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Proust, Bergson e il tempo

Proust, in gioventù aveva ascoltato le lezioni del filosofo Henri Bergson (1859-1941), la cui concezione del tempo come dimensione interiore lasciò una grande traccia nella cultura e nella letteratura di primo Novecento. Tale riflessione riprendeva in realtà spunti antichi, presente già nel libro X delle Confessioni di sant'Agostino: secondo quest'ultimo il tempo è una realtà non oggettiva, ma solo soggettiva, una distensione dell'anima. Esso va misurato nell'interiorità dell'individuo, in base a ciò che si è impresso nella sua memoria: il tempo, scrive Agostino, è memoria del passato, attenzione al presente e attesa del futuro.

Tempo e durata per Bergson
Bergson sostiene che sussiste una differenza sostanziale fra il tempo esteriore, fondato sulla successione degli istanti, come sono registrati dall'orologio e dal calendario e il tempo interiore.
Quest'ultimo, non descrivibile con il criterio della successione, è il tempo vissuto, la cui prima qualità è la durata.
Bergson polemizza dunque con il concetto fisico-matematico di tempo, assunto dalle scienze esatte. Per Bergson questo tempo non è quello reale, vero, cioè non è il tempo astratto, una successione di istanti statici e uguali. Il tempo come fatto psichico ha invece caratteristiche qualitativi, non quantitativi.
La nostra coscienza vive il tempo come durata, perché gli atti che compongono uno nell'altro:
in altre parole, l'atto presente porta in sé il processo da cui proviene e insieme è qualcosa di nuovo, che contribuirà a far scaturire nuovi atti, in una durata, appunto, senza interruzioni o salti.
Perciò, per Bergson, un ruolo importante nel conoscere viene esercitato dalla memoria. Essa conserva le nostre esperienze passate, ma in modo non statico, perché le fa continuamente interagire con gli stati di coscienza presenti.

La memoria, il tempo e l'arte per Proust
Queste idee esercitarono un notevole influsso sul romanzo novecentesco e su Proust in particolare. Proust constata come il tempo disgreghi e muti ogni cosa: ci fa allontanare dal noi che siamo stati, al punto che neppure più ci riconosciamo. L'unico elemento che possiamo opporre a una simile dissoluzione è la memoria. Non la memoria volontaria, però, attraverso cui noi ci sforziamo di ricostruire il passato, bensì quella involontaria. Essa opera per analogia, nel senso che una sensazione può richiamarne alla mente un'altra analoga, prodottasi nel passato; e non ci fa semplicemente ricordare il passato, ma ci permette di riviverlo, di recuperarlo nella sua pienezza e autenticità. E' un fenomeno di per sé non insolito (in qualche modo tutti lo abbiamo provato), ma che Proust rende, nella Recherche, uno strumento d'indagine privilegiato e sistematico.
In conclusione: il nostro tempo è vivo in noi; il mondo esteriore, in un certo senso, per Proust non esiste, perché rappresenta solo ciò che, in un certo momento, noi creiamo e che, in un certo momento, noi creiamo e che, subito dopo, muta con il nostro stato d'animo, sottoposto al fluire del tempo (avviato dall'accendersi della memoria).



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