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Capitolo 13 de I Promessi Sposi - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del tredicesimo capitolo (cap. XIII) del celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.


La struttura

Si potrebbe dire che il capitolo costituisca un'unica macrosequenza che racconta l'attacco alla dimora del vicario di Provvisione e la liberazione di quest'ultimo ad opera di Ferrer: all'interno di essa, tuttavia, è possibile distinguere una serie di sequenze, di lunghezza variabile, che costituiscono i diversi momenti dell'azione.



I personaggi


Il vicario
Il vicario è presente nella parte iniziale e in quella conclusiva del capitolo. Egli è un uomo di potere colto in una circostanza particolarmente drammatica: pur non essendo lui stesso esente da responsabilità, sta infatti per scontare colpe commesse da altri (lo «sventurato»). La sua reazione al pericolo incombente si esprime in una serie di gesti sconnessi e grotteschi che svelano la sua pusillanimità.
Egli non vede la folla in arrivo, ma la sente. Il narratore ne descrive l'avvicinarsi alla casa con gli stessi termini che userebbe per l'arrivo di una tempesta.
Di fronte a quei «furibondi», che non intendono ragione e con i quali non è possibile comunicare, il vicario sembra una marionetta che si esprime per gesti meccanici.
La rappresentazione fisica è ridotta a due aggettivi che ne suggeriscono lo stato d'animo: «pallido, senza fiato». Alla fine del capitolo, la paura che finora ha attanagliato il vicario sembra attenuarsi alla vista del salvatore, Ferrer, alla toga del quale egli resta tuttavia "rannicchiato, attaccato, incollato". Anche durante il viaggio in carrozza, il vicario resta muto di fronte alle considerazioni di Ferrer. La drammatica esperienza appena vissuta lo ha posto infatti in una dimensione del tutto estranea alla politica che trova espressione nella battuta conclusiva


La folla
La folla è vera protagonista degli avvenimenti, in questo capitolo come nel precedente. Di essa si mettono in luce le due «anime»: quella formata dagli estremisti violenti e, al suo opposto, quella costituita dai più moderati. Nel mezzo si colloca la massa, il «corpaccio» pronto a farsi trascinare e a essere strumentalizzato. Sebbene i «partigiani della pace», contrari a un'esecuzione immediata del vicario, riescano ad avere la meglio sui «furiosi ostinati», la rappresentazione della folla mantiene la sua connotazione negativa. Per Manzoni infatti la massa non è mai custode di valori: non sono la razionalità e il buon senso a guidarla, ma le opinioni affrettate, i pregiudizi, l'impulsività. In essa, facilmente suggestionabile e pronta a seguire chi grida più forte, l'individuo perde la propria lucidità di giudizio e la propria autonomia di decisione.


Ferrer
Ferrer, come il vicario, è un uomo del "palazzo", un detentore del potere: la sua fisionomia interiore è però più complessa di quella del vicario. Rispetto al capitolo dodicesimo — dove era bersaglio dell'ironia del narratore per le sue scelte economiche assurde e demagogiche — è ora presentato in una luce più positiva, dettata dal compito (salvare un uomo) che egli si assume; anche se, accanto a espressioni di approvazione rimane un giudizio limitativo. Tuttavia, l'aspetto dominante del personaggio è quello dell'astuzia diplomatica, della demagogia con cui conquista facilmente e mantiene il favore popolare: è l'uomo che distribuisce sorrisi e parla due lingue, metafora abbastanza esplicita dell'ipocrisia che anima il personaggio.


Renzo
Il giovane non è ancora protagonista, ma certamente la sua presenza non è più casuale o dettata da semplice curiosità: in lui c'è la volontà di trovarsi nel forte del tumulto. Anche se i personaggi centrali sono altri (Ferrer, la folla), il narratore non rinuncia ad approfondire la psicologia di Renzo, del quale evidenzia sia lo spontaneo coinvolgimento nella sommossa sia la profonda esigenza di giustizia, connaturata al suo carattere e già emersa altrove (contro don Rodrigo e le sue trame). Egli, pur condividendo i pregiudizi comuni (che vogliono il vicario responsabile della carestia), non perde la sua naturale bontà, il suo orrore per il sangue e la violenza, la sua profonda adesione alla dottrina cristiana .Le parole che esprimono le sue posizioni moderate avviano quel processo particolare che condurrà Renzo, durante l'avventura milanese, a essere ripetutamente scambiato per chi non è. Il giovane si salva per caso, o sarebbe meglio dire per un intervento provvidenziale, che gli consente di spostarsi vicino alla carrozza di Ferrer. Quest'ultimo finisce per incarnare, agli occhi dell'ingenuo montanaro, il simbolo stesso della giustizia, in cui le vicende pubbliche e le sue personali si confondono e che costituirà il tema del prossimo capitolo.



Le tecniche narrative

Nella rappresentazione della folla e delle sue mutevoli e antitetiche opinioni, il narratore utilizza ampiamente il discorso diretto. Siamo di fronte a una vera e propria polifonia, in cui innumerevoli voci si intrecciano e si confondono. Generalmente, si tratta di un coro. Il tono concitato sottolinea la confusione, il disordine, lo stravolgimento della realtà da parte della moltitudine che vuole e non vuole, acclama e biasima. Quando il narratore fa uso del discorso indiretto e di quello raccontato è soprattutto per colpire ironicamente l'irrazionalità della folla stessa.

Per il personaggio di Ferrer, la situazione è invece più complessa: infatti, si tratta di mostrare i due volti del cancelliere, la sua ambiguità, la sua oscillazione tra vero e falso. Egli è il salvatore del vicario e, al tempo stesso, il politico sottile che concede promesse ingannevoli ma perfettamente funzionali al solo scopo della sua missione: calmare la folla. Alla doppiezza di Ferrer fa riscontro la doppiezza delle sue parole: felicissima, sotto questo profilo, la soluzione di ricorrere a un discorso diretto articolato su due livelli: l'italiano (il linguaggio della finzione) e lo spagnolo (il linguaggio della verità).



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