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Decolonizzazione in Asia

Riassunto:
L’impero britannico già prima della seconda guerra mondiale aveva iniziano nei confronti delle sue colonie asiatiche, e in particolare dell’India, un graduale processo di allargamento delle autonomia: nel 1935 era stato approvato dal Parlamento inglese il Government India Act, una Costituzione che attribuiva maggiori poteri alle provincie indiane. In India la scena politica era quel tempo dominata dal Partito del Congresso, divenuto, grazie al prestigio del Mahatma Gandhi, un grande movimento di massa che si poneva l’obiettivo di raggiungere l’indipendenza attraverso tecniche di lotta non violente. Inizialmente rifiutato perché giudicati una riforma troppo limitata, il Government India Act fu poi accolto dal Partito del Congresso. Ma nel 1939, in concomitanza con l’inizio della seconda guerra mondiale, le campagne di protesta e di disobbedienza civile nei confronti della Gran Bretagna erano riprese sotto la guida di Jawaharlal Nehru: l’India infatti, per unilaterale decisione inglese, si era trovata coinvolta nel conflitto. Posta così di fronte alla mobilitazione di quel Paese contro la guerra, l’Inghilterra fu costretta a promettere all’India una indipendenza di fatto. La guerra contro la Germania e poi, nel 1941, contro il Giappone, costò all’India due milioni di soldati e centomila civili morti. Il riconoscimento dell’Indipendenza (Indian Indipendence Act) avvenne soltanto nel 1947, quando il governo britannico si trovava sotto la guida di Clement Attlee, esponente del Partito laburista, tradizionalmente avverso all’imperialismo coloniale.

La nascita del Pakistan
Durante gli anni della lotta che condusse all’indipendenza, l’India fu dilaniata da un violento conflitto religioso tra induisti e musulmani, che portò il Parlamento inglese a disegnare due diversi Stati, l’Unione Indiana, con una popolazione di religione a maggioranza Indù, e il Pakistan, a maggioranza islamica (15 agosto 1947). Quest’ultimo fino al 1971 comprenderà due parti) il Pakistan vero e proprio, a ovest dell’India, e il Bengala orientale, a est), separate tra loro da oltre 1500 chilometri di territorio indiano.
La divisione del Paese in base alla religione prevalente causò l’esodo forzato, con drammatici scontri e violenze, di centinaia di migliaia di profughi, sia fra le popolazioni indù che con la nascita dei due Stati si erano trovate a far parte del Pakistan, sia fra quelle musulmane che si erano trovate a far parte dell’India. Le tensioni tra India e Pakistan sfociarono anche in una vera e propria guerra per il controllo della regione del Kashmir (che iniziò nel 1948 e non ha mai visto una pace definitiva). In meno di tre anni le vittime degli scontri etnico religiosi arrivarono a 800.000. Del fanatismo religioso fu vittima lo stesso Gandhi, da sempre contrario alla divisione fra India e Pakistan, assassinato nel 1948 da un radicale industria.

Il governo ne Nehru e la modernizzazione dell’India 
Dopo la proclamazione dell’indipendenza Jawaharlal Nehru divenne capo del governo indiano (1947-1964). In politica estera, in una situazione internazionale connotata dal bipolarismo Usa-Urss, egli mantenne l’India in una posizione di equidistanza dai due blocchi; in politica interna si pose come obiettivo primo la democratizzazione e la modernizzazione del Paese, da realizzarsi attraverso il superamento delle strutture tradizionali proprie dell’antica società agricola: egli riuscì così a eliminare il sistema della caste (e la condizione di intoccabile), a concedere alle donne il diritto di voto e ad abolire la poligamia. Il suo governo avviò inoltre un processo di industrializzazione e promosse una importante riforma agraria di stampo antilatifondista che prevedeva, tra le altre cose, l’imposizione di un limite massimo di estensione della proprietà terriera, la ridistribuzione delle terre in eccedenza e la formazione di cooperative agricole che raccogliessero i piccoli e medi proprietari. A causa però dell’opposizione da parte dei gruppi rurali e più conservatori presenti nel Partito del Congresso, le riforme furono realizzate solo in parte. Nonostante i progressi attuati, Nehru non riuscì dunque a eliminare i gravi problemi del Paese: in particolare l’analfabetismo e la fame, determinata dalla gravissima e persistente arretratezza dell’agricoltura e dalla vertiginosa crescita demografica, che porterà la popolazione indiana dai circa 160 milioni del 1941 ai 950 milioni del 1975. Durante il suo governo, nel 1950, entrò in vigore la nuova Costituzione, con la quale l?india diveniva una repubblica federale con  360 milioni di abitanti e una democrazia parlamentare.

Il ruolo di Nehru sul piano internazionale
Il premier indiano Nehru fu uno dei principali promotori nel 1955 della conferenza di Bandung, in Indonesia, dove i delegati dei Paese asiatici e africani che avevano da poco raggiunto l’indipendenza si riunirono per affermare la loro solidarietà nella lotta anticolonialista e il loro non allineamento alla politica dei due blocchi contrapposti.

Indira Gandhi e la guerra indo-pakistana
Nel 1966, due anni dopo la morte di Nehru, ebbe ad assumere l’incarico di primo ministro la figlia Indira Gandhi (1966-1984). Essa si trovò ben presto ad affrontare un conflitto con il Pakistan, in occasione del quale, allontanandosi dall’equidistanza del padre in politica estera, si avvicinò all’Unione Sovietica.
Nella parte orientale del Pakistan la popolazione bengalese, che viveva una condizione di estrema povertà, aggravata dalla tragica inondazione che si era abbattuta nel 1971 sulla regione, chiedeva la nascita di uno Stato autonomo. Il governo pakistano mise allora in atto una feroce repressione ai danni dei separatisti, che si tradusse in una guerra civile durata nove mesi e caratterizzata da episodi di vero e proprio genocidio, con lo sterminio di circa tre milioni di bengalesi. In conseguenza di tale drammatico evento si rovesciarono sull’India circa dieci milioni di profughi, che il Paese non era evidentemente in grado di assorbire. Indira Gandhi, dopo aver tentato invano di convincere i Paesi occidentali ad agire diplomaticamente per far cessare la guerra civile pakistana, decise di intervenire: dopo aver stipulato un patto di alleanza con l’Unione Sovietica, condusse un’operazione militare che portò alla completa capitolazione delle forze pakistane (sostenute da Usa e Cina) nella zona orientale. La guerra indo pakistana si concluse nel 1971 con la nascita di una nuova repubblica indipendente, il Bangladesh che, come l’India entrava a far parte del Commonwealth britannico. Nonostante l’impegno per lo sviluppo industriale e agricolo che caratterizzò anche il governo di Indira Gandhi, l’India non riuscì a liberarsi dal peso delle sue strutture sociali decisamente arretrate, le quali erano all’origine dell’endemica mancanza di mezzi di sussistenza.

L’indipendenza degli altri Paesi del Sud-est asiatico 
Ancor prima dell’India, nel 1946 avevano raggiunto l’indipendenza dagli Stati Uniti le Filippine, in seguito a un preciso impegno assunto tre anni prima da presidente americano Roosevelt in cambio della concessione e dell’uso di basi navali e aeree indispensabili per la lotta contro il Giappone durante la seconda guerra mondiale. La Birmania si liberò a sua volta l’Olanda riconobbe l’autonomia dell’Indonesia nel 1949. Nel 1957 la Gran Bretagna concesse l’indipendenza alla Malaysia. Due anni dopo le isole Hawaii (1959) divennero il cinquantesimo Stato degli Usa.


La guerra di liberazione in Indocina
L’Indocina non si era mai rassegnata al dominio coloniale dei Francesi; nel 1946 cominciò una vera e propria guerra tra la Francia e il Fronte nazionale per la liberazione del Vietnam (Viet Minh), sotto la guida di Ho Chi Minh, che si protrasse fino al 1954 con la sconfitta francese a Dien Bien Phu: nome che ben presto assunse risonanza mondiale, specialmente nei Paesi afroasiatici, in quanto ricordava la prima vittoria conseguita da un esercito nazionale di liberazione contro una ben più possente struttura militare europea. Le vicende della liberazione del Vietnam si intrecciarono con gli interessi delle due superpotenze, intenzionate a mantenere in quella zona una posizione di equilibrio, nella logica della guerra fredda. Gli Stati Uniti all’inizio della guerra si mostrarono sfavorevoli al proseguimento coloniale francese in Indocina, ma la vittoria dei comunisti in Cina (1949) fece cambiare  loro atteggiamento: nella nuova situazione anche il dominio coloniale francese in Vietnam poteva costituire un baluardo del mondo libero contro il comunismo. Per questo motivo gli Stati Uniti si trovarono ad appoggiare e aiutare la Francia. La guerra di liberazione in Indocina si era dunque a un certo punto trasformata da conflitto coloniale in guerra diretta tra il blocco comunista e quello statunitense.

La conferenza di Ginevra (1954)
Riunitasi nell’aprile 1954 a Ginevra, sancì nel luglio successivo la fine del dominio francese sul territorio indocinese, che veniva diviso in tre diversi Stati: la Cambogia, il Laos e il Vietnam. Quest’ultimo fu a sua volta diviso in due parti: la repubblica socialista del Vietnam del Nord (capitale Hanoi), sotto la presidenza di Ho Chin Minh; il Vietnam del Sud (capitale Saigon), divenuto nell’agosto 1955 una repubblica, la cui presidenza venne affidata con l’appoggio dei Francesi a Ngo Dinh Diem, espressione delle classi commerciali e latifondiste e come tale avverso alla diffusione del comunismo nel Paese. Fu il 17° parallelo a segnare il confine tra i due Stati, la cui riunificazione, secondo il principio di autodeterminazione, sarebbe stata decisa entro due anni dalla volontà popolare attraverso libere elezioni.

La decolonizzazione in Medio Oriente (1945-1970)
In Medio Oriente la decolonizzazione assunse forme peculiari, in uno scenario che vide, dopo la conquista delle varie indipendenze, sempre più contrapporsi i Paesi arabi e il neonato Stato di Israele. Fin dal 1944, mentre ancora divampava la seconda guerra mondiale, la Siria e il Libano, in seguito a una lunga serie di rivolte locali, si erano dichiarati indipendenti dalla Francia, proclamandosi libere repubbliche. Nel 1945 quindi gli Stati del Medio Oriente già indipendenti e riconosciuti come membri del’Onu erano Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Libano, Siria, Yemen del Nord, Transgiordania. Essi, con il patrocinio della Gran Bretagna, dettero vita alla Lega araba, quale associazione di difesa e organo collegiale destinato ad aiutare le nazioni arabe non ancora indipendenti. Riunendosi in un organismo comune, questi Paesi manifestarono la volontà di rafforzare il mondo arabo e di farne un soggetto politico autonomo nei confronti della grandi potenze occidentali, ma fuori dalla logica dei blocchi contrapposti.

La fine del mandato inglese in Palestina
Le vicende della Palestina, regione creata dopo la dissoluzione dell’impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale e posta sotto mandato della Gran Bretagna, assunsero una rilevanza particolare per gli eventi che si succedettero nell’area mediorientale.
In Palestina la stessa Gran Bretagna aveva favorito l’immigrazione ebraica, che conobbe negli anni Venti e Trenta del Novecento una crescita esponenziale; la presenza sempre più numerosa dei coloni ebrei provocò, da parte araba, forme di protesta e sollevazioni nei confronti degli Inglesi. Nel 1939 la Gran Bretagna decise di limitare l’immigrazione ebraica in Palestina e, allo stesso tempo, annunciò che entro dieci anni sarebbe stato creato uno Stato a maggioranza araba, nel quale avrebbero convissuto Arabi ed Ebrei. I drammatici esiti della seconda guerra mondiale, con il genocidio di sei milioni di Ebrei in tutta Europa compiuto dai nazisti, rafforzarono l’ipotesi sionista e posero all’ordine del giorno la costituzione di uno Stato autonomo ebraico. Alla fine del conflitto il problema venne delegato alle Nazioni Unite che, con la risoluzione dell’Onu n.181 del 29 novembre 1947, si pronunciarono a favore della nascita in Palestina di due Stati indipendenti e sovrani, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme posta sotto un’amministrazione internazionale. Ma i governi dei Paesi arabi, avversi alla fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, respinsero incondizionatamente la proposta delle Nazioni Unite.

La nascita dello Stato di Israele e la prima guerra arabo-israeliana
Il 14 maggio 1948, non appena le forze inglesi abbandonarono la Palestina, il governo provvisorio ebraico guidato da David Ben Gurion (1886-1973) proclamò la nascita dello Stato d’Israele. Otto ore dopo la dichiarazione di indipendenza gli eserciti di sei Paesi arabi, in aperta violazione delle delibere dell’Onu, invasero simultaneamente il nuovo Stato, che si trovò accerchiato su tre fronti: l’esercito libanese giunse da nord, i Siriani da nord-est, la legione araba, l’Iraq e la Transgiordania si schierarono al centro del Paese e gli Egiziani attaccarono da sud. Ebbe origine così la prima guerra arabo-israeliana, che durò dal maggio 1948 al febbraio 1949 e si concluse con la sconfitta degli Arabi; Israele allargò il suo territorio, mentre Gerusalemme restò divisa in due parti: una, a est, rimase occupata dalle truppe arabo-giordane, l’altra dall’esercito ebraico. Nel marzo 1949 lo Stato di Israele, la cui situazione rimenava assai problematica, fu ammesso a far parte dell’Onu.

La nazionalizzazione del canale di Suez e la guerra del Sinai
La questione mediorientale si riaccese nell'ottobre del 1956, quando Israele partecipò, con Francia e Gran Bretagna, a un intervento armato contro l'Egitto. La situazione interna dell'Egitto era profondamente cambiata dopo la caduta della monarchia nel 1952, quando Gamal Abdel Nasser aveva assunto il potere assoluto. Il lungo periodo nasseriano (1954-1970) fu caratterizzato dall'impegno in favore dei contadini poveri, dalla volontà di sviluppare il Paese in senso industriale e da una politica estera importante al panarabismo. Il 26 luglio 1956 Nasser procedette militarmente alla nazionalizzazione del canale di Suez, allora gestito prevalentemente con capitale inglese e francese. Fu proprio tale operazione, tesa a liberarsi da un controllo di stampo colonialista sulle risorse nazionali egiziane, a provocare l'intervento armato franco inglese, cui si affiancò l'attacco israeliano, che comportò nel giro di pochi giorni l'occupazione del canale. Francia e Inghilterra si proponevano di riacquistare il controllo del canale, strategico per i rifornimenti di petrolio; Israele invece mirava a riottenere la libertà di navigazione per le sue navi sullo stretto di Tiran, che l'Egitto impediva dall'epoca della prima guerra arabo israeliana; inoltre, nelle intenzioni israeliane, la spedizione avrebbe consentito di interrompere le continue incursioni terroristiche che dal Sinai muovevano contro il suo territorio.

La fine dell'influenza inglese e francese in Medio Oriente
L'immediato intervento dell'Onu e, soprattutto, l'identità di vedute degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica imposero ai contendenti la fine delle ostilità e a Israele di ritirare le truppe dal territorio che aveva occupato (Porto Said, il Sinai e la striscia di Gaza). Mentre Gran Bretagna e Francia uscivano dall'avventura egiziana indebolite nel loro peso politico militare, l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti si confermavano le vicende internazionali, ben attente a non spezzare il difficile equilibrio bipolare raggiunto. L'influenza francese e inglese in Medio Oriente fu così drasticamente ridimensionata e da allora Nasser orientò il nazionalismo egiziano verso una decisa e aperta collaborazione con i Paesi del blocco comunista e con la stessa Unione Sovietica.

La questione dei profughi palestinesi
Dopo la prima guerra arabo-israeliana i Palestinesi, oltre a non aver ottenuto lo Stato previsto dall'Onu, avevano perso anche i territori su cui avrebbe dovuto sorgere: una parte (la Cisgiordania) era stata annessa dalla Transgiordania, che nel 1949 si trasformò nel regno di Giordania, un'altra parte era stata occupata da Israele. Inoltre, sempre in seguito al conflitto arabo-israeliano, circa 650.000 Palestinesi lasciarono i loro luoghi di residenza, passati sotto autorità israeliana, e circa 600.000 Ebrei furono espulsi dagli Stati arabi.
I Palestinesi si rifugiarono in Giordania, a Gaza, in Libano, in Siria, in Iraq e vennero smistati in campi profughi a partire dal 1948. Gli Stati arabi non riconobbero però ai profughi i diritti civili e politici (soltanto la Giordania concesse loro la cittadinanza e il diritto al lavoro), probabilmente per utilizzare lo sradicamento palestinese come arma di pressione politica su Israele e sull'Onu. Più di un milione di Palestinesi, allontanati da territori che abitavano da secoli e da essi considerati come loro patria, erano così costretti a vivere ai margini della società, in condizioni precarie e una decisione del 1948, ad assumersi l'onere dell'assistenza alimentare, sanitaria e sociale alle famiglie raccolte nei campi profughi.

La nascita dei movimenti di liberazione della Palestina
Questo popolo di esuli con il tempo prese coscienza della propria condizione. I Palestinesi che si trovavano a Gaza dettero vita, nel 1959, al Movimento di liberazione nazionale della Palestina (al-Fatah), fondato da Yasser Arafat. Nel Marzo 1962 l'Egitto concesse alla comunità palestinese di Gaza una Costituzione, ma sottopose il territorio al controllo di un governatore egiziano con forti poteri.
La condizione in cui i Palestinesi si trovavano li spinse a rivendicare con più forza il proprio diritto a una patria e a dare vita nel 1964 all'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), una formazione politica e paramilitare volta all'instaurazione di uno Stato indipendente palestinese.

La radicalizzazione dello scontro tra Israele e i Paesi arabi.
Dopo la guerra del Sinai nel 1956, il presidente egiziano Nasser era andato sempre più orientando il suo governo su posizioni socialiste, che consolidavano, anche in campo economico, il legame con l'alleato sovietico. Nasser sivenne il punto di riferimento del movimento panarabo, il fautore della causa araba contro l'imperialismo e il sionismo, e riuscì a radicare nell'opinione pubblica araba l'idea che la creazione dello Stato di Israele fosse stata un'ingiustizia. Da parte sua il presidente sovietico Krusciov, tra il 1963 e il 1964 comprese che il progetto nasseriano costituiva un'occasione per rafforzare la posizione dell'Unione Sovietica nel mondo arabo. Egli dichiarò il sostegno dell'Urss alla causa araba, individuando in Israele e nel sionismo gli strumenti dell'imperialismo americano in Medio oriente. Fu così che il conflitto tra Israele e Paese arabi si inserì nel quadro della guerra fredda tra blocco occidentale e blocco sovietico. Nel 1967 Nasser, dopo aver ottenuto il ritiro dei caschi blu dell'Onu dalla zona del canale di Suez (dove si erano stabiliti nel 1956), schierò 80.000 soldati nella penisola del Sinai, ritenendo che l'internazionalizzazione del canale e il controllo dell'Onu sulla penisola compromettessero la sovranità egiziana e che fosse venuto il momento di bloccare lo stretto di Tiran sul golfo di Aqaba, sbarrando l'unica via di accesso di Israele al Mar Rosso. Tali operazioni si svolsero senza provocare reazioni né dell'Onu né degli Stati Uniti, impegnati allora nella difficile guerra in Vietnam.

La guerra dei Sei giorni (1697)
Di fronte alla minaccia proveniente dall'Egitto, Israele, che già nel 1956 aveva adottato come dottrina militare quella dell'attacco preventivo, decise di intervenire. Il 5 giugno 1967 le forze armate israeliane attaccarono Egitto, Siria e Giodania con l'operazione bellica conosciuta come guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967). Avvalendosi di una netta superiorità militare, Israele riuscì a occupare i territori egiziani di Gaza e del Sinai fino a Suez, le alture siriane del Golan, la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme. A questo punto Urss e Usa si schierarono: l'Unione Sovietica appoggiò gli Stati arabi, mentre gli Stati Uniti a differenza di Quando fatto in occasione della crisi di Suez presero le parti di Israele. Dalle grandi potenze venne comunque la richiesta di un cessate fuoco, in seguito al quale fu trovato un compromesso nella risoluzione 242 delle Nazioni Unite, la più discussa tra quelle emesse dall'Onu per la sua ambiguità: essa affermava il riconoscimento e il rispetto per la sovranità, l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di ogni Stato dell'area e la necessità di operare per l'instaurazione di una pace giusta e duratura. Gli Arabi la interpretarono come l'impegno dell'Onu a obbligare Israele a lasciare i territori occupati e a far rientrare i profughi palestinesi; Israele la intese invece come un'autorizzazione a prolungare, sotto amministrazione militare, l'occupazione dei territori conquistati.

Gli equilibri politici dopo il 1967
Dopo la risoluzione dell'Onu, l'Unione Sovietica rafforzò l'intesa diplomatica con i Paesi arabi e ruppe i rapporti con Israele. Né la Siria né l'Olp (per la quale la Palestina doveva diventare uno Stato arabo e Israele cessare di esistere), né Israele (che considerava i territori conquistati come una garanzia per stipulare trattative di pace dirette con i governi arabi) accettarono la risoluzione. Da quel momento l'Olp, della quale nel 1968 divenne presidente Yasser Arafat, iniziò a praticare come strumento della lotta contro Israele anche l'azione terroristica, non solo in Medio Oriente ma in ogni parte del mondo. Intanto la questione dei profughi assumeva dimensioni sempre più consistenti: in Giordania erano diventati circa 700.000; a Gaza 300.000; in Libano 160.000 e 144.000 in Siria. Nessuna meraviglia perciò che proprio nei campi dove viveva la maggior parte dei profughi l'Olp trovasse il proprio radicamento di massa. Israele, per parte sua, cominciò a utilizzare le terre e le proprietà abbandonate dai Palestinesi per assorbire l'immigrazione di ebrei provenienti dall'Europa e dai Paesi arabi ostili.
A partire dal 1968 ebbero inizio gli insediamenti di colonie ebraiche nella valle del Giordano, sulle alture del Golan, a nord-est del Sinai e intorno a Gerusalemme: dal 1967 al 1973 vennero creati 45 punti di popolamento, molti dei quali erano veri e propri centri urbani. Dal 1969 al 1974 guidò il governo israeliano il primo ministro Golda Meir, che portò avanti la politica di colonizzazione dei territori occupati e il rafforzamento dell'intesa con gli Stati Uniti.

Il movimento Baath in Iraq e Siria
Dopo la guerra dei Sei giorni dall'Egitto alla Siria partì alla parola d'ordine attuazione del socialismo arabo, che si concretizzò nella nascita, in Iraq e in Siria, del movimento Baath (Rinascita), che intendeva coniugare panarabismo e comunismo: elemento unificante erano i comuni nemici, l'Occidente e la democrazia. Se la lotta contro Israele prima del 1967 era condotta dagli Arabi in una chiave anticolonista e antimperialista, ma laica, dopo la guerra dei Sei giorni si assiste a una svolta: i popoli arabi vengono chiamati a difendere la loro identità sotto la bandiera dell'Islam, ritenuta l'unica capace di realizzare una mobilitazione vittoriosa.

 Olp e Paesi Arabi
All'interno dell'Olp sorsero tra il 1967 e il 1968 alcuni movimenti di guerriglia, che insidieranno la loro base in diversi Paesi arabi confinanti con Israele. Da quel momento i rapporti tra l'Olp e questi Paesi si fecero sempre più tesi; in Giordania, in particolare, i guerriglieri palestinesi avevano acquistato una crescente autonomia, minacciando la stabilità del Paese e della monarchia. Dopo alcune azioni terroristiche compiute da una delle organizzazioni di guerriglia (il Fronte popolare per la liberazione della Palestina), re Hussein di Giordania espulse i Palestinesi dal Paese con una cruenta repressione, causando la morte di 4600 persone (fu questo il cosiddetto settembre nero del 1970). I Palestinesi ripiegarono allora massiciamente in Libano e anche in Siria. Parallelamente a questi eventi si costituì il gruppo armato rivoluzionario palestinese Settembre nero, responsabile della strage compiuta alle Olimpiadi di Monaco nel settembre 1972, in cui furono uccisi undici atleti israeliani.



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