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Alfred Tennyson: Ulysses


Traduzione, parafrasi e commento

Alfred Tennyson è affascinato dalla figura di Ulisse viaggiatore instancabile, generoso ricercatore di esperienze sempre nuove. E' un Ulisse vecchio e stanco ma esperto di tanto mondo da non sapersi più adattare alla monotonia della vita domestica, in una patria angusta come Itaca; egli preferisce esporre la sua vecchiezza ancora vigorosa ad un avventura piena di rischio, verso l'ignoto, convinto che non è importante vivere a lungo: è importante vivere intensamente.
Questa immagine di Ulisse, eroe appassionato di sempre nuove conoscenze, fu molto cara alla tradizione medievale (ce lo dimostra il XXVI canto dell'Inferno dantesco), ma anche i poeti dell'Ottocento romantico ne esaltarono la nobile ansia di ricerca e la bramosia di evasione fuori dalla banalità della vita quotidiana; in lui, infatti ritrovarono il loro stesso desiderio di nuovi valori dello spirito, come premessa alla conquista della libertà. In tutto il monologo è abbastanza evidente l'ispirazione alla figura di Ulisse creata da Dante.

Parafrasi
Questi splendidi versi del poeta inglese Alfred Tennyson (1809-1892), dedicati a Ulisse, metafora incarnata del viaggiatore, esprimono, come solo la lirica sa fare, la condizione itinerante dell'uomo, la sua brama originaria di andare a cogliere la "stella che cade" oltre la linea dell'orizzonte.

Ulisse decide di lasciare il regno al figlio Telemaco, per riprendere il mare, forte della sua "volontà di lottare, cercare, trovare e non cedere mai".
Eppure, non sempre l'uomo accetta il rischio di riprendere il mare, di fare nuove esperienze, di mettersi nella condizione del viandante romantico, pervaso dallo struggente desiderio di cogliere l'infinito, l'Assoluto, pur nella consapevolezza della sua impossibilità.

Coltivare l'Ulisse che è dentro di noi significa vivere pienamente la nostra esperienza di frontiera, la nostra strutturale ambivalenza, il nostro essere perennemente sospesi tra ignoranza e conoscenza, progetto e realizzazione, desiderio d'infinito, di pienezza di senso e sua impossibilità, almeno all'interno del tempo corruttibile.

Lasciare il regno, nella nostra ottica, non significa però rinunciare agli affetti, alla stabilità dei legami, al nostro "regno" quotidiano, semmai vivere l'esperienza del viaggio all'interno di questo stesso "regno".

La quotidianità emerge in tutto il suo grigiore solo in colui che non coltiva con cura, con amore, con vivo desiderio il suo Ulisse, poiché incapace di vedere con occhi sempre nuovi la realtà che lo circonda, i volti che ama; incapace di accrescere il suo sapere, di intensificare gli affetti, di rinnovarsi nella sua professione, di esplorare nuove modalità d'esistenza.

Occorre una sorta d'unione mistica con la vita, e, per chi è animato da autentico spirito religioso, con l'Assoluto, al fine di concludere il proprio viaggio con la consapevole gioia di non essersi mai accontentati di visitare un solo porto.

Ci sono, infatti, due tipi di stabilità:
· La stabilità artificiosa di chi si è "trascinato" nella vita in modo ripetitivo, meccanico, freddo, impersonale;
· La stabilità dell'anima propria di colui che ha raggiunto il perfetto equilibrio di sé, o, perlomeno, lo ha cercato, perché ha capito che solo rinnovandosi, acquisendo nuove esperienze, progettando nuove forme d'esistenza ha coltivato l'Ulisse che è in lui, insomma ha realizzato la sua vera essenza di uomo.

Valgono, allora, più che mai, le stupende parole di Aristotele, contenute nell'Etica nicomachea: "Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all'uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi."


(Testo nella versione italiana)
« A poco giova che un re ozioso,

In questo fermo focolare, presso queste sterili rupi,
Sposato a una donna vecchia, io misuro e ripartisco
Imparziali leggi a una stirpe selvaggia,
Che ammucchia, e dorme, e si nutre, e non mi conosce.

Non posso smettere di viaggiare: berrò
Ogni goccia della vita: Tutto il tempo ho assaporato
Molto, ho sofferto molto, sia con coloro
Che mi amavano, che da solo, sulla riva, e quando
Con tumultuose correnti le piovose Iadi
Agitavano l'oscuro mare: io son diventato un nome;
Per aver sempre vagato con cuore affamato
Molto ho visto e conosciuto; città di uomini
E costumi, climi, consigli, governi,
E non di meno me stesso, ma onorato da tutti;
E ho assaporato il piacere della battaglia coi miei pari,
Lontano sulle risonanti pianure della ventosa Troia.
Sono parte di tutto ciò che ho incontrato;
Eppure ancora tutta l'esperienza è un arco attraverso cui
Brilla quel mondo inesplorato i cui confini sbiadiscono
Per sempre e per sempre quando mi muovo.
Com'è sciocco fermarsi, finire,
Arrugginire non lucidati, non brillare nell'uso!
Come se respirare fosse vivere! Vita ammucchiata su vita
Sarebbero tutte troppo poco, e di una sola a me
Poco rimane: ma ogni ora è salva
Da quell'eterno silenzio, qualcosa di più,
Un portatore di nuove cose; e vile sarebbe
Per tre soli (giorni) ammucchiare e accumulare io stesso,
E questo grigio spirito bramare nel desiderio
Di seguire la conoscenza come una stella cadente,
Oltre il limite più estremo del pensiero umano.

Questo è mio figlio, il mio Telemaco,
Al quale io lascio lo scettro e l'isola,--
Da me molto amata, che discerne come adempiere
Questo lavoro, con lenta prudenza per addolcire
Un popolo rozzo, e attraverso soffici gradi
Sottometterli all'utile e al bene.
Il meno biasimabile è egli, concentrato nella sfera
Dei comuni doveri, conveniente a non cadere
In funzioni di fragilità, e pagare
Adatte preghiere agli dèi della mia casa,
Quando sarò partito. Egli fa il suo lavoro, io il mio.

Lì giace il porto; il vascello gonfia la sua vela:
Là si oscurano i neri, estesi mari. Miei marinai,
Anime che hanno faticato, e lavorato, e pensato con me--
Che sempre con un allegro benvenuto accolsero
Il tuono e la luce del sole, e opposero
Cuori liberi, menti libere- voi ed io siamo vecchi;
La vecchia età ha ancora il suo onore e la sua lotta;
La morte chiude tutto: ma qualcosa prima della fine,
Qualche lavoro di nobile natura, può ancora essere fatto,
Uomini non sconvenienti che combattevano contro gli Dèi.
La luce comincia a scintillare dalle rocce:
Il lungo giorno affievolisce: la lenta luna si innalza: il mare
Geme attorno con molte voci. Venite, amici miei,
Non è troppo tardi per cercare un mondo più nuovo.
Spingetevi al largo, e sedendo bene in ordine colpite
I sonori solchi; perché il mio scopo consiste
Nel navigare oltre il tramonto, e i bagni
Di tutte le stelle occidentali, finché io muoia.
Potrebbe succedere che gli abissi ci inghiottiranno:
Potremmo forse toccare le Isole Felici,
E vedere il grande Achille, che noi conoscemmo.
Anche se molto è stato preso, molto aspetta; e anche se
Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi
Mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo;
Un'eguale indole di eroici cuori,
Indeboliti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà
Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere. »


Commento e riflessioni
Ulisse è, nella tradizione classica, l'eroe che Omero ha immortalato per l'astuzia e per il coraggio, per l'appassionato desiderio di avventura e per il tenero attaccamento alla patria e agli affetti domestici. Nel Medioevo, invece, egli è protagonista di una tradizione diversa da quella omerica: è un audace navigatore che sfida i confini del mondo assegnato agli uomini e, al di là delle Colonne d'Ercole, scompare inghiottito dal mare. Anche Dante, pur condannandolo nell'Inferno fra i consiglieri di frode (perchè tramò l'inganno del cavallo nella guerra di Troia), ne riconosce l'audacia e lo esalta come un eroe moderno, tutto proteso alla conquista dell'ignoto, avido di nuove esperienze, mai sazio del suo sapere. Questa è la figura di Ulisse che viene amata dai poeti romantici che, come Tennyson, vi ritroviamo l'inquietudine della ricerca, l'affermazione del coraggio, il fascino della sfida dell'individuo al mondo intero e alle sue regole. <<bello di fama e di sventura>> lo aveva definito il Foscolo, e questa immagine, emblematica delle aspirazioni romantiche, si impose per tutto l'Ottocento e oltre. E' rimasta simbolo dell'uomo indomabile conquistatore e ha ispirato poeti e scrittori più vicini a noi, come Pascoli, D'Annunzio, Graf, Saba, Joyce...



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