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Capitolo 24 de I Promessi Sposi - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del ventiquattresimo capitolo (cap. XXIV) del celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.


La struttura

Questo capitolo può essere considerato l'ultimo del romanzo dell'innominato che esce di scena dopo la liberazione di Lucia: ritroveremo il personaggio più avanti, quando, accogliendo al castello don Abbondio, concretizzerà la sua conversione attraverso le opere. Si avvia alla conclusione anche il dramma di Lucia che, sviluppato parallelamente a quello del potente signore, è stato raccontato come un'altra storia nella storia. Il capitolo è assai più esteso dei precedenti e può essere distinto in tre quadri: la liberazione di Lucia; l'ospitalità accordata a quest'ultima nella casa del sarto; il ritorno dell'innominato al castello. Il denominatore comune di queste tre fasi è l'intervento del cardinale Borromeo che ha organizzato il soccorso alla giovane e fortificato la volontà del terribile uomo, prospettandogli il riscatto dalle colpe e la certezza della redenzione.



I personaggi e le tecniche narrative


L'innominato
Iniziamo l'analisi dei personaggi dall'innominato, riassumendo le tappe della sua conversione che trova, proprio in questo capitolo, il proprio compimento:

— dopo un misterioso accenno nel capitolo XVIII, la breve biografia contenuta nel XIX mette in risalto alcune caratteristiche che permetteranno di comprendere il grande avvenimento della conversione: l'elemento dominante è la grandezza d'animo del personaggio, una qualità che lo colloca molto al di sopra degli uomini ordinari; oltre a questo, riscontriamo in lui fierezza, orgoglio, attitudine al comando: su tutto, aleggiano la sua solitudine e il mistero dei delitti e delle imprese atroci in cui è coinvolto. Il suo desiderio di primeggiare sugli altri si manifesta sia in un contrasto aperto con la società sia nello sdegnoso isolamento in una valle sinistra. Il suo castello riprende ed amplifica le sue caratteristiche personali: è un nido d'aquila, abitato dal selvaggio signore;

— anche i bravi sono all'altezza del loro padrone, quanto di meglio (o di peggio) offra la braveria d'Italia: uomini pericolosi e spietati, ben diversi da quegli inetti, patetici criminali di campagna che sono i bravi di don Rodrigo. E, se l'uomo più fidato di quest'ultimo si chiama Griso, nome che evoca forse un età non più giovane, quello dell'innominato si chiama Nibbio, rapace sanguinario poco disposto alla commozione e alla pietà;

— l'incontro con don Rodrigo mette in risalto la meschinità e la pochezza del persecutore di Lucia, incapace di tutto, anche del successo nel male. Se i due sono socialmente affini, sono però infinitamente diversi per carattere e qualità. Non solo: mentre di don Rodrigo non viene mai fornita una descrizione fisica, le brevi note sull'innominato insistono su quei particolari, gli occhi soprattutto, che ne rivelano la forza e l'autorevolezza;

— la richiesta d'aiuto giunge in un momento per lui delicato: ha ormai cominciato a sentire un certo fastidio delle sue scelleratezze. Prende corpo, a questo punto, una finissima analisi psicologica, che accompagnerà tutti i suoi comportamenti, manifestandosi attraverso il discorso raccontato e il discorso indiretto da parte del narratore. Quest'ultimo descrive con profonda intuizione e sensibilità il dramma dell'innominato, rappresentato soprattutto attraverso il soliloquio che, concedendo al personaggio la possibilità di uno sfogo, disegna con precisione emozioni e sentimenti;

— inizialmente, lo stato d'animo del signore è incerto, confuso: la vita gli sembra priva di scopo, l'avvenire popolato da immagini oscure; la vecchiaia e la morte diventano pensieri insinuanti, amplificati dall'angoscioso silenzio della notte. Il pensiero di Dio non lo abbandona, insieme al ricordo delle innumerevoli scelleratezze; poiché, però, Manzoni non vuol dare alla vicenda un colorito miracolistico, che renderebbe l'innominato un essere passivo, quasi manovrato da forze più grandi di lui, lo descrive mentre lotta con la sua coscienza, pronto a tutto pur di ritornare ad essere quello che era un tempo. Infatti egli accetta l'incarico del rapimento di Lucia per dimostrare a se stesso che quelli erano dubbi momentanei, fantasie inconcludenti;

— l'impresa, come c'era da aspettarsi, riesce perfettamente. Ma qualcosa, nell'efficiente ingranaggio del crimine, non ha funzionato: il Nibbio si è lasciato prendere dalla commozione, dimostrando di avere, come tutti, un punto debole. Sembra dunque che, intorno all'innominato, si stia sgretolando un intero sistema di vita, fondato sulla sopraffazione e sull'uso sistematico della violenza;

— la vista di Lucia prigioniera nel castello comporta, per il potente signore, la contemplazione di un dolore senza motivo, di una tortura psicologica inflitta senza scopo a qualcuno che nemmeno si conosce, la rivelazione di quanto male l'uomo sia capace di fare. Il colloquio con la giovane, le parole da lei pronunciate, non sono l'origine della conversione dell'innominato, ma si inseriscono nella condizione esistenziale di un uomo in crisi e già in parte diverso; inducendolo all'esame di sé, esse possono pertanto accelerare un mutamento già in atto;

— durante la tremenda notte di veglia , il potente signore smonta in modo rigoroso il meccanismo della sua esistenza, senza illudersi e senza ingannare se stesso: egli pronuncia sulle proprie azioni un giudizio morale implacabile ed è un giudizio di condanna senza appello. La spietata autoanalisi dell'innominato gli permette così di intraprendere la strada della redenzione in tale prospettiva, la liberazione di Lucia non è un gesto avventato, ma un segno concreto del bisogno di mutare vita, pur non rinnegando le responsabilità del passato;

— per un breve momento la vicenda di Lucia si incrocia con la sua, ma la strada che l'innominato si trova davanti è un percorso solitario; nessuno può sostituirsi a lui, neppure il cardinale, la cui funzione è quella di portare a maturazione la crisi, di offrire a quell'uomo disperato la certezza di non essere stato abbandonato da Dio, ma niente di più. La spiritualità del tiranno convertito sarà d'altro genere: come era già accaduto per padre Cristoforo, l'uomo vecchio resterà nell'uomo nuovo che dovrà essere costruito mediante una vita attiva, in cui non c'è spazio per le riflessioni teologiche.

Il cardinale, in confronto a lui, appare una figura più sbiadita, più statica: anche quando parla e mette in luce tutta la sua eloquenza, il protagonista è sempre l'innominato, persino se quest'ultimo resta in silenzio o piange. E tale rimane, anche quando si parla di lui, ingigantito dall'immaginazione popolare o sbirciato di sottecchi da qualche prete pauroso. La conversione, modifica lo stile di vita, non tocca però la sua eccezionalità, il suo essere al di sopra degli altri. Questi caratteri sono confermati dal discorso diretto che chiude il capitolo, quando l'innominato, riuniti i bravi nella sala grande della sua dimora, spiega loro la nuova situazione. Egli è l'uomo di sempre che, imperioso, deciso nei gesti, comanda il silenzio agli uomini sbigottiti, increduli. Se pure è diventato un santo padre» (come lo definisce don Abbondio con la sua consueta incapacità di valutare eventi e persone) resta comunque un capo, un santo con l'archibugio: sarà pronto a spalancare le porte del suo castello-fortezza per accogliere la gente in fuga davanti ai soldati dell'esercito imperiale, ma rimane un uomo del suo tempo, un tempo violento che non risparmia nessuno. Chiude la storia l'immagine dell'innominato che, dopo la consueta ispezione, si reca a dormire. Dopo aver pregato, si addormenta tranquillo: la pace del sonno è il simbolo del bene ritrovato, delle certezze riconquistate.


Don Abbondio
Al personaggio dell'innominato fa da spalla don Abbondio che un destino impietoso getta nel flusso della vita, sconvolgendone la tranquillità tanto più intensamente quanto più sono forti le sue aspirazioni alla pace. I soliloqui dei capitoli XXIII e XXIV tratteggiano il suo stato d'animo meglio di qualsiasi descrizione. La comicità di don Abbondio risulta dalla sproporzione tra le sue paure, spinte fino al timore del sacrificio estremo e la realtà, molto meno tragica di quanto egli creda. Il suo punto di vista deforma la verità, la travisa; di conseguenza, egli non dispone più di un criterio razionale di valutazione dei fatti: l'innominato, per esempio, resta sempre il birbone che, divenuto improvvisamente santo, potrebbe cambiare idea da un momento all'altro. È infatti significativo che egli non abbia compreso nulla dello sconvolgente mutamento avvenuto nell'animo del potente signore: un malvagio riscopre la fede, rientra nella comunità dei credenti, e l'unico desiderio di don Abbondio è quello di ritornare a casa, nello spazio confortante del nido. La sua tragedia di autentico egoista consiste invece nella smentita costante delle sue teorie: non è assolutamente vero, e i fatti l'hanno dimostrato. Se il lettore può sorridere dei suoi guai, la sofferenza del personaggio è autentica: tutti, persino la mula che lo conduce, sembrano congiurare contro di lui. Ma il sorriso non può essere disgiunto da una certa amarezza per il lato debole della natura umana, messo in luce così spietatamente dal narratore.


Lucia
Il destino di don Abbondio si lega inevitabilmente a quello di Lucia, inconsapevolmente responsabile dell'ennesimo attentato alla sua quiete.
La gioia della liberazione e il conforto di ritrovarsi finalmente in mezzo a volti amichevoli sono guastati dal ricordo del voto fatto alla Madonna e così prontamente esaudito. La pagina che il narratore dedica allo stato d'animo della giovane, riportandone in modo indiretto i pensieri e i sentimenti, arricchisce la psicologia del personaggio.

Il tumulto interiore che Lucia sta vivendo è scandito attraverso cinque fasi distinte:
  1. il ricordo del voto e il pentimento per averlo pronunciato;
  2. la paura di aver commesso, pentendosene, un sacrilegio;
  3. il rinnovo del voto;
  4. il conforto della certezza che la Provvidenza l'avrebbe aiutata a mantenerlo;
  5. infine, la ribellione istintiva di fronte all'idea che ciò avrebbe segnato la fine del suo amore e, con esso, di tutte le speranze per il futuro.

L'emergere del conflitto tra le convinzioni religiose, che l'hanno sostenuta fino a questo momento, e l'intensità dell'amore per Renzo conferisce alla personalità di Lucia una nota realistica, la rende vera, autentica, perché capace di soffrire: l'immagine del promesso sposo ritorna con insistenza ad affannare l'animo della giovane, quanto più ella si sforza di soffocare i suoi sentimenti. Accanto ai caratteri nuovi del personaggio, diviso tra la fedeltà ai propri ideali e l'amore appassionato per Renzo, troviamo la conferma di quelli che conoscevamo già: il pudore, la discrezione, la riservatezza che le impediscono di esprimersi in toni melodrammatici. Il dolore di Lucia è interiore, protetto da qualsiasi intromissione esterna: ella, infatti, si confiderà con la madre solo molto più tardi, quando, date le circostanze, non potrà farne a meno.
I capitoli XX-XXIV rappresentano il nucleo centrale delle peripezie di Lucia che può essere assimilata all'eroina perseguitata del romanzo nero settecentesco, al cui tipo certamente Manzoni si ispira. Tuttavia, come la critica ha osservato, Lucia è qualcosa di più: è la vergine che salva, colei che esercita il suo influsso benefico su chiunque le si accosti: da Renzo a Gertrude all'innominato. Perfino a don Rodrigo Lucia riserva un pensiero caritatevole.
Le parole che Manzoni fa pronunciare al personaggio da lui più amato confermano che la giovane è in tutto e per tutto una degna seguace di padre Cristoforo, il quale, alla conclusione del capitolo VIII, aveva indotto i suoi protetti a pregare per il loro persecutore.


La famiglia del sarto
La galleria dei personaggi si conclude con un gruppo familiare, quello del sarto del villaggio, al quale Lucia viene condotta dopo la liberazione. La rappresentazione positiva di questa famiglia si riconnette alla posizione manzoniana che giudica l'istituto familiare estremamente importante per la formazione della persona: esso ha la funzione di educare ai valori fondamentali, cioè all'amore e alla solidarietà, spesso negati da altre istituzioni (si pensi alla giustizia dei potenti, grandi e piccoli, da Ferver ad Azzeccagarbugli, o alla Chiesa, rappresentata da don Abbondio).

Il sarto e la moglie sono legati da un rapporto di affetto e di rispetto reciproco che li pone come un modello di armonia coniugale. Entrambi realizzano, nella dimensione della fede, la loro disponibilità verso il prossimo, alla quale cercano di educare i figli: accolgono premurosamente Lucia e praticano una generosa carità nei confronti della vicina di casa vedova. Queste qualità particolari, che rischiano di idealizzarli eccessivamente, sono temperate, per la consueta esigenza di realismo, da qualche aspetto meno positivo: la donna si dimostra un po' curiosa e pettegola; il marito rivela una piccola, innocente vanità da letterato di paese. Proprio a lui, comunque, viene affidata la funzione di esprimere il vero significato della predica del cardinale, aperta alla comprensione degli umili, i soli, a quanto è dato di vedere nel romanzo (tranne poche eccezioni), in grado di cogliere la forza della morale cristiana che afferma la superiorità dello spirito sulla materia.



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