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Opere di Luigi Pirandello

Le raccolte di versi: una poesia in prosa
Pirandello è un autore ricco di opere e di problemi, sperimentale perché portato per natura ad attraversare e rivoluzionare un po’ tutti i generi e le forme della tradizione. I tre generi in cui ha lasciato l’impronta più profonda sono la novella, il romanzo e il teatro.
Esordì però come poeta in versi: dopo Mal giocondo, del 1889, il cui titolo era giù sottilmente umoristico, pubblicò altri quattro libri poetici; l’ultimo fu Fuori di chiave (1912), un altro titolo squisitamente pirandelliano. Nei verso di quel libro, la stonatura si esprimeva in un’originale forma di poesia dall’andamento prosastico, che rovesciava i luoghi comuni e cantava la dissonanza, il paradossale, la disarmonia.

La ricca produzione novellistica
Nell’arco di tutta la sua vita Pirandello coltivò il genere del racconto breve, o novella, fino a concepire il disegno, rimasto incompiuto, di comporre un corpus di racconti che proponesse una novella per ogni giorno dell’anno (Novelle per un anno). Scrisse ben 246 racconti, molti dei quali cominciano con un fatto imprevedibile, che sconvolge abitudini e aspettative: sono accidenti banali e quotidiani (un filo d'erba strappato, il fischio di un treno, il posarsi di una mosca, una fotografia), ma che suscitano all'improvviso nel personaggio un forte disagio. A questo punto si mette in moto in lui un processo faticoso ma salutare, al termine del quale il protagonista è in grado di vedere meglio se stesso e il mondo. Infine, di solito, egli acquisisce piena consapevolezza dell'assurdità della vita. Neppure il narratore può fornire spiegazioni per quanto accade: sembra sorpreso anche lui come i suoi lettori, perciò narra di sbieco, con uno stile antirealistico che diviene l'immagine eloquente del caos del mondo.

Dalle novelle al teatro
Va sottolineata la stretta parentela che corre tra la novellistica e il teatro di Pirandello. Dei 44 lavori che compongono la sua produzione teatrale, ben 30 derivano da novelle (da una sola o da più di una). Pirandello è uno scrittore circolare (J.M. Gardair), che ritorna costantemente su di sé, come per un bisogno di approfondire la realtà sempre mutevole e sfuggente: le vicende tendono a sovrapporsi e a intrecciarsi, molte novelle diventano drammi, spunti drammatici sono sviluppati in percorsi narrativi, nomi e figure rivivono a distanza di anni, personaggi si ripropongono in lievi ma continue variazioni d'intreccio, e tutto ciò non fa che riproporre l'enigmatico, inafferrabile divenire della vita.

La varietà dei sette romanzi
Pirandello scrisse sette romanzi, molto difformi per ampiezza e per struttura:
  • L'esclusa (pubblicato nel 1901, ma risalente, in realtà, al 1893): una storia di adulterio e di emarginazione, nel contesto siciliano;
  • Il turno (1902), un imbroglio di provincia ambientato ancora in Sicilia e imperniato sul tema del rapporto coniugale come pura forma esteriore;
  • Il fu Mattia Pascal (1904), indubbiamente il capolavoro del Pirandello romanziere, sintesi della poetica umoristica elaborata dall'autore;
  • I vecchi e i giovani (1909), vasto affresco generazionale sulla crisi che investì il Mezzogiorno e l'Italia postunitaria;
  • Suo marito (1911; poi ribattezzato Giustino Roncella nato Boggiòlo), che si svolge negli ambienti pseudointellettuali di Roma in cui agiscono una scrittrice famosa e il suo sprovveduto marito;
  • Si gira... (1915; la seconda edizione, col nuovo titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore, è del 1925), primo romanzo europeo ambientato nel mondo del cinema.
  • Uno, nessuno e centomila (1925-26), il romanzo della scomposizione della personalità e del relativismo.
Ciò che differenzia tra loro i romanzi citati e soprattutto il ruolo che, in essi, viene attribuito ai fatti.
L'intreccio svolge una funzione centrale sia nell'Esclusa e nel Turno (imperniati su squallide storie di provincia siciliana e vicini alla tecnica del racconto verista), sia in I vecchi e i giovani, opera d'interesse politico e sociale. Cambia anche lo sviluppo di questo intreccio: infatti mentre Il turno è un romanzo breve (o racconto lungo), I vecchi e i giovani sembra riprendere le vaste narrazioni del romanzo naturalista dell'Ottocento, alla maniera di Verga e De Roberto.
Invece opere come Si gira... o come Uno, nessuno e centomila adottano una modernissima struttura a diario, in cui le vicende prendono vita nel soliloquio del personaggio-narratore, che ricorda, narra, commenta. E così in questi romanzi (ma già, nettamente, nel Fu Mattia Pascal) assistiamo a una sorta di dissoluzione dei fatti in nome del primato della coscienza, o meglio, dell'inconscio. Si tratta di strutture narrative tipicamente novecentesche, che avvicinano Pirandello a Svevo e agli altri grandi narratori europei del primo Novecento, come Thomas Mann, Franz Kafka, Robert Musil.

Il vero e lo stile assente
Al di là di queste differenze, i romanzi di Pirandello si caratterizzano per alcuni elementi comuni.
In primo luogo, in tutti ritroviamo una costante predisposizione alla riflessioni, alla meditazione filosofica o parafilosofica: in realtà, non c'è filosofia autentica, perché per Pirandello, lo abbiamo già detto, quanto più si ragiona tanto più ci si allontana dalla verità. Se però la ragione non sa stabilire che cosa è vero, può almeno scoperchiare le false certezze, denunciando le illusioni di cui ci ammantiamo.
In secondo luogo, Pirandello racconta la vita così com'è, non un'esistenza artificiale o sublimata. In ciò si riallaccia al vero di Manzoni o Verga; la differenza è che per Manzoni, e anche per i veristi, il vero c'è e si può mostrare: per Manzoni il vero era Dio, per il Naturalismo veri erano i fatti scientificamente documentabili. Invece in Pirandello il vero si amplia a dismisura, fino a comprendere la realtà e il sogno, la ragione e la follia, l'immersione nella natura e il paradosso. Alla fine nulla più sembra vero, e questo lascia al lettore dei suoi romanzi l'impressione di trovarsi di fronte a enormi macchine di ragionamento, che però non servono a nulla e finiscono per confondere ogni idea.
Perciò la critica parla di antiromanzi, diversissimi dai romanzi ottocenteschi tradizionali. Pirandello realizza in essi quel libero spontaneo movimento della forma a suo tempo teorizzato nell'Umorismo. Ironia, paradosso, dissacrazione per il culto borghese delle forme: i romanzi pirandelliani rovesciano le strutture della narrativa tradizionale, per isolare i temi della solitudine, del dolore, dell'esclusione (dal titolo del primo romanzo, L'esclusa). Su tutto si sofferma lo sguardo, amato e umanissimo, dell'autore-umorista.
I romanzi di Pirandello si differenziano dai libri della tradizione anche dal punto di vista dello stile. L'autore siciliano mette infatti sulla pagina un linguaggio monocorde, dialoghi parlati, parole quotidiane. Siamo davanti a un linguaggio medio, a una sorta di stile anonimo, per non dire assente: uno stile che conserva le interiezioni e gli intercalari del parlato, le segmentazioni e le pause di un'espressione che può procedere solo a tentoni, per strappi successivi. D'altra parte, sembra suggerire a Pirandello, di fronte a un mondo in frantumi è impossibile un parlare bello. L'unica forma possibile sarà l'analisi, che prende il posto della sintesi; il caos dell'opera aperta subentra alle forme classicamente composte dell'opera chiusa di un tempo.

Il teatro delle maschere nude
Pirandello fu uno sperimentatore, e di grande portata, anche nella scrittura teatrale e nella sua opera di regista e allestitore, che svolse soprattutto in qualità di direttore del Teatro d'Arte di Roma negli anni 1925-28. Lo entusiasmava per la possibilità di far immedesimare gli attori nel loro personaggio (una tematica vicina al famoso metodo di recitazione elaborato dal regista russo K. Stanislavskij, morto nel 1938, che chiedeva ai propri attori di vivere con la massima immediatezza la loro parte).
Raccolto sotto il titolo complessivo di Maschere nude, il teatro di Pirandello rappresenta il coronamento di un'attività letteraria che da sempre, in fondo, puntava all'espressione teatrale. Nelle novelle e nei romanzi è infatti frequentissimo il tema della maschera come espressione della falsità delle forme che ingabbiano la vita. Inoltre quelle pagine narrative manifestano l'evidente attitudine di Pirandello alla scrittura teatralizzata; sembrano orchestrate in una sorta di presceneggiatura, con didascalie, entrate e uscite, colpi di scena, battute a dialogo. Il teatro dunque divenne per lui, dal 1910 in avanti, il modo più diretto per rappresentare il relativizzarsi delle certezze, la dispersione della coscienza, il precipitare di un mondo in rovina.
I personaggi del teatro pirandelliano (possidenti siciliani oppure professori di liceo, impiegati di ministero, burocrati e gentildonne della media borghesia, ufficiali e attrici) aspirano a verità e pienezza di vita; ma devono sopportare l'insostenibile peso di una maschera che li schiaccia. Le convenzioni sociali li obbligano ad assumere ruoli e identità innaturali, ad accettare umilianti compromessi con la propria coscienza. Vivono così, senza consapevolezza, fino a quando un qualche evento, anche piccolo o di nessuna importanza, non spalanca loro la visione della vita nuda che pulsa dietro l'illusorio schermo della finzione. Ma anche allora, come uscirne? La funzione di questi personaggi è testimoniare il dramma della persona che vive dietro la maschera del personaggio; denunciare l'intollerabilità del giuoco delle parti, senza potersene staccare.
La sfida di Pirandello è questa: far indossare ai personaggi la maschera del burattino per testimoniarne la falsità. Pupi siamo, caro signor Fifi! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti... Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d'essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori (Il berretto a sonagli, 1917).

Il percorso del teatro pirandelliano
I primi lavori teatrali di Pirandello messi in scena, nel dicembre 1910, sono due atti unici: Lumìe di Sicilia (in dialetto siciliano) e La morsa. Sono i primi di 44 testi teatrali, scritti prevalentemente nella forma del dramma in tre atti. C'è anche un esempio di dramma in versi: la Favola del figlio cambiato, del 1934, nucleo originario dei Giganti della montagna.
Un primo gruppo omogeneo è quello delle commedie in dialetto siciliano, tutte del 1916-17: Liolà, storia di un dongiovanni di provincia, e poi Pensaci, Giacomino!, Il piacere dell'onestà e Il berretto a sonagli, grottesche e insieme dolenti parabole sull'onore, l'apparenza e la realtà. Da precedenti novelle derivano alcuni atti unici in siciliano, come La giara (1917) e La patente (1919).
Alcuni testi teatrali di Pirandello sono divenuti veri e propri classici del teatro contemporaneo. Tra questi, Così è (se vi pare), del 1917, dove il dramma è già avvenuto e tutto risiede in un (inutile) dibattito per ristabilire una verità nascosta e assente: siamo di fronte a una perfetta parabola di relativismo. Più umano e toccante il monologo dell'Uomo dal fiore in bocca (1923), il cui protagonista è un malato di cancro posto a confronto con la morte imminente. Ma il capolavoro del teatro italiano del Novecento rimane Sei personaggi in cerca d'autore (1921): qui, nella struttura nuovissima del teatro nel teatro (c'è in scena una compagnia di attori che sta provando un lavoro da mettere in scena), Pirandello raffigura la tragica esplosione dei conflitti familiari. La sperimentazione del teatro nel teatro ritorna anche in Questa sera si recita a soggetto (1930), dove un gruppo di attori propone al pubblico un dramma da fare, elaborato lì per lì, senza copione scritto (cioè appunto a soggetto), dopo aver cacciato dal palcoscenico il suo invadente regista.
Un capolavoro è anche la tragedia dell'Enrico IV (1922), che porta alla ribalta il tema dell'identità personale (o meglio, del suo sciogliersi), intrecciandolo con l'altro grande tema pirandelliano della follia. La struttura dell'Erico IV e anche la sua ambientazione sembrano riportarci alle grandi tragedie della purificazione finale, ottenuta mediante la sofferenza; invece in Pirandello non c'è più alcuna certezza né purificazione per gli uomini. Ora il cielo appare di carta, come leggiamo nel Fu Mattia Pascal: è un cielo vuoto, senza giustizia né destino. E la sofferenza del mondo esplode con forza ancora maggiore, perché ammantata dalle ridicole pagliacciate della vita moderna.
L'ultimo grande dramma pirandelliano è l'incompiuto I giganti della montagna (1934): qui è il mito della poesia e dell'arte (e, in controluce, della follia come barriera e rifugio) a essere celebrato quale ultima, precaria difesa contro gli sconvolgimenti della storia e la violenza delle dittature.



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