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Parafrasi: Adelchi coro atto 3 Dagli atri muscosi


di Alessandro Manzoni
Parafrasi:

Dagli antichi palazzi, ricoperti di muschio, dalle piazze e dai monumenti antichi in rovina, nei boschi, dalle officine riarse dal fuoco, dai campi bagnati dal sudore di un popolo schiavo, non popolo (parola che indica comunanza di sentimenti e di ideali, senso di una propria dignità di uomini dispensa e schiava (di signori diversi) improvvisamente si desta, tende l'orecchio e solleva la testa, colpito dalla insolita notizia della sconfitta dei Longobardi. Dagli sguardi dubbiosi e dai volti impauriti come un raggio di sole sommerso dalle folti nubi traluce nel loro volto il fiero valore guerriero degli antichi.
Negli sguardi esitanti e nei volti confusi si mescola e contrasta con l'orgoglio misero perché sopravvissuto solo nel ricordo di un tempo passato (lontano).
Il volgo disperso si raduna mosso dalla speranza del nuovo, ma subito si disperde timoroso per i sentieri tortuosi con un passo incerto, combattuto fra paura e desiderio, avanza e si ferma, guardano continuare i padroni, poi finalmente visti lì in fuga, osa fissare su di loro lo sguardo.
Li vede ansanti come fiere trepidanti con il pelo rossiccio irto dalla paura, cercano i noti nascondigli del loro covo, e qui, deposto l'atteggiamento minaccioso, le donne prima superbe con la faccia pallida addosso guardano in modo sconvolto i loro figli.
E sopra i longobardi in fuga, con le spade avide di sangue colpire (i francesi), come cani disciolti inseguono (la preda), i guerrieri da destra e da sinistra, correndo e cercando,e li vede presi di una gioia mai provata prima con la speranza che va veloce percorre gli eventi e sogna la fine della dura schiavitù (fine del regno longobardo)
udite! I vincitori (i francesi) che sono rimasti padroni del campo di battaglia, impediscono da ogni parte la fuga. Sono giunti da lontano per difficili sentieri. Sospesero le gioie dei festosi conviti, si levarono in fretta dei dolci riposi, chiamati dagli squilli delle trombe, lasciarono nelle sale donne addolorate che rinnovano continuamente gli adii, le preghiere e le raccomandazioni finché il pianto troncò ogni parola, hanno cercato la fronte degli elmi ammaccati (che portavano i segni delle precedenti battaglie), porre la sella sui bruni corsieri (volano sul ponte levatoio che suono cupo, ora divenuto luogo di solitudine e di dolore). Passarono di terra in terra a schiera cantando festosi canzoni di guerra, passando nel cuore i loro dolci castelli, passando per valli petrose e suoli scoscesi, vegliarono armati durante le gelide notti, ricordando gli intimi colloqui d'amore. Sopportarono gli ignoti pericoli di forze sforzate, le corse affannose per sentieri senza traccia di passaggio umano. Sopportarono la rigida disciplina militare, la fame, videro le lance scagliate contro i loro petti, accanto ai loro scudi udirono le frecce volare fischiando vicinissime ai loro elmi.
E il premio sperato e promesso a quei forti, dovrebbe o delusi Italiani essere quello di mutare la vostra sorte, di porre fine al dolore d'un volgo ad essi straniero?
Tornate alle vostre superbe rovine, alle opere che non sono adatte alla guerra, alle officine riarse e ai campi bagnati dal sudore di un popolo schiavo.
Il vincitore si mescola convinto, col nuovo signore rimane l'antico, l'uno e l'altro popolo insieme la opprimono, dividono fra loro gli Italiani schiavi e gli armamenti si posano insieme sui campi insanguinati dalla guerra, gli italiani non sono un popolo, ma un volgo senza nome.


Analisi del testo
Il “coro” è una sintesi vigorosa del dramma di tre popoli: quelli dei Longobardi, costretti all’onta della fuga; dei Franchi vittoriosi sì, ma a prezzo di grandi rinunce, di fatiche e di pericoli; degli italici, volgo disperso che si illude di riacquistare la libertà. La scena dei Longobardi che fuggono, pallidi e smarriti, in cerca di salvezza, è piena di movimento e di pathos: è un popolo di guerrieri superbi, sprezzanti, che sente dolorosa l’onta della sconfitta: loro, i dominatori, costretti a fuggire come belve inseguite, in una caccia spietata, selvaggia! E dietro ai Longobardi in fuga, ecco, quai cani disciolti, le schiere vittoriose dei Franchi. Balena nei loro occhi il lampo della gioia, ma portano sul volto i segni di un lungo patire. E’ la dura legge della guerra, con i suoi orrori e le sue scene di sangue e di morte; e il poeta la contempla con la tristezza di un cristiano che accetta rassegnato il fluire doloroso della storia scritta col sangue e con le lacrime della sofferenza umana. Ed ecco il motivo culminante del “coro”: il popolo italico, accorso al rumore insolito della battaglia, se ne sta lì, con il cuore in tumulto, a contemplare quell’urto di prodi guerrieri, sognando “la fine del duro servir”. Ma è l’assurda speranza di un volgo disperso, non del popolo disceso dai grandi Romani. Come può pensare, illuso, che quei guerrieri abbiano lasciato gli agi di una vita serena e le spose in pianto per venire a liberarlo?
Ritorni ai suoi atrii muscosi, ai fori cadenti, ai boschi, ai campi, alle arse fucine stridenti e si rassegni a servire non uno, ma due padroni. Vana speranza è la sua: un popolo straniero non può gettare così la vita per ridare la patria perduta a un volgo che non ha più né dignità né virtù.
Erano parole di fuoco queste che il Manzoni gettava agli italiani del 1822, era il suo vigoroso contributo al risveglio risorgimentale.



Commento
Quando il Manzoni compose questo “coro”, era già passata sull’Italia la ventata napoleonica ad agitare davanti agli occhi degli italiani idee di libertà e di fratellanza, idee che suscitarono un fermento nuovo anelante alla resurrezione civile e politica dell’Italia. Incominciavano allora i primi moti rivoluzionari del Risorgimento e i primi olocausti di sangue. Perciò questo “coro”, ha sì una bellezza poetica grandissima, ma anche, soprattutto, un significativo valore patriottico e nazionale: non approfitta dei Longobardi potrà ridare l’indipendenza agli italiani, ma la virtù che non conosce sacrifici. E questo, all’alba del nostro Risorgimento, era un monito e una speranza.



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