da Gli strumenti, strofe III, IV, V
La poesia, una delle più famose di Sereni, uscì sul numero IV del Menabò (settembre 1961), la rivista di Vittorini e Calvino; qualche anno dopo fu inserita, con rimaneggiamenti, nella raccolta Gli strumenti umani. Il poemetto si inserisce nella cosiddetta letteratura industriale, praticata soprattutto da prosatori come Goffredo Parise, Paolo Volponi, Luciana Bianciardi. Sereni assume il tema del lavoro in fabbrica in modo originale: non si limita a descrivere dall’esterno le sofferenze o la vita degli operai in fabbrica, ma dà voce a coloro che vivono e lavorano in essa, esprimendo il loro punto di vista e le ragioni della loro protesta. Nelle prime due strofe, da noi omesse, il poeta presenta la situazione di partenza: un gruppo di persone estranee, tra cui l’autore stesso, giunge a visitare la fabbrica. A partire dalla terza strofa il poeta interpella direttamente gli operai; nella quarta è un operaio a prendere la parola.
Questo dialogo impietoso rivela via via la fabbrica come luogo di infortuni, di sofferenze, di morte. Il dolore ricorda quello della guerra: ma in guerra si poteva sperare d’infrangere l’accerchiamento e di riconquistare la libertà, mentre la fabbrica sembra un Lager che non lascia scampo alle sue vittime. La fabbrica impedisce una vera presa di coscienza delle proprie condizioni: solo in rari momenti ci si accorge di quanto è amaro il pane elargito dal padrone. La fabbrica, con i suoi ritmi nevrotici, minaccia seriamente anche i rapporti umani: l’amore può esprimersi solo in una rapida telefonata. Neppure la poesia serve, almeno nell’immediato,a migliorare la realtà; la poesia presuppone l’umanità mentre la fabbrica è rappresentata da Sereni come un luogo di disumanità.