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Rivista: La Voce

La voce di Prezzolini
La più importante rivista fiorentina fu La Voce, fondata nel dicembre 1908. Il suo carattere saliente fu la vastità d'interessi culturali e di temi esaminati. Vi collaborarono i più autorevoli uomini di cultura del tempo, dal filosofo e critico Benedetto Croce (1866-1952) al liberale Giovanni Amendola (1866-1926), dallo storico ed economista Gaetano Salvemini (1873-1957), socialista, all’economista Luigi Einaudi (1874-1961), che nel 1948 diverrà il primo presidente della Repubblica italiana. A loro si affiancarono, ovviamente, i molti scrittori che esordirono proprio sulla Voce (e sui libri editi dalla Libreria della Voce).
La Voce (prima settimanale, poi quindicinale) fu diretta dal 1908 al 1914 da Giuseppe Prezzolini (salvo un breve periodo, fra l’aprile e l’ottobre del 1912, in cui la direzione passò a Papini). Obiettivi dichiarati della rivista erano la divulgazione culturale e l’aggiornamento delle idee rispetto ad un panorama europeo.
Gli articoli spaziavano da problemi d’attualità (come il decentramento amministrativo o il suffragio universale) a temi letterari (il Decadentismo, il teatro di Ibsen) e filosofici (le correnti del pensiero contemporaneo).


Intellettuali e vita sociale
Prezzolini impresse alla rivista l’inconfondibile sua esigenza di stare al sodo: di occuparsi cioè di temi pratici e sociali, non astratti o solo letterari: un’impostazione che ricorda la lezione pragmatica del Caffè (1764-66), la rivista illuministica di Verri e Beccaria, e , più da vicino, l’eredità del Politecnico, la rivista fondata nel 1839 da Carlo Cattaneo. Non pochi numeri monografici della Voce furono dedicati alla realtà sociale ed economica della provincia italiana, esclusa dal sistema burocratico e accentratore del governo di Giolitti. Grande importanza era attribuita ai problemi della scuola e dell’educazione (biblioteche, università, aggiornamento dei maestri). In generale, la prima necessità della società italiana era identificata nell’allargamento del sapere e della cultura.
Il proposito di Prezzolini, l’ideologo del gruppo, era far partecipare gli intellettuali alla politica: ma non come protagonisti, in un qualche partito, bensì come osservatori e custodi di un corretto funzionamento della vita democratica, cioè come coscienze critiche della nazione. Noi sentiamo fortemente, scrisse Prezzolini fin dal primo numero della rivista, l’eticità della vita intellettuale. L’eredità lasciata dalla Voce di Prezzolini al successivo Novecento italiano consiste proprio in ciò: nell’impegno civile e nell’opera di svecchiamento, nell’attenzione a integrare i fatti del pensiero con quelli della vita, nell’idea della necessità di inventare una cultura più qualificata.

La Voce bianca di De Robertis
Nel 1913 la rivista visse una crisi interna, allorché l’ala più battagliera dei redattori fondò Lacerba. Prezzolini guidò allora una nuova fase della Voce, fortemente caratterizzata dalla filosofia dell’Idealismo, bandiera di tutti coloro che si opponevano al Positivismo e al primato delle scienze fisiche.
Poco dopo la redazione scelse come direttore il critico letterario Giuseppe De Robertis (1888-1963). Dal dicembre 1914 al dicembre 1916 La Voce fu mutata nel formato e azzerata nella numerazione (si ripartì cioè dal n. 1); venne chiamata, dal colore della copertina, La Voce bianca. Indebolitisi gli interessi civili ed etico politici, si accrebbe l’attenzione per la letteratura e per lo stile, specie verso la forma della prosa breve o frammento.

Gli scrittori Vociani
Gli scrittori che collaborarono con frequenza alla Voce sono, globalmente, definiti come scrittori vociani. Si tratti di:
prosatori, come il citato Papini, Scipio Slataper (1888-1915), Giani Stuparich (1891-1961), Giovanni Boine (1887-1917), Piero Jahier (1884-1966), Carlo Michelstaedter (1887-1910);
poeti, come Dino Campana (1885-1932), Arturo Onofri (1885-1928), Camillo Sbarbaro (1888-1967), Clemente Rebora (1885-1957);
critici, come Renato Serra (1884-1915) e il già citato Giuseppe De Robertis.

I prosatori: l’autobiografia
Pur nella diversità d’idee e di esperienza artistiche, vari aspetti accomunano i vociani. Anzitutto, essi amano la confessione in prima persona, lo sfogo personale, anche come mezzo per esprimere il bisogno di un rinnovamento etico e civile: chiarificazione interiore e autobiografia si sposano in loro alla volontà di partecipazione attiva alle sorti del paese. Questi caratteri spiccano in alcuni libri emblematici, come Un uomo finito di Papini (1913), Il mio Carso di Slataper (1912) o Il peccato di Giovanno Boine (1914).
Il capolavoro dell’autobiografismo vociano è il monologo-confessione di Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato (1914), scritto subito prima che l’autore partisse per il fronte, dove trovò la morte.
L’autore apre il proprio animo, nell’ora estrema della guerra e del rischio mortale. Compie un esame di coscienza nel quale può riconoscersi, oltre all’autore , un’intera generazione. Abbiamo sbagliato, dice Serra, noi letterati, a starcene rinchiusi nella nostra torre d’avorio, lontani dai problemi della vita sociale e della gente comune. Le tragedie della storia attuale ci impongono invece di abbandonare l’isolamento di quella religione delle lettere e di assumere nuove responsabilità morali e civili. E se da intellettuali, concluse Serra, non possiamo più essere le guide della società, quantomeno possiamo camminare al fianco degli altri, condividendo i drammi di tutti.

Frammento e prosa lirica
Alcuni scrittori vociani scelsero un tipo di prosa lirica o di frammento, raccomandato soprattutto da De Robertis nella frase della Voce bianca. Nacquero così opere come Frantumi di Boine (pubblicati postumi nel 1918) e come Trucioli di Sbarbaro (1920): opere che crescono su pagine brevi, nutrite di immagini precise, frasi secche, di una scrittura pura ed essenziale, che valorizza brevi momenti lirici e ricorre ad accostamenti spesso violenti (è la linea che viene chiamata dell’espressionismo stilistico).

Questi frammenti in prosa dei vociani non nacquero dal nulla; attecchirono su un terreno già preparato, a quell’epoca, da esperienze e teorie importanti come:
  • la poesia in prosa proposta da Rimbaud in Illuminazioni (1886);
  • le parallele ricerche svolte da D’Annunzio in Notturno;
  • le teorie estetiche di Benedetto Croce, secondo cui la fonte della vera poesia è l'intuizione lirica.
Questa poetica del frammento sfocerà pochi anni dopo nella prosa d'arte, divulgata dalla rivista La Ronda a partire dal 1919.

I poeti della Voce: i caratteri comuni
Molti poeti collaborano alla Voce; tra loro, vanno ricordati anche Corrado Govoni, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Vincenzo Cardanelli, oltre agli stranieri Guillaume Apolinnaire, Paul Claudel, Paul Fort, Charles Péguy.
Per alcuni di questi autori la collaborazione alla Voce fu solo un momento di passaggio nella loro carriera poetica. Altri invece si possono a pieno titolo definire poeti vociani perché avidenziano, pur nella diversità delle esperienze, alcuni caratteri comuni:
  • il rifiuto del tono alto, sonoro, cioè dello stile di Carducci o di D'Annunzio;
  • il gusto per realtà comuni e prosaiche, riprese senza vergogna dalla vita quotidiana;
  • la tensione morale, talora connotata (come in Rebora) in direzione religiosa;
  • l'adozione di un verso lungo, dalle cadenze prosastiche, simile a quello utilizzato dal poeta americano Walt Whitman (1819-92).
Camillo Sbarbaro e Clemente Rebora
Questi tratti si manifestano in particolare nelle poesie di Sbarbaro e Rebora, i cui libri d'esordio (Pianissimo e Frammenti lirici) furono editi tra 1913 e 1914.
Il ligure Camillo Sbarbaro mette in versi la fragilità dell'esistere e la scissione tra uomi e società; è il primo poeta novecentesco che canti il motivo dell'inesistenza (Mi tocco per sentir se sono). Egli opera sul linguaggio poetico un processo di semplificazione e scarnificazione, che troverà lo sbocco più alto in un altro poeta ligure, Montale, l'autore di Ossi di seppia (1925).
anche il lombardo Clemente Rebora (1885-1957) è un tipico scrittore vociano. Lo dimostrano:
  • la sua acuta tensione morale;
  • il tema del contrasto tra il banale quotidiano, da una parte, e l'ansia di assoluto, dall'altra;
  • infine il linguaggio teso, che ricorda gli espressionisti per la sua forza d'urto (O carro vuoto sul binario morto è un famoso inizio reboriano).
Rebora fu assieme al romano Arturo Onofri (1885-1928) uno degli anticipatori dell'Ermetismo. La sua poesia meditativa, che si fa grido della coscienza, trovò in seguito uno sbocco religioso (nel 1931 Rebora entrò nella congregazione dei rosminiani, dove poi ricevette l'ordinazione sacerdotale, nel 1936).

Dino Campana, poeta maledetto
Il più originale tra questi poeti fu il toscano Dino Campana, l'autore dei Canti Orfici (1914). Visse un'esistenza sregolata da poeta maledetto, alla maniera di Rimbaud. Sempre minacciato dalla follia, egli trascorse l'ultimo quindicennio di vita in un manicomio presso Firenze.
Quella di Campana è una poesia simbolista, ma sul versante più acceso: è un'arte visionaria, talora allucinata, esuberante d'immagini e d'illuminazioni. Gli stessi caratteri si ritrovano nelle prose liriche comprese esse pure nei Canti orfici.
Si trattava, in complesso, di caratteri davvero inconsueti per la nostra cultura letteraria, che tende invece, da sempre, alla classicità. Da qui l'originalità di Campana e anche il singolare fascino esercitato dai suoi versi sui lettori di oggi.



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