Uno dei temi prediletti dai crepuscolari è la protesta di non voler essere poeta.
Frequentemente essi dichiarano di non avere nulla da dire, di vergognarsi d’essere poeta, di non saper fare altro che morire. Già nel 1903 Corrado Govoni si chiede nelle Fiale: Perché triste poeta il tuo dolore /a incredule genti vuoi narrare?, invitandolo a imparare a piangere in silenzio. Le dichiarazioni più celebri sono quello di Sergio Corazzini (io non sono un poeta) e di Marino Moretti (Io non ho nulla da dire). Il torinese Carlo Chiaves prevede addirittura l’estinzione della razza dei poeti.
I crepuscolari negano; e quando affermano, gli argomenti non cambiano molto:
si dipingono come individui deboli e malati (Corazzini: Oh, io sono, veramente malato!), spesso in attesa della morte;
Gozzano in La signorina Felicita dichiara: mi vergogno d’essere poeta;
si giunge alle formule dissacratorie (il poeta come pagliaccio o come saltimbanco) di Moretti e Palazzeschi. Per Moretti: il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra / sembra il pagliaccio ch’egli è (la giostra); Palazzeschi, in Chi sono?, si definisce non poeta bensì il saltimbanco dell’anima mia.
Queste prese di posizione dei crepuscolari nascono da una precisa scelta di poetica: dal rifiuto, cioè, di un’idea aristocratica di poesia, vista come merce di lusso, bella ma inutile. Siamo dunque all'opposto del letterato esteta incarnato da D'Annunzio.
Quest'ultimo, in un'intervista del 1895 a Ugo Ometti, aveva giudicato positivo il fatto che l'appetito sentimentale della moltitudine non era mai giunto a un così rapido consumo di alimenti letterari. Invece i crepuscolari rappresentano la fragilità e la malattia della poesia, che si rivela spiazzata, inutile.
Prendono atto che la poesia non può più ambire al canto sublime, al messaggio profetico o pedagogico; può sopravvivere solo come canto dimesso, che assume, con coerenza, temi secondari, situazioni comuni e oggetti quotidiani, giungendo fino all'autonomia, all'autodistruzione.
Frequentemente essi dichiarano di non avere nulla da dire, di vergognarsi d’essere poeta, di non saper fare altro che morire. Già nel 1903 Corrado Govoni si chiede nelle Fiale: Perché triste poeta il tuo dolore /a incredule genti vuoi narrare?, invitandolo a imparare a piangere in silenzio. Le dichiarazioni più celebri sono quello di Sergio Corazzini (io non sono un poeta) e di Marino Moretti (Io non ho nulla da dire). Il torinese Carlo Chiaves prevede addirittura l’estinzione della razza dei poeti.
I crepuscolari negano; e quando affermano, gli argomenti non cambiano molto:
si dipingono come individui deboli e malati (Corazzini: Oh, io sono, veramente malato!), spesso in attesa della morte;
Gozzano in La signorina Felicita dichiara: mi vergogno d’essere poeta;
si giunge alle formule dissacratorie (il poeta come pagliaccio o come saltimbanco) di Moretti e Palazzeschi. Per Moretti: il poeta che si mostra / su un cavallo della giostra / sembra il pagliaccio ch’egli è (la giostra); Palazzeschi, in Chi sono?, si definisce non poeta bensì il saltimbanco dell’anima mia.
Queste prese di posizione dei crepuscolari nascono da una precisa scelta di poetica: dal rifiuto, cioè, di un’idea aristocratica di poesia, vista come merce di lusso, bella ma inutile. Siamo dunque all'opposto del letterato esteta incarnato da D'Annunzio.
Quest'ultimo, in un'intervista del 1895 a Ugo Ometti, aveva giudicato positivo il fatto che l'appetito sentimentale della moltitudine non era mai giunto a un così rapido consumo di alimenti letterari. Invece i crepuscolari rappresentano la fragilità e la malattia della poesia, che si rivela spiazzata, inutile.
Prendono atto che la poesia non può più ambire al canto sublime, al messaggio profetico o pedagogico; può sopravvivere solo come canto dimesso, che assume, con coerenza, temi secondari, situazioni comuni e oggetti quotidiani, giungendo fino all'autonomia, all'autodistruzione.