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Capitolo 30 de I Promessi Sposi - Analisi e Commento

Spiegazione, analisi e commento degli avvenimenti del trentesimo capitolo (cap. XXX) del celebre romanzo I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.


La struttura

Il capitolo si presenta come la continuazione di quello precedente in cui don Abbondio, accompagnato dalle due donne aveva iniziato il suo viaggio verso il castello dell'innominato.
Il capitolo XXIX e il capitolo XXX costituiscono l'epopea del curato che, alle prese con fatti più grandi di lui (la discesa dei famigerati lanzichenecchi e i saccheggi che segnano il loro passaggio), ne costituisce la figura centrale.
Il racconto delle peripezie dei personaggi del romanzo, la loro micro-storia,  si inserisce così nella macro-storia, rappresentata dalle guerra che coinvolge grandi e piccoli, potenti e sudditi, intrecciando storia e invenzione.



I personaggi


Don Abbondio
Il centro della narrazione è l'io di don Abbondio, i cui diritti egli coltiva e afferma gelosamente. Tutto ruota intorno alla sua grande inguaribile paura: teme i soldati tedeschi, l'innominato e persino l'eventualità che Agnese e Perpetua si lascino sfuggire qualche parola di troppo. Il suo punto di vista lo porta a qualificare sbrigativamente le due donne come pettegole, chiacchierone senza cervello che è bene controllare: eppure, nel colloquio con l'innominato, socialmente molto più in alto di loro, esse si rivelano spontanee e disinvolte, soprattutto Agnese.
Ricevuto al castello con tutti gli onori, don Abbondio inizia la sua vita di rifugiato, seguendo i consueti schemi di comportamento: si tiene in disparte, cerca di farsi notare meno possibile, non collabora, anzi trascorre le giornate senza far nulla. Egli è perfettamente coerente ai principi che formano il suo sistema di vita e che il narratore aveva già enunciato nel primo capitolo: in particolare, è fedele alla regola della neutralità disarmata, in base alla quale cerca di evitare qualsiasi occasione di pericolo o di scontro. Non potendo e non volendo reagire con decisione, perché ciò vorrebbe dire schierarsi, fare delle scelte, don Abbondio non ha che una soluzione: autoemarginarsi.
Lo abbiamo visto altre volte: nel capitolo XXV, per esempio, quando, attende con i suoi parrocchiani l'arrivo del cardinale Borromeo. Al castello dell'innominato, emerge ancora questo comportamento, il cui effetto più evidente è la solitudine: il curato è cordiale con tutti (per prudenza, non si sa mai!), però non fa amicizia con nessuno, parla pochissimo, tranne che con Agnese e Perpetua, le quali mal sopportano i suoi sfoghi lamentosi.
La sua solitudine è ben diversa da quella dell'innominato: nel potente signore, essa è il segno di una superiorità spirituale, di una personalità eccezionale che pone al di sopra della maggioranza degli uomini; in don Abbondio, è l'isolamento dell'egoista, la chiusura in se stesso dell'uomo arido e insensibile alle sofferenze altrui.
Questa tendenza all'esclusione è legata a una vera e propria malattia della volontà: egli non decide, non progetta, non è mai autonomo nei suoi comportamenti, si lascia guidare da tutti (persino, nel XXIV, dalla mula del segretario) e attribuisce agli altri, coalizzati contro di lui, le proprie disgrazie.
Anche che per questo aspetto del carattere si colloca all'opposto dell'innominato, di cui il narratore aveva fatto notare la volontà impetuosa.
Persino la sua serva è dotata di maggiore buon senso e realismo. Lo dimostrano le due diverse ottiche con cui i personaggi considerano gli uomini dell'innominato, di guardia all'entrata della valle: per don Abbondio, sono facce da guardare con la coda dell'occhio; per Perpetua, che sa valutare la realtà, sono brava gente... che ci saprà difendere.


Don Abbondio e Perpetua
Le analogie e le differenze tra don Abbondio e Perpetua risultano ancora più evidenti nella parte conclusiva del capitolo, quando, ritornati nella loro abitazione, la ritrovano violata dai lanzichenecchi.
La sofferenza comune si esprime innanzitutto nella contemplazione del guasto provocato dai devastatori; poi è rivelata dalle esclamazioni e dai pochi gesti. Tuttavia, il narratore non rinuncia alle sfaccettature e i due finiscono per dimostrarsi fondamentalmente diversi: il primo si rifiuta di esigere la restituzione della propria roba, che si trova per gran parte in casa di gente del paese; l'altra, invece, non si dà pace e tormenta il padrone che non potrà mai fare ciò che ella desidera, perché si tratterebbe di scontrarsi con dei birboni, proprio quel tipo di persone che bisogna evitare a tutti i costi. La conclusione della donna è lapidaria e molto veritiera: Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non rubare.
Ben presto, però, le piccole miserie degli uomini comuni lasciano il posto vicende più drammatiche che richiedono una narrazione di tono più elevate così, dalla commedia si passa alla tragedia.



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