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Biennio Rosso in Italia

Riassunto:
Gli anni del biennio rosso (1919-1920) videro l’esplosione di lotte sociali senza precedenti nella storia del nostro Paese, lotte che coinvolsero città e campagne, operai e contadini, pertando alla luce tensioni e contraddizioni che erano rimaste compresse nel corso della guerra. Nel 1918 gli scioperi erano stati solo 303, saliti a 1663 nel 1919 e a 1881 nel 1920: numeri che, insieme alla consistente e continua crescita degli iscritti ai sindacati, danno la misura del fermento che investiva il mondo del lavoro. Nonostante la forte presenza dei sindacati, non si trattava tuttavia di un movimento particolarmente politicizzato, ma era mosso piuttosto da generiche istanze di rinnovamento sociale e anonimato dal forte risentimento verso i padroni. In un primo momento, nel febbraio 1919, gli operai metalmeccanici del Nord riuscirono a ottenere, a parità di salario, una consistente riduzione dell’orario lavorativo settimanale, che passò da 70-62 ore a 48, conquista che venne poi estesa a tutti gli altri settori industriali. In questo frangente furono riconosciute come interlocutori le commissioni interne, primo strumento democratico nelle fabbriche, e fu applicata la contrattazione collettiva su scala nazionale.
Dalle fabbriche la lotta si estese in un secondo momento nelle campagne, dove i contadini attendevano ancora che venissero mantenute le promesse fatte loro durante la guerra. Al Nord e al Centro i braccianti, per portare avanti le loro rivendicazioni, si organizzarono in leghe rosse (di ispirazione socialista) e leghe bianche (di ispirazione cattolica). Nel Mezzogiorno, dove prevaleva il latifondo, i contadini rivendicavano la ridistribuzione delle terre con l’occupazione dei terreni incolti. Nel febbraio del 1920 nuove agitazioni e nuovi scioperi scoppiarono al Nord e si accompagnarono al tentativo di occupazione delle fabbriche; gli operai ormai andavano oltre le rivendicazioni salariali, ponendo la questione del potere:”fare come in Russia” era la parola d’ordine di quei giorni. Per tutto l’anno e l’inizio del successivo le occupazioni delle fabbriche si diffusero in tante altre città, coinvolgendo circa mezzo milione di lavoratori. Durante questo turbolento periodo in molti stabilimenti l’attività lavorativa non venne interrotta, ma addirittura fu aumentata la produzione volendo così dimostrare che la fabbrica funzionava anche con una gestione collettiva. Nello stesso tempo si procedete a una vera e propria difesa delle strutture occupate contro un’eventuale irruzione delle forze dell’ordine: a tal fine vennero messe in opera mine a detonazione elettrica, sistemi d’allarme, ronde a picchetti e furono approntati fucili e bombe a mano. Era evidente che il fenomeno della difesa armata spostava la difficile vertenza dal piano puramente economico sindacale a quello più propriamente militare e politico, presentandosi, a parere degli industriali, come una vera e propria insurrezione armata di tipo bolscevico contro lo Stato. Lo scontro si prolungò fino al settembre del 1920 e si risolse con la sostanziale sconfitta della linea operaia, che alla fine fu lasciata sola dal Partito socialista e dalla Confederazione generale del lavoro, il più importante sindacato. Giolitti, a sua volta, aveva lasciato che la protesta si esaurisse spontaneamente: cosa che avvenne con la firma di un accordo che prevedeva il controllo operaio nella gestione. Tuttavia, passato il pericolo dell’insurrezione armata, la classe padronale si guardò bene dal rendere operativo tale accordo.



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