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L'Italia del Dopoguerra - Riassunto

Riassunto:
Durante il conflitto le considerazioni puramente economiche passarono in secondo piano rispetto alla necessità di produrre a qualsiasi costo armi, equipaggiamenti, attrezzature. Di qui derivano gravi conseguenze negative: le spese statali divorarono la parte delle ricchezze accumulate e poterono essere sostenute solo mediante l’immissione di nuova moneta. L’inflazione si tradusse in una crescita vertiginosa dei prezzi che al termine della guerra risultarono quasi quadruplicati. I profitti statali crebbero in misura patologica.
Negli anni di guerra le attività industriali crebbero a ritmo sostenutissimo: la produzione di energia elettrica raddoppiò, gli autoveicoli fabbricati salirono dalle 9200 unità del 1914 alle 20000 del 1918; i cantieri navali raddoppiarono la capacità produttiva, la chimica fece notevoli progressi nella produzioni di esplosivi e di medicinali. Calò per l’assenza di milioni di contadini chiamati alle armi la produzioni agricola.
Gli industriali non potendo prevedere quando la guerra sarebbe cessata, continuarono fino all'ultimo a investire enormi capitali nelle proprie aziende, e ne resero così anche più ardua la riconversione all'economia di pace. Essi si abituarono a non tener conto delle condizioni normali del mercato tornata la pace, pretesero di conservare “pascoli tranquilli” assicurati dalle dogane protettive, anziché addossarsi il difficile compito di ristrutturare e razionalizzare le aziende.
Le dogane protettive furono inasprite dai provvedimenti del 1921, grazie ai quali, ad esempio, una Ford importata in Italia avrebbe pagato una dogana pari al 71% del suo prezzo originario.

L’Italia politico sociale nell'immediato dopoguerra
Dalle prove della Grande Guerra l’Italia esce mutata, non solo dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista etico-politico e sociale. Vaste masse popolari si interessano alla vita politica e pretendono una ricompensa per i sacrifici sostenuti. Gli ex combattenti, molti dei quali hanno servito la patria come ufficiali stentano a rientrare nella grigia normalità del lavoro quotidiano e sono animati dalla mania di grandezza e di rinnovamento,
La Camera generale del Lavoro (CGL), tendenzialmente socialista, aumentò notevolmente il numero dei Lavoratori aderenti. Negli stessi anni la Confederazione Italiana dei lavoratori, sindacato bianco d’ispirazione cattolica, nato nel 1918 in concorrenza con i sindacati rossi, riesce ad organizzare un 161000 lavoratori e si impegna soprattutto nella mobilitazione delle masse contadine, fra le quali ottiene la maggior parte dei compensi.
L’inasprimento della tensione sociale derivante dalla difficoltà di reinserire nelle strutture protettive le classi di soldati e fecero smobilitare, fecero ingrossare le file del Partito socialista e fecero prevalere in esso l’ala massimalista. I massimalisti consideravano la borghesia come un unico blocco di forze reazionarie ripudiano ogni forma di collaborazione coi governi borghesi, e davano per certa l’imminenza della rivoluzione. Il massimalismo dava per scontata e imminente la nascita in tutto il mondo di repubbliche proletarie e non teneva conto della situazione reale italiana: in italia, infatti, la struttura capitalistica non era stata indebolita dalla guerra e anzi ne era uscita più salda e potente; la forza e il prestigio della Chiesa erano vastissimi.
I massimalisti agitavano solo a parole la prospettiva di una rivoluzione, tanto ché sia i socialisti napoletani guidati da Amadeo Bordiga, sia i socialisti torinesi guidati da Antonio Gramsci, tentavano strade decisamente divergenti dalle direttive del partito. Bordiga progettava un partito di rivoluzionari di professione che non avrebbe dovuto neppure partecipare alle competizioni elettorali. Gramsci e i suoi compagni di Torino si impegnavano nell'esperienza di Ordine Nuovo, ossia nell'organizzazione di un movimento, nato nel 1919 intorno all'omonima rivista.
Benedetto XV vincendo le ultime remore autorizzò di fatto don Luigi Sturzo (1871-1959) a fondare un partito d’ispirazione cattolica, quale fu il Partito popolare italiano (PPI) che pubblicò il manifesto programmatico nel gennaio del 1919. Il nuovo partito si dichiarava nello stesso tempo cristiano e indipendente dalla gerarchia ecclesiastica, e si batteva per la colonizzazione del latifondo per la difesa della piccola e media proprietà contadina, per l’adozione del sistema proporzionale, per l’estensione del diritto di voto alle donne, per l’ampliamento delle autonomie locali in polemica con le tendenze centralistiche dello stato liberale.
I piccoli borghesi, specie se appartenenti ai ceti a reddito fisso duramente colpiti dall'inflazione nutrivano un forte risentimento contro il sistema socio-politico vigente, erano attratti dal socialismo. Essi si illudevano di far parte della classe dirigente e in una certa misura ne facevano effettivamente parte, sia pure in posizione subalterna, e come tali si sentivano insidiati dalle rivendicazioni del proletariato.
Nell'ambito equivoco e contraddittorio del combattentismo piccolo-borghese si muoveva allora l’ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, che il 23 marzo 1919 fondava a Milano i Fasci italiani di Combattimento. Il programma diceva:”il fascismo italiano vuole tenere ancora uniti, con una forma di antipartito o di superpartito, gli italiani di tutte le fedi e di tutte le classi produttrici per sospingerli alle nuove ineluttabili battaglie che si devono combattere a completamento e a valorizzazione della grande guerra rivoluzionaria.



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