I gulag sovietici, strumenti di educazione e di sfruttamento
Nati durante lo zarismo, i gulag furono probabilmente istituiti da Pietro il Grande e usati sin dal principio come campi di prigionia dove gli oppositori e i personaggi scomodi venivano confinati e condannati ai lavori forzati. Dopo la rivoluzione bolscevica, Lenin, che in un primo momento aveva fatto liberare tutti i prigionieri politici, fece in seguito ristrutturare e ampliare i campi di lavoro realizzati ai tempi della Russia imperiale, al fine di rinchiudervi tutti i nemici del popolo. Fu soprattutto a partire dal 1936 però che i gulag sovietici divennero il centro di raccolta di migliaia di persone, vittime del regime staliniano.
Nel clima di terrore instaurato da Stalin, ogni cittadino poteva essere riconosciuto colpevole, anche in seguito a un’accusa anonima o infondata, arrestato, sommariamente giudicato e trasferito nei gulag, dove lo aspettavano quasi sempre terribili sofferenze fisiche e psicologiche. Esisteva una sorta di pianificazione degli arresti, ed è questo uno degli aspetti più agghiaccianti della storia dei gulag: il numero dei detenuti che avrebbe dovuto popolare un campo veniva deciso a inizio anno secondo le direttive dello stesso Stalin, che fece del lavoro coatto una delle basi dell’industrializzazione della Russia.
Le ubicazioni dei campi di lavoro venivano scelte prima di tutto per facilitare l’isolamento dei prigionieri perciò la maggior parte dei gulag erano situati nei territori remoti della Siberia, che per le sue ostili condizioni climatiche era stato il più sfruttato ed efficace luogo di punizione fin dai tempi degli zar. Si trattava di regioni vastissime e perlopiù disabitate, senza collegamenti, prive di fonti di sostentamento, ma ricche di minerali e legame. Data la loro importanza come mezzo per avere forza lavoro a basso costo, i gulag proliferarono oltre che in Siberia in tutta l’Unione Sovietica, ovunque la convivenza economica ne giustificasse la costruzione.
Le attività dei detenuti consistevano nel taglio e trasporto di legname, nel lavoro in miniera, nella costruzione di strade e ferrovie e in altre opere, tante delle quali inutili, realizzate al prezzo di tante vite umane: basti pensare al canale tra il Mar Baltico e il Mar Bianco o alla ferrovia in Siberia lungo il Circolo Polare Artico.
Le condizioni dei condannati erano disumane: vivevano e lavoravano in catene, alloggiavano in baracche umide, fredde e sovraffollate; la sorveglianza era strettissima, cani da guardia, filo spinato e territori impervi toglievano ogni speranza di fuga. Quote di produzione assurde sottoponevano a massacranti turni di lavoro i detenuti, che erano mal nutriti e non adeguatamente vestiti, deliberatamente curati. La durezza di tali condizioni fu la causa principale dell’alto tasso di mortalità nei gulag, dove migliaia di persone hanno perso la vita. Il totale dei morti è difficilmente documentabile, si stima che fra il 1929 e il 1953 nei campi di lavoro siano decedute più di due milioni di persone, senza dimenticare che i sopravvissuti soffrirono danni fisici e psicologici permanenti.
La pubblicazione nel 1973 del romanzo autobiografico di Aleksander Solzenicyn, Arcipelago Gulag, fece conoscere al mondo intero l’orrore dei campi; da allora, e in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, molti documenti tenuti troppo a lungo nascosti hanno iniziato a far nuova luce su questa ferita della storia della civiltà del XX secolo. Arcipelago Gulag, ad esempio, contiene una dettagliata descrizione del funzionamento del gulag in tutti i suoi aspetti. Il punto di forza dell’opera è quello di mettere a fuoco gli infiniti effetti dell’inferno del gulag sulla psiche dei prigionieri. Esso rappresenta perciò un omaggio alla memoria delle vittime innocenti e un’appassionata denuncia dell’efferatezza dello stalinismo. Nel seguente brano Solzenicyn paragona i prigionieri ai servi della gleba:
Dei servi della gleba! Il confronto veniva spontaneo a molti, e non a caso, ogni qualvolta avevano il tempo di riflettere. Non i singoli tratti, ma il senso principale dell’esistenza della servitù della gleba e dell’Arcipelago era uno solo: istituzioni pubbliche per lo sfruttamento coercitivo e spietato del lavoro gratuito di milioni di schiavi. Sei giorni la settimana, spesso sette, gli indigeni dell’Arcipelago si recavano spossanti corvees che non portavano loro alcun utile personale. A loro non era concesso, come ai servi della gleba, di lavorare per se stessi il quinto, e nemmeno il settimo giorno, perché al mantenimento provvedeva ogni mese la razione del lager, la mensilità.
Erano anch’essi divisi in servi prestatori di lavoro (gruppo A) e servi addetti alla casa (gruppo B) che servivano direttamente il proprietario terriero (capo del lager) e la tenuta (la zona). Erano riconosciuti malati (gruppo C) solo quelli che non riuscivano più a scendere dalla stufa (dal pancaccio). Esistevano ugualmente castighi per i colpevoli (gruppo D), con la differenza che il proprietario terriero agiva nei propri interessi e puniva con la minor perdita possibile di giornate lavorative, con fustigazioni in scuderia, poiché non aveva la cella di rigore, mentre il capo del lager, secondo le istruzioni emanate dallo Stato, rinchiude il colpevole nell’isolatore di punizione, o nella baracca di regime poteva prendersi un qualsiasi schiavo come lacchè, cuoco, parrucchiere o buffone (poteva anche formarsi in compagnia teatrale di servi della gleba, se gli piaceva), nominare governante di casa una qualsiasi schiava, farne la sua concubina o domestica. Come il proprietario terriero, poteva permettersi qualunque stravaganza, poteva mostrare liberamente la sua indole. […]
Incapace di prevedere la volontà del padrone, il servo della gleba pensava poco al domani, e così pure il detenuto. […]
Come il servo della gleba non sceglieva il suo destino, non era colpevole della propria nascita, così non lo sceglieva il detenuto, capitava anch’egli nell’Arcipelago per pura fatalità.
Nati durante lo zarismo, i gulag furono probabilmente istituiti da Pietro il Grande e usati sin dal principio come campi di prigionia dove gli oppositori e i personaggi scomodi venivano confinati e condannati ai lavori forzati. Dopo la rivoluzione bolscevica, Lenin, che in un primo momento aveva fatto liberare tutti i prigionieri politici, fece in seguito ristrutturare e ampliare i campi di lavoro realizzati ai tempi della Russia imperiale, al fine di rinchiudervi tutti i nemici del popolo. Fu soprattutto a partire dal 1936 però che i gulag sovietici divennero il centro di raccolta di migliaia di persone, vittime del regime staliniano.
Nel clima di terrore instaurato da Stalin, ogni cittadino poteva essere riconosciuto colpevole, anche in seguito a un’accusa anonima o infondata, arrestato, sommariamente giudicato e trasferito nei gulag, dove lo aspettavano quasi sempre terribili sofferenze fisiche e psicologiche. Esisteva una sorta di pianificazione degli arresti, ed è questo uno degli aspetti più agghiaccianti della storia dei gulag: il numero dei detenuti che avrebbe dovuto popolare un campo veniva deciso a inizio anno secondo le direttive dello stesso Stalin, che fece del lavoro coatto una delle basi dell’industrializzazione della Russia.
Le ubicazioni dei campi di lavoro venivano scelte prima di tutto per facilitare l’isolamento dei prigionieri perciò la maggior parte dei gulag erano situati nei territori remoti della Siberia, che per le sue ostili condizioni climatiche era stato il più sfruttato ed efficace luogo di punizione fin dai tempi degli zar. Si trattava di regioni vastissime e perlopiù disabitate, senza collegamenti, prive di fonti di sostentamento, ma ricche di minerali e legame. Data la loro importanza come mezzo per avere forza lavoro a basso costo, i gulag proliferarono oltre che in Siberia in tutta l’Unione Sovietica, ovunque la convivenza economica ne giustificasse la costruzione.
Le attività dei detenuti consistevano nel taglio e trasporto di legname, nel lavoro in miniera, nella costruzione di strade e ferrovie e in altre opere, tante delle quali inutili, realizzate al prezzo di tante vite umane: basti pensare al canale tra il Mar Baltico e il Mar Bianco o alla ferrovia in Siberia lungo il Circolo Polare Artico.
Le condizioni dei condannati erano disumane: vivevano e lavoravano in catene, alloggiavano in baracche umide, fredde e sovraffollate; la sorveglianza era strettissima, cani da guardia, filo spinato e territori impervi toglievano ogni speranza di fuga. Quote di produzione assurde sottoponevano a massacranti turni di lavoro i detenuti, che erano mal nutriti e non adeguatamente vestiti, deliberatamente curati. La durezza di tali condizioni fu la causa principale dell’alto tasso di mortalità nei gulag, dove migliaia di persone hanno perso la vita. Il totale dei morti è difficilmente documentabile, si stima che fra il 1929 e il 1953 nei campi di lavoro siano decedute più di due milioni di persone, senza dimenticare che i sopravvissuti soffrirono danni fisici e psicologici permanenti.
La pubblicazione nel 1973 del romanzo autobiografico di Aleksander Solzenicyn, Arcipelago Gulag, fece conoscere al mondo intero l’orrore dei campi; da allora, e in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, molti documenti tenuti troppo a lungo nascosti hanno iniziato a far nuova luce su questa ferita della storia della civiltà del XX secolo. Arcipelago Gulag, ad esempio, contiene una dettagliata descrizione del funzionamento del gulag in tutti i suoi aspetti. Il punto di forza dell’opera è quello di mettere a fuoco gli infiniti effetti dell’inferno del gulag sulla psiche dei prigionieri. Esso rappresenta perciò un omaggio alla memoria delle vittime innocenti e un’appassionata denuncia dell’efferatezza dello stalinismo. Nel seguente brano Solzenicyn paragona i prigionieri ai servi della gleba:
Dei servi della gleba! Il confronto veniva spontaneo a molti, e non a caso, ogni qualvolta avevano il tempo di riflettere. Non i singoli tratti, ma il senso principale dell’esistenza della servitù della gleba e dell’Arcipelago era uno solo: istituzioni pubbliche per lo sfruttamento coercitivo e spietato del lavoro gratuito di milioni di schiavi. Sei giorni la settimana, spesso sette, gli indigeni dell’Arcipelago si recavano spossanti corvees che non portavano loro alcun utile personale. A loro non era concesso, come ai servi della gleba, di lavorare per se stessi il quinto, e nemmeno il settimo giorno, perché al mantenimento provvedeva ogni mese la razione del lager, la mensilità.
Erano anch’essi divisi in servi prestatori di lavoro (gruppo A) e servi addetti alla casa (gruppo B) che servivano direttamente il proprietario terriero (capo del lager) e la tenuta (la zona). Erano riconosciuti malati (gruppo C) solo quelli che non riuscivano più a scendere dalla stufa (dal pancaccio). Esistevano ugualmente castighi per i colpevoli (gruppo D), con la differenza che il proprietario terriero agiva nei propri interessi e puniva con la minor perdita possibile di giornate lavorative, con fustigazioni in scuderia, poiché non aveva la cella di rigore, mentre il capo del lager, secondo le istruzioni emanate dallo Stato, rinchiude il colpevole nell’isolatore di punizione, o nella baracca di regime poteva prendersi un qualsiasi schiavo come lacchè, cuoco, parrucchiere o buffone (poteva anche formarsi in compagnia teatrale di servi della gleba, se gli piaceva), nominare governante di casa una qualsiasi schiava, farne la sua concubina o domestica. Come il proprietario terriero, poteva permettersi qualunque stravaganza, poteva mostrare liberamente la sua indole. […]
Incapace di prevedere la volontà del padrone, il servo della gleba pensava poco al domani, e così pure il detenuto. […]
Come il servo della gleba non sceglieva il suo destino, non era colpevole della propria nascita, così non lo sceglieva il detenuto, capitava anch’egli nell’Arcipelago per pura fatalità.