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Gente noiosa e villana - Guittone d'Arezzo

Testo, parafrasi, analisi e commento della poesia "Gente noiosa e villana" di Guittone d'Arezzo.

Testo:

Gente noiosa e villana
e malvagia e vil signoria
e giùdici pien’ di falsia
e guerra perigliosa e strana
fanno me, lasso, la mia terra odiare
e l’altrui forte amare:
però me departut’ho
d’essa e qua venuto;
e a la fé che ’l maggio spiacimento
che lo meo cor sostene
e quel, quando sovene
mene d’essa, o de cosa
che vi faccia reposa:
tanto forte mi è contra talento.
Certo che ben è ragione
io ne sia noios’ e spiacente,
membrar ch’agiato e manente
li è ciascun vile e fellone,
e mesagiato e povero lo bono;
e sì como ciascono
deletta a despregiare
altrui più ch’altro fare;
e como envilia e odio e mal talento
ciascun ver’ l’altro ei porta,
e ch’amistà li è morta
e moneta è ’n suo loco;
e com’ solazzo e gioco
li è devetato, e preso pesamento.
Membrar noia anche me fae
como bon uso e ragione
n’è partuto e rea condizione
e torto e falsezza li stae;
e che scherani e ladroni e truianti
meglio che mercatanti
li vede om volonteri;
e com’ no li ha misteri
om ch’en altrui o ’n sé voglia ragione,
ma chi è lausengeri
e sfacciato parlieri
li ha loco assai, e quello
che mostrar se sa bello
ed è maestro malvagio e volpone.
Donque può l’om ben vedere
che, se me dol tanto membrare,
che lo vedere e ’l toccare
devia più troppo dolere:
per ch’om non po biasmar lo me’ partire;
e, s’altri volme dire:
«Om dia pena portare
per sua parte aiutare»,
eo dico ch’e vertà, m’ essa ragione
e[n] me’ part’è perdita:
ch’eo l’ho sempre servita
e, fomi a un sol ponto
mestier, non m’aitò ponto,
ma fomi quasi onni om d’essa fellone.
Parte servir ni amare
d[ev]ia, ni spezïale amico;
ché segnore ni cap’ho, dico,
per cui dovesse restaurare;
ni ’n mia spezialitate a far li aveva,
ni la guerra voleva;
la casa e ’l poder ch’eo
li avea era non meo,
mai lo teneva dal comune in fio
sì, che dal prence en Bare
lo poria a men trovare;
per ch’amo ch’el sia strutto
com’ me struggeva al tutto,
sì che nemico non avea più rio.
Estròvi donque, perdendo
onore, prode e plagire,
e rater[r]òmi di gire
ad aquistare gaudendo?
No: stianvi quelli a cui la guerra piace
e prode e bene face;
tutto che, se catono,
com’eo, potesse a bono
partir, piccolo fosse el remanente;
ma l’un perché non pòe
e l’altro perché a ciòe
istar tornali frutto,
biasma el partire en tutto;
ma so che ’l lauda en cor lo conoscente.
Non creda om che paura
aggia me fatto partire,
ché siguro istar e gire
ha più vile ch’eo tra le mura,
m’e ciò c’ho detto con giusta cagione;
e se pace e ragione
li tornasse a durare,
sempre vorria là stare;
ma che ciò sia non veggio, enante creo,
languendo, megliorando
e ’n guerigion sperando,
d’essa consommamento:
per che chi ’l partimento
più avaccio fa, men dann’ha ’l parer meo.
Solo però la partenza
fumi crudele e noiosa,
che la mia gioia gioiosa
vidila in grande spiagenza,
ché disseme piangendo: «Amore meo,
mal vidi el giorno ch’eo
foi de te pria vogliosa,
poi ch’en sì dolorosa
parte deggio de ciò, lasso, finire,
ch’eo verrò forsennata,
tanto son ben mertata
s’eo non fior guardat’aggio
desnore ni danaggio
a met[t]erme del tutto in tuo piacere.»
Ma, como lei dissi, bene
el meo può pensar gran corrotto,
poi l’amoroso desdotto
de lei longiare mi convene;
ma la ragion che detto aggio di sovra
e lo talento e l’ovra
ch’eo metto in agrandire
me per lei più servire,
me fa ciò fare, e dia portar perdono:
ché già soleva stare,
per gran bene aqulstare,
lontan om lungiamente
da sua donna piacente,
savendo lui, ed a·llei, forte bono.
Va’, mia canzone, ad Arezzo, in Toscana,
a lei ch’aucide e sana
lo meo core sovente,
e di’ ch’ora parvente
serà como val ben nostra amistate:
ché castel ben fornito
e non guaire assallito
no è tener pregiato,
ma quel ch’e asseggiato
e ha de ciò che vol gran necestate.
E anco me di’ lei e a ciascuno
meo caro amico e bono
che non dia sofferire
pena del meo partire;
ma de sua rimembranza aggio dolere:
ch’a dannaggio ed a noia
è remesso e a croia
gente e fello paiese;
m’eo son certo ’n cortese,
pregi’ aquistando e solazzo ed avere.


Parafrasi:

Gente fastidiosa e villana, una triste e malvagia signoria, giudici pieni di falsità, una guerra pericolosa e strana [che mi allontana dalla patria] mi fanno, ahimè, odiare la mia terra e amare molto l'altrui; per questo mi sono staccato da essa e sono venuto qua; e in verità il maggior dispiacere che il mio cuore debba sopportare è quello che provo quando mi ricordo di essa o di qualcosa che in essa si trovi, tanto questo mi è insopportabile. Certo ho buoni motivi per averla a dispetto, quando ricordo che lì è ricco e agiato ogni vile furfante, e ogni buono è povero e disagiato; e come il maggior piacere di ognuno sia quello di disprezzare gli altri, e ciascuno nutra verso gli altri invidia, odio e mal volere; e come l'amicizia sia morta, e il denaro abbia preso il suo posto; e divertimenti e allegria siano banditi, e in loto luogo ci siano tristezza e dolore. È per me un ricordo penoso anche il fatto che la bontà e la ragione se ne siano andate e al loro posto ci siano cattiverie, torto e falsità; e che lì la gente apprezzi assassini, truffatori e ribaldi più che onesti mercanti; e come non vi abbia credito  chi parla ragionevolmente per altri e per sé, ma chi è un adulatore e uno sfacciato chiacchierone, e chi sa farsi bello, mentre è un astuto furfante. Dunque si può ben capire che, se mi è tanto doloroso il ricordare, ben più doloroso doveva essere il vedere e il toccare con mano: per cui nessuno può rimproverarmi per la mia partenza; e se qualcun altro mi vuol dire che bisogna portare la propria pena per aiutare la propria fazione, io gli rispondo che è vero, ma che questo argomento ha perso valore per me, perché io l'ho sempre servita e quando per una volta ebbi bisogno del suo aiuto,  non m'aiutò affatto, ma quasi ogni suo membro mi tradì. Non dovevo servire né amare il mio partito, né avere un amico particolare, poiché non ho un signore o un capo, per mezzo di cui rifarmi; né lì potevo migliorare il mio mestiere, e neanche volevo la guerra la casa e il podere che avevo lì non erano miei, ma li tenevo in feudo dal comune, sicché ne potrei trovare altri a minor prezzo [anche] nella terra di bari, da parte del principe [Manfredi]; perciò vorrei che quel podere fosse distrutto, come esso rovinava completamente me, sicché non avevo nemico peggiore. Dovrei dunque restare, perdendo onore, benessere e piacere, e rinunciare ad andarmene dove potrò acquistare in allegria?
No: ci stiano quelli che amano la guerra, quelli ai quali essa porta diletto e giovamento; benché se ognuno potesse andarsene, come me, con profitto, sarebbero pochi quelli che vi rimarrebbero; ma uno perché non può, l'altro perché restare gli fa comodo, [tutti] disprezzano assolutamente chi se ne parte; ma io so che il saggio lo loda in cuor suo. Non si creda che io sia partito per paura - perché gente ben più vile di me, rimasta tra le mura, può con sicurezza restare oppure andarsene, - ma che l'ho fatto per quello che ho detto, con giuste ragioni; e se la pace e la ragionevolezza tornassero un giorno a regnarvi, sempre vi vorrei restare; ma non penso che questo accada, e credo piuttosto che la mia città si consumerà languendo e migliorando, nella speranza della guarigione: per cui chi se ne va al più presto, a mio parere avrà un danno minore.
Il momento della partenza fu per me crudele e difficile solo perché vidi la mia donna gioiosa grandemente addolorata dirmi piangendo: «Amore mio, sia maledetto il giorno in cui io mi innamorai di te, poiché devo, ahimè, finire in modo tanto doloroso che impazzirò, tanto bene sono stata ricompensata per non aver badato affatto né al disonore né al danno nel concedermi completamente al tuo amore!».
Ma come le dissi, può ben pensare quale gran dolore sia il mio perché debbo allontanare da lui l'amoroso diletto; tutte le ragioni che ho detto di sopra, e il talento e l'impegno che io metto nel migliorarmi per poterla meglio servire, mi fanno far questo e quindi deve perdonarmi: come già, per acquistarne gran vantaggio, ci furono di quello che stettero a lungo lontani dalla loro amata, e la cosa fu utile per entrambi. Va', mia canzone, ad Arezzo, in Toscana, a colei che uccide e resuscita spesso il mio cuore, e dille che ora sarà manifesta la saldezza del nostro amore: perché non v'è gran merito nel tenere un castello mai assalito e ben fornito, ma un castello assediato che è privo di ciò che gli occorre. E di' ancora a lei e a ogni mio buono e caro amico, che non soffra per la mia partenza; io provo dolore nel ricordarmi di loro, poiché sono rimasti tristi e infelici tra gente aspra e in un paese traditore, mentre io me ne sto al sicuro in una contrada cortese, acquistando pregio, felicità e ricchezze.


Commento

Guittone è un poeta senza grazia: non la cerca, non la coltiva; la sua è una ruvida, ragionante e ritmica maniera di far versi. L'avio di questa canzone, "Gente noiosa e villana" può sembrare paragonabile alle aperture di Jacopone e al loro entrare nel vivo nella materia senza preamboli, fuori da ogni contemplazione o favole; ma l'implacabile martellamento logico-ritmico dei settenari e degli endecasillabi ci rivela un carattere diverso che macina il proprio dolore, ne commenta le cause e ne ribadisce le ragioni: un testo senza progressioni drammatiche. L'urto tra passione e razionalità in Jacopone provoca la scintilla d'un dramma, scatena i venti d'una tempesta: qui la passione civile (un governo malvagio, falsi giudici, la guerra, hanno portato il poeta lontano da Arezzo) brucia a fuoco lento, scura e continua.



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