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Riassunto: Il Fanciullino, Pascoli

di Giovanni Pascoli
Riassunto:

Nella prosa Il fanciullino pubblicata in tre puntate sulla rivista fiorentina il Marzocco a partire dal gennaio 1897, Il pascoli chiarisce i termini della sua poetica. Egli spiega che il poeta è colui che sa ascoltare ed esprimere quella parte dell’animo di ogni uomo che rimane fanciulla, e come un fanciullo egli sa cogliere la gioia e la malinconia degli eventi, sa temperare l’allegrezza e addolcire il dolore. Il poeta è, quindi, colui che riesce ad essere ispiratore di buoni e civili costumi, d’amore patrio,e familiare umano.

Analisi del testo
Il poeta, dice Pascoli, è chi, qualunque sia l’età anagrafica sa mantenere viva dentro di sé la disponibilità a vedere e a cantare la vita con ingenuo entusiasmo del bambino. Egli vive un rapporto visionario con il mondo: vede al buio e sogna alla luce; piange e ride di cose che sfuggono alla ragione e ai sensi comuni; ricorda dimensioni mai viste da alcuno; popola l’ombra di fantasmi e il cielo degli dei.
Centrale, nel terzo capitolo, è l’immagine del fanciullino come l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Pascoli cita qui il libro biblico della Genesi: del resto, un po’ tutti i decadenti ritenevano che l’esperienza artistica sia in sostanza analoga all’esperienza religiosa. Pascoli aggiunge che il fanciullo scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più sorprendenti: il poeta la riprende poi nella sua poesia. Anche qui è evidente il contatto con le poetiche decadenti, soprattutto con Rimbaud, per il quale il poeta è un veggente.
Nella conclusione l’autore esorta varie figure (il professore, l’uomo d’affari, il contadino, l’operaio) ad ascoltare il fanciullino che alberga nelle loro anime, senza che ancora sia stato completamente soffocato dalla vita adulta.

Commento
Esistono, dice Pascoli, due età nella vita umana: fanciullezza e maturità. La seconda sa dire mentre la prima no: dice la cosa …a mezzo. Però la Fanciullezza, più ingenua, sa vedere, dice ciò che ha visto da fanciullo. Naturalmente ciò che vide da fanciullo non sono i temi adulti, come la guerra, la competizione economica ecc,; sono la meraviglia, le nuvole, le stelle, gli uccelli come la cinciallegra, il fiore che odora ecc.
Poiché tutti sono stati fanciulli, ne deriva che tutti sono o possono essere poeti, almeno in parte. Bisogna però che risveglino, e poi mantengano viva in loro, quell’antica serena meraviglia da cui sola può sgorgare la poesia.

L’origine dell’opera
Pascoli rimase sempre affezionato a questo saggio, che avrebbe anzi voluto ampliare ulteriormente, corredando la parte teorica con molti esempi, fino a farne un libro scolastico. Lo compose nel 1896: la prima puntata uscì sulla rivista fiorentina “Il Marzocco” nel gennaio 1897 con il titolo Pensieri sull’arte poetica; fra marzo e aprile seguirono tre successive puntate; poi la pubblicazione sul Marzocco fu interrotta. IN versione completa il testo fu stampato solo nel 1903, con titolo definitivo Il fanciullino, ad aprire il libro di prose Miei pensieri di varia umanità.
Tra l’una e l’altra stesura, come ha rilevato lo studioso Maurizio Perugi, si verificò un evento importante: Pascoli poté infatti leggere gli Studi sull’infanzia dell’inglese James Sully (1895), un manuale di psicologia infantile che venne a confermare le sue osservazioni e intuizioni riguardo alla genuinità della maniera infantile di conoscere il mondo e appropriarsene attraverso le parole.

I contenuti
Il testo è suddiviso in 20 brevi capitoli, come una sorta di dialogo interiore fra il poeta e la sua anima ma di fanciullino, ancora palpitante, la quale sopravvive accanto alla vigile coscienza dell’uomo adulto e maturo. Questa figura metaforica del fanciullino viene delineata soprattutto nei primi tre capitoli: il fanciullino, dice Pascoli equivale alla voce profonda dell’animo umano, che segue percorsi non razionali, bensì intuitivi e analogici.
Nei successivi capitoli è messa in rilievo la perfetta corrispondenza tra il fanciullino e il poeta. La poesia, dice Pascoli, è vera poesia solo se riesce a parlare con la voce del fanciullino, al di là dei pudori, dei timori e delle convenzioni dell’età adulta. La poesia fanciulla non scaturisce dall’abilità retorica o dalla padronanza culturale. Il poeta, prosegue l’autore, non deve insegnare, ammonire, muovere all’azione: il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro, non tribuno o pedagogo. Poesia è lo stormire delle foglie, il gorgoglio del ruscello, il canto dell’usignolo; è l’arpa al cui tintinno bisogna avvicinarsi, per udirlo meglio; ma non sono poesia i tromboni e la grancassa della banda paesana, che assordano la campagna e dai quali bisogna allontanarsi, per non esserne intronati (chiarissima l’allusione a Carducci, il padre poetico da negare).
Nel seguito, però l’autore passa a esaminare la dimensione implicitamente pedagogica e morale della scrittura letteraria: infatti, seguendo i sentimenti del fanciullino, la poesia che ne scaturisce non può che incarnare (e quindi comunicare) i valori della bontà e della giustizia. Pascoli riprende un concetto di Foscolo (e, prima di lui, di Omero), secondo cui la poesia mitiga la ferocia primitiva degli uomini.
Infine l’ultimo capitolo traccia un bilancio conclusivo, che fissa sia le aspirazioni etiche, sia il ritratto ideale del poeta fanciullo. La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz’essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società, Il poeta non deve avere, non ha, altro fine, che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo.
I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l’amore, il dolore, la virtù.
Ciò significa che, dal punto di vista di Pascoli, la poesia è utile agli uomini e alla società per rimanendo autonoma, cioè in quanto si svincola da finalità pratiche e civili e coltiva una sua bellezza separata.



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