese (Malaparte, Bilenchi, Brancati, Tobino ecc.), appellandosi alla tradizione popolare ed anti-letteraria, disattendeva il progetto del regime di assorbire i quadri della vecchia classe dirigente borghese. Dall'altra parte la prosa d’arte (Comisso, Bertolini, Angioletti) propugnavano l’autonomia delle lettere, ostacolando così il tentativo del regime di esercitare un’egemonia sul mondo culturale. Pertanto la stessa politica culturale del fascismo negli anni ’30 fu costretta ad un atteggiamento bivalente, oscillante fra la tentazione d’imporre un’arte fascista, puramente celebrativa delle imprese del regime, e l’acquiescienza a un’arte pura che, con il suo disimpegno, non disturbasse il regime. Quest’ultimo tuttavia non poté impedire che, nel corso degli anni ’30, in opposizione alle sue scelte sempre più totalitarie, come le leggi razziali, l’avvicinamento alla Germania nazista, le guerre coloniali, la guerra di Spagna, maturasse una ben diversa consapevolezza in numerosi intellettuali i quali non nascondevano una sempre più chiara avversione al carattere autoritario del fascismo. Ecco quindi che, soprattutto sulla rivista Solaria, cominciarono ad apparire interventi più consapevoli, evidenziati una maggiore attenzione alle più significative esperienze della narrativa americana e un recupero dei moduli narrativi di Verga e di Svevo. Cominciava quindi a farsi strada, in scrittori come Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Romano Bianchi, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Carlo Bernari, Vasco Pratolini, Carlo Levi e soprattutto Alberto Moravia, una propensione sempre più netta a rappresentare la realtà sociale italiana in quegli aspetti che l’oratoria ufficiale del regime cercava di mascherare. Il romanzo, in una forma espressiva che si richiamava sia al verismo sia al romanzo psicologico secondo i moduli sveviani, e che preludeva al neorealismo del secondo dopo-guerra, quindi tornava ad affermarsi, aprendo una nuova stagione letteraria. Ma la censura fascista non mancò tuttavia d’intervenire proibì Gli indifferenti di Moravia, sequestrò i numeri della rivista Solaria su cui era apparso a puntate il romanzo di Vittorini Il garofano rosso, mandò al confino gli scrittori Cesare Pavese e Carlo Levi. Anche gli ermetici, che pure avevano coltivato un modello di poesia sradicata dalla storia, furono avversati. La nuova narrativa che maturò nel clima della rivista Solaria diede subito dopo la caduta del regime e la fine della guerra, con l’avvento della stagione del neorealismo.