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Decadentismo di D'Annunzio

Riassunto:
Gabriele D'Annunzio ebbe legami molto forti con il Decadentismo. In primo luogo fu lui a mettere in circolazione in Italia i temi e il linguaggio del nascente Decadentismo grazie alle letture appassionate, nel ventennio 1880-1900, di altri autori europei (come Flaubert, Swinburne, Baudelaire, Huysmans, i preraffaelliti inglesi) e ai riflessi che queste ebbero nelle sue opere (talvolta si trattò di veri e propri plagi).
Inoltre sperimentò personalmente le forme della nuova letteratura, sia nelle prima raccolte poetiche (Canto novo e l'Isottèo) sia nel Piacere (1889), che si può definire il primo romanzo decadente italiano, per diversi aspetti:
  • l'esasperato individualismo del protagonista Andrea Sperelli;
  • il suo atteggiamento di dandy, di chi cioè fa la propria vita come un'opera d'arte;
  • il marcato sensualismo ed erotismo dei pensieri e delle situazioni narrative;
  • il senso di malinconia stanchezza che pervade il romanzo;
  • il culto dell'esotico.
Tuttavia D'Annunzio partecipa solo alla prima fase del Decadentismo europeo, quella segnata dall'estetismo. Ma l'estetismo dannunziano si ferma per lo più al dato esteriore e superficiale: infatti tende a rivestire di belle forme ogni situazione, anche la più banale; ad addobbare di ricche apparenze gli stimoli più occasionali. Per abbellire la realtà comune, l'esteta ricorre alla mitologia, cita i classici, saccheggia i repertori di immagini orientaleggianti e dello stile liberty-floreale: D'Annunzio è infatti convinto che scrivere una vocazione poetica assoluta.
Anche le sue pagine migliori, dedicate alla descrizione delle città morte, delle famiglie e dei palazzi in decadenza, della turpe vecchiaia umana, non si distaccano sostanzialmente, nel loro congiungere bellezza e morte, dalla sfera estetizzante.

Il culto quasi esclusivo della sensazione preziosa ha dunque impedito a D'Annunzio l'apertura alla fase più matura del Decadentismo:
  • l'inettitudine a vivere, l'incapacità esistenziale narrata da Svevo o nei Buddenbrook di Mann o in L'uomo senza qualità di Musil;
  • la coscienza dell'assurdo tipica di Kafka;
  • la tragica disarmonia delle maschere di Pirandello;
  • il senso dell'irreparabile sconfitta di un'intera civiltà (J.Roth).
D'Annunzio resta lontano dai fenomeno più moderni, come Freud e la psicoanalisi, lo sperimentalismo linguistico e il pastiche di Joyce o Gadda. I suoi eroi non sono vittime della propria sconfitta interiore, dalla loro coscienza infelice; piuttosto sono sconfitti dal fato o da circostanze negative, oppure perché i contemporanei sono troppo mediocri per comprenderli; ma i valori in cui credono (l'ideale della bellezza assoluta, l'eroismo del bel gesto) restano intatti. Anche il sesso, scoperto da alcuni grandi decadenti (Wilde, Gide, lo stesso Joyce) come rimedio e insieme condanna per l'uomo, altrimenti consegnato all'angoscia della solitudine, in D'Annunzio si riduce a una serie di variazioni sul motivo insistito della sensualità: egli non sa uscire dal circuito: gioia dei sensi-nausea dei sensi.

Anche sul piano stilistico, D'Annunzio rimane fedele ai decadenti della prima generazione, parnassiani e preraffaelliti. Tende infatti a una scrittura monocromatica, calligrafica ma superficiale: manca nella sua pagina la dimensione chiaroscurale, l'allusione e l'evocazione dell'ignoto, cara ai grandi simbolisti (Mallarmé, Rimbaud). Il suo simbolo tende a moltiplicare le linee, ma non ad accendere orizzonti sconosciuti. Ama la parola immagine di sapore bidimensionale, in linea con il contemporaneo art nouveau e con lo stile floreale; ama la parola-suono, che fa largo impiego di echi letterari, ma più per sfoggio di erudizione che per sollecitare nuove risonanze.
Solo nell'ultima fase D'Annunzio ricorre a una prosa più sperimentale, che si sporge sull'orlo del silenzio. Nel Notturno e nel Libro segreto cessa quindi la sonorità, e le parole diventano segni indecifrabili.



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