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Differenza tra eclissi solare e lunare

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L'eclissi (si può scrivere anche "eclisse") è un termine che deriva dal greco ékleipsis che significa "allontanarsi" ovvero "nascondersi", "rendersi invisibile". Tale parola sta a indicare l'occultazione parziale o totale di un astro dovuta all'interposizione di un corpo fra l'osservatore e l'astro, nel caso che quest'ultimo brilli di luce propria (eclissi solare, quando la Luna si interpone tra Terra e Sole; eclissi di una stella) o tra l'astro e la sorgente che lo illumina nel caso brilli di luce riflessa (eclissi di Luna; eclissi dei satelliti di Giove). Le eclissi possono essere previste con molto anticipo, conoscendo il moto orbitale dei corpi interessati; entrambe sono in qualche modo periodiche e per prevederle si utilizza il cosiddetto ciclo di Saros.

Qui di seguito andremo a spiegare più nel dettaglio le differenze, anche se quella principale riguarda la posizione di Sole, Terra e Luna (intuibile già dalle due immagini).



Eclissi solare

Le eclissi di sole sono fenomeni di grande interesse, sia per la loro spettacolarità che per la loro rarità (in realtà sono più frequenti di quelle lunari ma bisognerebbe spostarsi in diverse parti del mondo perché non si possono vedere rimanendo sempre nella stessa posizione). Si ha un'eclissi di Sole quando la Luna si inserisce fra la Terra e il Sole e, devono anche essere perfettamente allineati. Ciò si verifica durante il novilunio (o Luna nuova), ovvero la fase della Luna in cui il suo emisfero visibile risulta completamente in ombra.

Il Sole è 400 volte più grande della Luna, ma allo stesso tempo è circa 400 volte più lontano dalla Terra, la distanza fra Sole-Luna e fra Terra-Luna fa sì che si crei una sorta di effetto ingannatorio ottico che ci porta a vedere una Luna di dimensioni simili o addirittura superiori a quelle del Sole. A seconda delle distanze fra la Luna e la Terra si possono verificare quattro tipi di eclissi qui brevemente descritte:
  • Eclissi solare parziale: la luna copre parzialmente il Sole.
  • Eclissi solare totale: la luna copre totalmente il Sole. Ha una durata massima di 7 minuti e mezzo.
  • Eclissi solare anulare: quando la parte centrale del Sole è oscurata dalla Luna mentre resta visibile la corona. Ha una durata massima di 12 minuti.
  • Eclissi solare ibrida: è un fenomeno abbastanza raro, si tratta di un eclissi che è sia totale sia ibrida. In alcune zone della terra infatti sarà possibile osservare l’eclissi totale, ma prima e dopo la fase di massimo oscuramento, la Luna si allontanerà dalla Terra diminuendo la parte del Sole oscurata. Si avrà così un'eclissi anulare, in cui il diametro apparente del Sole risulta maggiore di quello della Luna e la parte di Sole che resta illuminata è pari alla differenza delle superfici apparenti dei due dischi.

Per osservare direttamente un'eclissi di Sole dovete essere sicuri di usare il filtro giusto (occhiali da saldatore, filtri in Mylar). Anche se un filtro sembra oscurare quasi tutta la luce visibile del Sole, questo non significa che blocchi tutte le radiazioni infrarosse e ultraviolette, che possono essere dannose per l'occhio anche se l'esposizione è molto breve.



Eclissi lunare

Le eclissi di Luna sono sicuramente meno spettacolari di quelle solari. Si ha un'eclissi di Luna quando la Terra si inserisce tra il Sole e la Luna e, quest'ultima, passa nel cono d'ombra della Terra. Le eclissi di Luna si possono vedere da qualunque punto della superficie terrestre dove la Luna sia sopra l'orizzonte. Il fenomeno può durare da qualche minuto a qualche ora.

Si possono avere vari tipi di eclissi di Luna:
  • Eclissi lunare parziale: quando la Luna entra parzialmente nel cono d'ombra. È di minore interesse scientifico rispetto alle totali.
  • Eclissi lunare totale: quando la Luna entra totalmente nel cono d'ombra.
  • Eclissi lunare penombrale: quando la Luna entra totalmente o parzialmente nel cono di penombra.

La luce riflessa del satellite terrestre non contiene componenti pericolose per gli occhi (raggi ultravioletti, infrarossi e onde radio), come invece avviene con la luce del Sole. Occorre solo sperare che il cielo sia sereno per poter ammirare al meglio l'eclissi lunare totale e magari dotarsi di un buon binocolo per poter osservare i crateri lunari man mano che ricompaiono.


LEGGI ANCHE: Frasi sulll'eclissi di Sole e di Luna
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Inferno Canto 34: analisi, commento, figure retoriche


In questo canto i due poeti si trovano nella quarta zona di Cocito, chiamata la Giudecca, dove sono puniti i traditori dei benefattori. Personaggio di spicco del canto è Lucifero che infierisce con le sue tre bocche ai dannati Giuda, Bruto e Cassio. Infine escono dall'Inferno arrampicandosi su Lucifero.



Analisi del canto

Il canto di Lucifero
Il viaggio di Dante nell'Inferno è giunto alla fine e qui avviene l'incontro con il Re dell'Inferno Lucifero ('mperador del doloroso regno v. 28), nel punto più basso del suo regno e più lontano da Dio, e più precisamente lo colloca al centro della terra. Il viaggio di Dante nell'aldilà però è tutt'altro che finito, deve ancora attraversare il Purgatorio e infine il Paradiso.

Il canto può essere suddiviso in due parti
  • la prima parte (vv. 1-69): descrizione di questo luogo che è chiamato Giudecca, incontro con Lucifero e descrizione di questo personaggio;
  • la seconda parte (vv. 70-139): la faticosa uscita dall'Inferno, Virgilio che spiega l'origine della struttura terrestre.


La figura di Lucifero
Dalla descrizione che Dante ci fornisce di Lucifero veniamo a sapere che si tratta di un essere gigantesco e mostruoso impossibilitato a muoversi e ad interagire con Dante, che possiede tre teste di diverso colore, sei ali da pipistrello che sbattendole raggela l'Inferno, lacrime che gocciolano dai sei occhi, la bava che è un misto di sangue e altri orridi miscugli che gli scende giù per i menti, le tre bocche occupate dai tre principali traditori secondo la tradizione biblico-classica (Giuda Iscariota, Bruto e Cassio).  

Lucifero è l'antitesi di Dio e fu il primo che si ribello all'Onnipotente. Viene raffigurato come l'opposto della Trinità divina (potenza del padre, amore del Figlio e sapienza dello Spirito Santo) dove le tre teste rappresentano l'odio (la faccia vermiglia), l'ignoranza (la faccia gialla) e l'impotenza (la faccia nera).


Giuda, Bruto e Cassio
Giuda ha tradito Cristo, quindi la Chiesa; Bruto e Cassio hanno tradito Cesare, quindi l'Impero. Nei tre sommi traditori Dante ha voluto colpire coloro che attentarono prima di ogni altro le due istituzioni volute da Dio come guide all'umanità per raggiungere la felicità terrena e quella oltremondana.


L'origine della struttura terrestre
Virgilio risponde alle domande di Dante spiegandogli che vede Lucifero conficcato sottosopra e in poco tempo si è passati dalla sera alla mattina perché adesso non si trova più nell'emisfero boreale, quello della colpa e del peccato, bensì nell'emisfero australe, in quanto sono passati oltre il centro della terra.
Inoltre fornisce una spiegazione riguardo la posizione sottosopra di Lucifero: il demone precipitò all'ingiù dal cielo e la terra si ritrasse per lo sdegno di venire a contatto con la creatura mostruosa e si nascose sotto il mare, raccogliendosi nell’emisfero boreale e formando il vuoto della voragine infernale, mentre in quello australe si formò la montagna del Purgatorio.




Commento

Il vermo reo
Lucifero, il vermo reo, domina la scena del canto XXXIV dell'Inferno, disgustoso, orribile a vedersi. Dante cerca di comunicare al lettore la sensazione di orrore che ha provato alla vista di Lucifero in mezzo al ghiaccio di Cocito; in verità, più che l'orrore emerge la fissità di un ambiente gelido, in cui regna il male nel silenzio angosciante che tutto avvolge. Indirettamente Dante offre una definizione del male: è negazione di vita e vitalità, tanto suggestivo all'apparenza, quanto repellente nella realtà. La ragione ha svelato al poeta l'aspetto oggettivo di Satana, personaggio che ha fatto la storia dell'umanità determinandone per sempre le sorti, quel vermo-serpente che, nel Paradiso terrestre, indusse Eva a mangiare il frutto proibito. Ora, paradossalmente, proprio attraverso il vello di Lucifero si realizza la svolta salvifica di Dante, il passaggio cioè dall'Inferno al Purgatorio. Il male, da strumento di dannazione, si è trasformato in mezzo di salvazione; eppure solo la prospettiva del pellegrino è mutata, in quanto, aiutato dalla ragione, può ormai tranquillamente prendere le distanze da colui che prima era oggetto di attrazione e paura allo stesso tempo. Dante scopre così che Lucifero è semplicemente un vermo reo. L'immagine metaforica del vermo trova riscontro nei testi biblici classici, in particolare nell'Apocalisse, ma risale ancora più indietro nel tempo, all'epoca del mito.
Così, nella Mesopotamia arcaica, Tiamat, il mostro sacro sconfitto da Marduk, il signore della luce, viene descritta a forma di serpente. Tiamat è l'irrazionalità scatenata, l'istinto irrefrenabile che esplode nei giorni di fine dicembre e culmina nella notte del trentuno. Ma il primo di gennaio il serpente viscido, l'orribile vermo reo, viene annientato dal sole, che impone il dominio razionale su cose e persone. Perciò ogni anno Tiamat scatena la rituale guerra dell'istinto e ogni anno viene sconfitta da Marduk. Anche in Dante, Lucifero è la negazione della luce e della razionalità, e si presenta come un mostro dalle dimensioni spropositate: una massa gigantesca in cui si assomma il male del mondo. Di fronte alla nitida presa di coscienza si allontanano lentamente le angosce, il buio mortale, l'atmosfera cupa e tragica dell'Inferno. Dietro a Virgilio, Dante percorre uno stretto cunicolo e, senza accorgersi, si trova da tutt'altra parte. Scomparso il regno del dolore, Lucifero si mostra a Dante conficcato dentro il centro della terra, coi piedi per aria, mentre accanto al poeta scorre un fiumicello. Non c'è più Cocito né l'oscurità di una notte senza tempo: il pellegrino e la sua guida, dopo tanta sofferenza, tornano a riveder le stelle. Esse diventano in Dante il simbolo di un ritrovato equilibrio emotivo, di un'armonia che si schiude a nuove significative esperienze interiori.



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del trentaquattresimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 34 dell'Inferno.


Regis inferni = perifrasi (v. 1). Cioè: "re dell'Inferno". Per indicare Lucifero.

Come quando una grossa nebbia spira, o quando l’emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che ’l vento gira, veder mi parve un tal dificio allotta = similitudine (vv. 4-7). Cioè: "Come quando c'è una nebbia fitta o quando nel nostro emisfero cala la notte, e appare in lontananza un mulino a vento, così allora mi parve di vedere un'enorme costruzione".

Veder mi parve = anastrofe (v. 7). Cioè: "mi parve di vedere".

Trasparien come festuca in vetro = similitudine (v. 12). Cioè: "trasparenti come una pagliuzza nel vetro".

Com’arco, il volto a’ piè rinverte = similitudine (v. 15). Cioè: "come fa l’arco, riversano il viso verso i piedi".

Fortezza t’armi = anastrofe (v. 21). Cioè: "ti armi di coraggio".

Io non mori’ e non rimasi vivo = antitesi (v. 25).

A guisa di maciulla = similitudine (v. 56). Cioè: "come una gramola".

E aggrappossi al pel com’om che sale = similitudine (v. 80). Cioè: "e si aggrappò al pelo come uno che sale".

Ansando com’uom lasso = similitudine (v. 83). Cioè: "ansimando come un uomo affaticato".

E vidili le gambe in sù tenere = anastrofe (v. 90). Cioè: "invece vidi che teneva le gambe per aria".

Mal suolo = anastrofe (v. 99). Cioè: "suolo sconnesso".

Lume disagio = anastrofe (v. 99). Cioè: "poca luce".

Che ’l mondo fóra = anastrofe (v. 108). Cioè: "che buca il mondo".

L’uom che nacque e visse sanza pecca = perifrasi (v. 115). Per indicare Gesù, l'uomo che nacque e visse senza peccato.

Come prim’era = anastrofe (v. 120). Cioè: "come era prima".

A l’emisperio nostro = anastrofe (v. 124). Cioè: "nel nostro emisfero".
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Eclissi o eclisse: come si scrive?


Questo evento ottico-astronomico è più frequente di quanto si pensa, solo che dall'Italia spesso non risulta visibile. Dal momento che per noi sono occasioni assai rare non bisogna farsi cogliere impreparati, ad esempio studiare la differenza tra eclissi lunare e solare potrebbe sicuramente giovare alla propria cultura, ma come inizio potrebbe bastare conoscere il corretto modo di scrivere questo evento: si scrive eclisse o eclissi?

Sono corrette entrambe le forme, quindi è possibile scrivere sia eclisse che eclissi.

Il termine "eclisse" è quello che è arrivato per prima in Italia. In seguito il termine "eclissi" è stato introdotto come forma dotta in quanto ha origine dal greco ékleipsis, dal quale deriva la versione latina eclìpsis: in entrambi i casi l'ultima vocale contenuta sia nel termine greco che latino è la "i" ed è per questo motivo che questa forma inizialmente considerata dotta è diventa sempre più comune fino a diventare la più utilizzata.

Discorso diverso, invece, per quanto riguarda il plurale: l'unica forma corretta è "le eclissi".

Quindi tra i due termini corretti, anche per il motivo appena accennato, il più diffuso è quello terminante in "i", eclissi. Questo è solo uno tanti casi che ci ricorda come la lingua italiana possa cambiare nel tempo.


ESEMPIO:
- L'eclisse di Sole può essere totale, parziale o anulare.
- Per guardare l'eclissi solare sono necessari degli occhiali speciali.
- Le eclissi di luna si realizzano quando la luna entra nel cono d'ombra o di penombra della Terra.
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Inferno Canto 33: analisi, commento, figure retoriche

Gustave Doré: ... "Padre mio, ché non m'aiuti?" Quivi morì. ...

In questo canto ambientato nell'Antenòra (seconda zona di Cocito), dove sono puniti i traditori della patria, Dante ha modo di incontrare il conte Ugolini. Questi gli racconta della propria morte e così Dante lancia un invettiva contro Pisa. Poi i due poeti si spostano nella terza zona di Cocito dove sono puniti i traditori degli ospiti, tra questi frate Alberigo dei Manfredi, e Dante stavolta lancia un'invettiva contro i Genovesi.



Analisi del canto

Il canto del conte Ugolino
Il canto XXXIII continua da dove si era rimasti nel canto precedente e i temi trattati sono: il personaggio del conte Ugolino, l'invettiva contro Pisa, la Tolomea (zona dell'Inferno dove si trovano i traditori degli ospiti), l'incontro con frate Alberigo, l'invettiva contro i genovesi.


La figura del conte Ugolino
Il conte Ugolino ha grande importanza in questa cantica e più in generale nella letteratura italiana (sarà per questo che Dante usa numerose figure retoriche, sogni premonitori ecc.). Nell'inferno la sua figura viene usata per raffigurare l'odio bestiale e feroce messo in contrasto con l'amore paterno, tenero e impotente: un legame impossibile nato attraverso il dolore disperato per la morte dei propri figli.
Ugolino è per Dante un traditore della patria, anche se non si parla molto della sua colpa, e la sua condizioni di dannato viene descritta attraverso il suo gesto di mordere il cranio del suo nemico, l'arcivescovo Ruggieri, che lo ha tradito.
Dante è indignato perché nella rivalità politica e personale fra i due personaggi ci sono andati di mezzo degli innocenti.


L'invettiva contro Pisa
Dante coglie l'occasione del dramma politico per scagliare un'invettiva contro Pisa, uno dei comuni toscani, violentemente condannato per il degrado morale e civile, a cui si aggiunge anche l'accusa di disprezzare la vita degli innocenti.
Nel finale del canto vi è spazio anche per un'altra invettiva, stavolta nei confronti di Genova e dei genovesi, in quanto privi di buone maniere, pieni di vizi e - secondo Dante - se scomparissero dalla faccia della terra sarebbe un fatto positivo.


Frate Alberigo e i "morti viventi". 
Attraverso l'incontro con frate Alberigo, Dante viene a sapere che alcune anime giungono nell'Inferno ancora prima della loro morte sulla terra perché hanno commesso peccati assai gravi. Secondo la religione cristiana finché non si muore c'è sempre tempo per pentirsi e ottenere la salvezza, di conseguenza di conseguenza questo "strappo alla regola" dovrebbe essere visto solo come un espediente usato da Dante per  descrivere la sua indignazione e condannare quei personaggi ancora in viventi. Come similmente ha fatto per Bonifacio VIII nel canto XIX, a cui aveva previsto l'Inferno come destinazione futura dopo la morte.




Commento

Uomini e no
Una scena infernale cannibalesca: il poeta non avrebbe potuto trovare di meglio per cantare l'orrore di una tragedia che si consuma tra un ignobile tradimento e una disperazione senza fine. Il protagonista è Ugolino della Gherardesca, politico di primo piano della repubblica marinara di Pisa. L'orrenda visione iniziale di un dannato che rode il cranio di un altro, se assume i toni intensi di un evento epico fuori dal tempo, non è che una parte di una tragedia più vasta, scavata nella fossa di un cuore perduto. All'inizio del canto Ugolino non è un uomo, ma una fiera; tuttavia, man mano che inizia a raccontare, il suo volto si umanizza e la pietà a cui invita Dante testimonia un cuore ansioso di esprimere verità umane profondamente condivisibili. Con Ugolino Dante canta il tema della paternità nell'aspirazione a dare affetto, comunicare sicurezza e forza, offrire modelli di vita. Padre lo chiama Anselmuccio, perché Ugolino, al di là di ogni giudizio morale sul suo operato politico, è la colonna della famiglia, il punto di riferimento amato e rispettato. Quale tragedia più grande per lui che vedersi costretto in una torre serrata con i suoi giovani discendenti, impotente di fronte alla fame che incalza, all'intuizione di una morte che non si può né evitare né combattere, alla tremenda visione della fine dei propri figli e nipoti? Il mostro Ugolino diventa uomo e la sua umanità si arricchisce del coraggio di non cedere alla disperazione, consapevole che egli è il padre e che su di lui si proiettano e si concretano le speranze dei suoi cari. Se è vero che Ugolino ha vissuto la sofferenza più grande per un essere umano, quella cioè di veder morire i propri figli, la figura, nella sua complessità, ha la ferinità del primitivo, l'aggressività di una forza senza confini. Questa straordinaria energia è stata costretta nell'angusto spazio della prigione; l'Inferno restituisce a Ugolino tutta l'intensità dei suoi istinti. Vigorosa è alla fine l'invettiva di Dante contro Pisa, luogo in cui sembra ormai perduto ogni senso di umanità. In questi versi si intravede anche un indiretto attacco alla Chiesa di potere, nella condanna dell'azione disumana dell'arcivescovo Ruggieri. Così Dante ritorna sul tema del rapporto tra cristianesimo di facciata e cristianesimo di sostanza e, paradossalmente, è proprio nel conte Ugolino, astuto manovratore del potere, che si incarna un nucleo di affetti profondamente umani, del tutto estranei invece a chi si vanta di rappresentare i valori cristiani. Lo stravolgimento di ogni fondamento umano è spiegato attraverso esempi nei dannati della Tolomea, anime infernali ancor prima di essere morte. La loro separazione realizza concretamente la divisione avvenuta tra "non uomo" e "uomo", perché non è più tale chi colpisce a tradimento coloro che si fidano di lui. L'alto senso della dignità della persona, in termini di umanità calda e partecipativa, porta Dante a negare il diritto di vivere nel consorzio umano a questi dannati, divenuti, dopo la colpa, solo larve di se stessi in quanto la loro anima è già nel regno di Satana. L'orrore che sprigionano le loro figure scisse riscatta la ferinità di Ugolino, in cui vibra invece il cuore di un uomo sconfitto e mutilato nei suoi affetti più cari.



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del trentatreesimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 33 dell'Inferno.


Parlar e lagrimar vedrai insieme = zeugma (v. 9). Cioè: il verbo "vedrai" si adatta a lagrimar ma non a parlar.

Veder Lucca non ponno = anastrofe (v. 30). Cioè: "non possono vedere Lucca".

Cagne magre, studiose e conte = metafora (v. 31). Cioè. "con loro le cagne fameliche, ardenti di cacciare ed esperte". Per indicare il popolo pisano.

E se non piangi, di che pianger suoli? = apostrofe (v. 42).

Io non piangea...piangevan elli = chiasmo (vv. 49-50).

Infin che l’altro sol nel mondo uscìo = perifrasi (v. 54). Per indicare il sole del mattino seguente, l'alba.

Ambo le man per lo dolor mi morsi = anastrofe (v. 58). Cioè: "mi morsi entrambe le mani per il dolore".

Ahi dura terra, perché non t’apristi? = apostrofe (v. 66). Cioè: "ahimè, terra crudele, perché non ci hai inghiottito?".

Padre mio, che non m'aiuti? = apostrofe (v. 69).

Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno = allitterazione della P e della L (v. 75).

Che furo a l’osso, come d’un can, forti = similitudine (v. 78). Cioè: "che furono forti come quelli di un cane su quell'osso".

Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ’l sì suona = apostrofe (v. 79-80). Cioè: "Guai a te, Pisa, vergogna dei popoli che abitano il bel paese dove risuona il «sì»".

Del bel paese = perifrasi (v. 80). Per indicare l'Italia.

E ’l duol che truova in su li occhi rintoppo = metonimia (v. 95). L'effetto per la causa, il dolore è provocato dalle lacrime che trovano un ostacolo negli occhi.

E sì come visiere di cristallo = similitudine (v. 98). Cioè: "e formano come delle visiere di cristallo".

Sì come d’un callo = similitudine (v. 100). Cioè: "come accade per una parte callosa".

Cessato avesse del mio viso stallo = iperbato (v. 102). Cioè: "avesse abbandonato di far dimora sul mio viso".

E s’io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna = iperbole (vv. 116-117). Cioè: "e se non ti libero gli occhi, possa io andare fino in fondo al ghiaccio".

Che spesse volte = sineddoche (v. 125). Il plurale per il singolare. Cioè: "che spesso...".

Mossa le dea = anastrofe (v. 126). Cioè: "le dia una spinta".

E mangia e bee e dorme e veste panni = enumerazione (v. 141).

Ahi Genovesi, uomini diversi = apostrofe (v. 151).
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Estate o Estati: come si scrive?


Estate è un sostantivo femminile singolare che dà il nome alla bella stagione. Se vi trovate sotto l'ombrellone in spiaggia e, vi siete dimenticati come si forma il plurale di questa parola, dovete sapere che la "e" che si trova alla fine, diventa "i", quindi il plurale è "estati".

E questo non è l'unico dubbio grammaticale riguardante l'estate: molti si chiedono come diventano gli aggettivi dimostrativi (questo, questa) e gli articoli indeterminativi (un, una) e determinavi (la, le, l') che precedono la parola estate, quando è scritta nella forma plurale.

Qui di seguito vi riportiamo tutti i casi possibili:

SingolarePlurale
Questa estateQueste estati
Quest'estateQueste estati
Quella estateQuelle estati
Quell'estateQuelle estati
Un'estate---
Una estate---
L'estateLe estati
Dell'estateDelle estati
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Differenza tra Inondazione, Esondazione e Alluvione


Sono tutti termini che sentiamo spesso nei fatti di cronaca durante i periodi di pioggia abbondante, a seguito di disastri naturali o a causa della noncuranza di chi dovrebbe garantire la sicurezza del territorio. A volte li sentiamo nominare tutti e tre all'interno della stessa notizia e qualcuno potrebbe chiedersi se il giornalista/articolista in questione li abbia usati per non risultare ripetitivo (per evitare di usare la stessa parola) o perché in effetti sta parlando di tre cose diverse, sebbene simili e correlate.


1) Inondazione = deriva dal latino inundare e vuol dire "allagare". È un grande ed esteso allagamento che avviene in tempi brevi (da ore a giorni) ed è provocato da masse d'acqua straripanti o volontariamente immesse in un territorio a scopi difensivi. Si può trattare di un fenomeno naturale come lo straripamento dei corsi d'acqua, dal loro letto o bacino, in maniera violenta e devastante, o allagamenti per azione combinata di alta marea e tifoni in aree costiere, l'arrivo di uno tsunami su di una costa, o anche per improvvisi scioglimenti di nevai o ghiacciai per cause naturali (tipici quelli ad opera di eruzioni vulcaniche sub-glaciali in Islanda). È artificiale, ad esempio, nel caso del crollo di una diga che va a inondare villaggi ed abitazioni.


2) Esondazione = è voce dotta dal latino exundare (fluttuare fuori) e vuol dire traboccare, straripare, copiosa fuoriuscita. Il termine è riferito al traboccare di acque sovrabbondanti che fuoriescono dagli argini o dalle rive di un fiume o un torrente, inondando le zone poste a quote altimetriche inferiori.


La differenza è quindi ben chiara e, linguisticamente, corrisponde alla contrapposizione tra in- (verso, dentro) ed ex- (fuori da). L'acqua che esonda è la stessa che inonda, ma i fenomeni descritti sono diversi: l'allagamento e lo straripamento.
Sarà quindi corretto dire che il fiume ha inondato i campi circostanti oppure che si è verificata l'esondazione delle acque del fiume, o ancora che l'esondazione del fiume ha provocato l'inondazione della campagna.
Mentre inondare e inondazione sono parole di uso comune e di significato palese e noto a tutti, lo stesso non può dirsi di esondare ed esondazione che sono parole di uso limitato al linguaggio per così dire tecno-burocratico o dotto e quindi di significato non per tutti esattamente riconoscibile.


3) Alluvione = questo termine viene usato principalmente come sinonimo di inondazione ed è dovuto a straripamento di corsi d'acqua, ma a differenza del termine precedente fa riferimento alle forti piogge che provocano questo fenomeno. In geologia, viene usato questo termine per indicare l'accumulo di detriti depositati da corsi d'acqua, in seguito a un'esondazione, nei punti in cui diminuisce la loro velocità, come presso la foce dei fiumi.
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La mia sera - Pascoli: parafrasi, analisi, commento


La mia sera è una poesia di Giovanni Pascoli, composta nel 1900, e appartenente alla raccolta dei Canti di Castelvecchio.


Testo

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.



Parafrasi

La giornata fu piena di lampi ma adesso verranno le stelle, le taciturne e lontane stelle.
Dai campi si sente il gre gre delle rane.
Un piacevole venticello passa lieve fra le foglie dei pioppi e questo gli provoca una gioia leggera.
Di giorno solo lampi, ma finalmente arriva la pace della sera.
Devono fiorire le stelle nel cielo così umido e intenso.
Vicino le rane che gracidano, scorre un ruscello dal suono simile ad un singhiozzare sempre uguale.
Di tutto quel rumore provocato dalla violenta bufera, non resta che un dolce singhiozzo nella dolce sera.
E quella tempesta che pareva senza fine, è invece finita tramutandosi in un suono armonioso. Al posto dei fulmini restano nuvolette rosse e dorate.
O dolore stanco, arrestati!
La nuvola che durante il giorno apparve più minacciosa e nera, è quella che si è fatta più lieve e rosata a tarda sera
Che bello udire gli stridi gioiosi delle rondini in volo nell'aria serena!
La fame sofferta durante il giorno fa prolungare più del solito i voli delle rondini per la cena festosa.
I rondinini nel loro nido, ebbero solo una piccola parte di cibo durante il giorno.
Nemmeno io da giovane... e dopo ansie e dolori, mia limpida sera!
Le campane mi dicono, Dormi! Mi cantano, Dormi! Sussurrano, Dormi! Bisbigliano, Dormi!
Le voci (rintocchi delle campane) della notte celeste mi sembrano canti di ninna nanna per cui mi sento ritornare bambino cullato dalla madre; poi lentamente mi addormento... nella pace della sera.



Analisi del testo

Tutto nasce da uno sguardo incantato e puro di fronte alle cose: il fanciullino le osserva non dall'alto o con distacco, ma ponendosi sul loro stesso piano. Perciò la natura è umanizzata. Pascoli arriva a introdurre in poesia delle ranelle che fanno, addirittura, gre gre: l'onomatopea riassume la rivoluzione letteraria da lui operata.
Il poeta si proietta nella sera con il suo io perplesso, in crisi. Per lui l'unico bene possibile, davanti ai lampi e agli scoppi del giorno, è raggiungere la pace della sera. A tale scopo deve rientrare in se stesso, o meglio fuggire verso il proprio passato, annullandosi nel ritorno alla madre e alla culla. Perciò la strofa decisiva per l'interpretazione del testo è l'ultima. Qui la sera naturale, quella esterna del paesaggio si trasforma nella sera tutta soggettiva del fanciullo poeta.
Questa lirica musicale che mette in luce il contrasto tra il fragore del giorno e la pace della sera, trapassa dal piano della natura a quello simbolico: il motivo della sera che ritorna si allaccia alla parabola della vita del poeta. Dopo la povertà e le sofferenze della giovinezza, così lunghe che pareva non dovessero finir più, ecco finalmente la sera della vita, la pace serena e gioiosa dell'età matura. E mentre nel cielo si diffonde il suono delle campane, al poeta sembra di essere ritornato bambino, quando la madre lo addormentava al dondolio lento della culla.


La metrica: 5 strofe di 8 versi novenari, con schema di rime ABABCDcd (l'ultimo verso è un senario, cioè di 6 sillabe, con parola-rima fissa: sera)

Il novenario era un verso non molto usato dagli scrittori, perché reputato popolare. Il poeta fanciullo lo accoglie invece come voce del canto semplice e spontaneo.
Sul piano ritmico, si riscontra un'omogenea distribuzione di accenti (sempre sulla 2°, 5° e 8 sillaba dei versi). Si crea così un ritmo cadenzato e monotono, che riecheggia quello della cantilena e della ninna nanna, e in generale quello dei canti popolari.


Spiegazione delle parole:
IL GIORNO...LE STELLE: è già delineato il contrasto su cui è impostata la lirica: di giorno lampi, tuoni; di sera, le stelle silenziose, lontane.
LE TREMULE...LEGGIERA: costruisci una gioia leggera passa attraverso le tremule foglie dei pioppi. Un piacevole venticello passa lieve fra le foglie dei pioppi. Una gioia leggiera=venticello : è una metafora.
SI DEVONO APRIRE: il verbo si devono indica la certezza con cui il poeta guarda al cielo che sempre, dopo la bufera, fiorisce di stelle (così anche nella vita, dopo il dolore c'è la pace).
SI TENERO: così umido di pioggia; ma qui l'aggettivo acquista un valore metaforico, quasi simbolico, affettivo, intenerito, dolce.
VIVO: puro e intenso.
PRESSO LE ALLEGRE RANELLE: vicino alle ranelle, che gracidano liete dopo la pioggia, scorre un ruscello il cui mormorio, sempre uguale (monotono), pare un pianto che si va placando, un dolce singulto (osserva il contrasto di significato tra dolce e singulto: è una figura retorica detta ossimoro.
ASPRA: violenta. Nota il contrasto dei toni: prima, cupo tumulto, e aspra bufera, ora un dolce singulto nella pace della sera.
E'...RIVO CANORO: pareva senza fine la tempesta, è invece è finita; finita è trasformata in dolce mormorio (canoro) del ruscello (rivo). Anche il dolore del poeta si è tramutato in canto.
DEI FULMINI..E D'ORO: al posto dei fulmini (detti fragili perchè si spezzano in guizzi di luce frastagliati nel cielo), restano nuvolette (cirri) rosse e dorate: è una metafora.
STANCO: per la lunga durata e intensità.
RIPOSA: prendi respiro, cessa.
LA NUBE...SERA: la nuvola che durante la tempesta parve più minacciosa e nera, è quella che si è fatta più lieve e rosata a tarda sera.. Il dolore più grande si è convertito nella pace più dolce.
GRIDI: stridi gioiosi di rondini in volo.
LA FAME: la fame sofferta durante il giorno fa prolungare più del solito i voli delle rondini per la cena festosa dei rondinini.
LA PARTE, SI PICCOLA: i rondinini nel loro nido, ebbero solo una piccola parte di cibo durante il giorno.
NE' IO: l'accenno agli uccellini che hanno sofferto la fame durante la giornata, risveglia nel poeta il ricordo degli stenti patiti da giovane.
TENEBRA AZZURRA: mentre il poeta contempla nel cielo i voli festosi delle rondini, le campane fanno sentire i loro rintocchi, quasi voci che giungano dalla tenebra azzurra.
MI SEMBRANO CANTI: al poeta i rintocchi della campane sembrano i canti della ninna nanna, per cui si sente ritornare bambino cullato dalla madre; poi lentamente si addormenta.
POI NULLA: questa visione della madre placa il poeta fino a non avvertire più il dolore della vita dissolto nella pace della sera.



Figure retoriche

Allitterazione: ripetizione di lettere, sillabe o suoni uguali o affini all'interno di due o più parole vicine: cirri di porpora e d'oro (v. 20)
canti culla ch'io /mi mia madre /canti torni sentivo /sembrano fanno (vv. 37-39)

Assonanza: uguaglianza delle vocali di due parole a partire dalla vocale accentata:
tutto quel cupo tumulto (v. 13)

Consonanza: uguaglianza delle vocali di due parole, a partire dalla vocale accentata:
allegre ranelle (v. 11)

Onomatopea: uso di parole il cui suono imita, riproduce o suggerisce l'oggetto:
un breve gre gre di ranelle (v. 4)
don don dormi dormi dormi dormi (vv. 33-35)

Metafora: immagine che crea un rapporto tra due realtà:
si devono aprire le stelle (v. 9)
singhiozza un rivo (v. 12)
le voci delle campane (v. 36)

Metonimia: qui, il contenente per il contenuto:
i nidi per gli uccelli (v. 29)

Antitesi: accostamento di immagini o concetti contrapposti:
infinita tempesta, finita in un rivo, (vv. 17-18)

Ossimoro: accostamento paradossale, a fini espressivi, di termini di senso opposto:
un dolce singulto (v. 15)
tenebra azzurra (v. 36)

Sinestesia: associazione in un unico nesso di parole o immagini riferite a differenti sfere sensoriali: fulmini fragili (v. 19)
voci di tenebra (v. 36)

Analogia: relazione di somiglianza, creata dalla fantasia tra due oggetti o situazioni che non hanno rapporto: suono delle campane = voce = ninna nanna (vv. 33 e successivi)

Personificazione:
singhiozza monotono un rivo (v. 12)
cielo si tenero e vivo (v. 10)


Commento

La meditazione sulla sera è uno dei temi classici della nostra poesia. Ma Pascoli non propone una vera meditazione (cioè un pensiero, da cui trarre un insegnamento); egli canta infatti la sua sera: la sua soltanto di poeta fanciullo.
Dal titolo "La mia sera" è facile capire che il Pascoli non fa la descrizione di una sera dopo la tempesta del giorno, ma della sua sera, infatti questa lirica è come uno specchio in cui si riflette la vita del poeta giunto ormai all'autunno, alla sera della vita. Il tema principale è dunque la vita intima del poeta con quel riferimento finale agli anni lontani dell'infanzia e al desiderio della quiete dopo tanti affanni. La lirica è impostata su un confronto: durante il giorno, fragore di tempesta e lampi abbaglianti; la sera, un cielo sereno e pace; dopo gli scoppi delle folgori, ecco il gorgogliare dolce del ruscello. Così è nella vita del poeta: alla lunga giornata, intessuta di dolori e di affanni (perdita dei cari genitori), subentra la sera, l'età matura dolce e serena.
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Inferno Canto 32: analisi, commento, figure retoriche

Dante incontra Bocca degli Abati (Canto XXXII). Illustrazione di Paul Gustave Doré.

In questo canto Dante si trova nella prima zona di Cocito e invoca le Muse affinché lo aiutino nella descrizione di questo luogo. Nella prima zona di Cocito sono puniti i traditori dei parenti, nella seconda zona di Cocito sono puniti i traditori della patria.



Analisi del canto

Le rime aspre e chiocce
Con questa espressione, nell'invocazione iniziale alle Muse (v. 1), Dante fa riferimento allo stile e al linguaggio necessari per trattare la materia bruta dell'estrema profondità infernale. È la richiesta di un'ispirazione sicuramente realistica e «comica», ma anche di una poesia dottrinale e concettuale in grado esprimere le verità del Male.


Il Cocito, luogo di tensione e odio
La zona estrema dell'Inferno è caratterizzata da un clima di odio senza pietà, che viene trasmesso anche allo stesso Dante: egli sferra un calcio in faccia a uno dei dannati, poi lo minaccia tirandolo per i capelli, infine lo maledice. Poco prima due fratelli cozzavano bestialmente l'un contro l'altro; e Bocca degli Abati, dopo aver resistito con rabbia alla violenza di Dante, si vendica su Buoso da Duera. 


I personaggi
Vi sono svariati personaggi che vengono nominati nel canto in rapida successione ma si trovano tutti immobilizzati nel ghiaccio e descrive i peccatori usando espressioni animali (pecore, zebe, rana, cicogna, becchi, cagnazzi, latrati, bestial segno). Nessuno più vuole essere ricordato nel mondo poiché per un traditore significherebbe solo peggiorare ancor di più la propria reputazione.   



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del trentaduesimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 32 dell'Inferno.


Le rime = sineddoche (v. 1). La parte per il tutto, "le rime" anziché uno "stile poetico".

Aspre e chiocce = endiadi (v. 1).

Oh sovra tutte mal creata plebe = apostrofe (v. 13). Cioè: "O anime più di tutte create al male e alla dannazione".

Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danòia in Osterlicchi, né Tanai là sotto ’l freddo cielo, com’era quivi = similitudine (vv. 25-28). Cioè: "Non formarono mai durante il periodo invernale nel loro corso una così spessa crosta di ghiaccio né il Danubio in Austria (Osterlicchi) né il Don sotto il freddo cielo (di Russia), come quel lago d'Inferno".

E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l’acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana; livide, insin là dove appar vergogna eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia = similitudine (vv. 31-35). Cioè: "E come la rana gracida col muso a pelo d'acqua d'estate, quando la contadina sogna di cogliere spighe in abbondanza; così le anime dolenti e livide dei dannati erano immerse nel ghiaccio fino al punto del corpo in cui la vergogna traspare (al viso)".

Mettendo i denti in nota di cicogna = similitudine (v. 36). Cioè: "battendo i denti come fanno le cicogne".

Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond’ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse = similitudine (vv. 49-51). Cioè. "Una spranga non strinse mai un pezzo di legno a un altro così saldamente; per cui essi come due montoni cozzarono l’uno contro l’altro, tale fu l’ira che li vinse".

Che bestemmiava duramente ancora = anastrofe (v. 86). Cioè: "che ancora bestemmiava duramente".

Vivo son io = anastrofe (v. 91). Cioè: "io sono vivo".

E caro esser ti puote = anastrofe (v. 91). Cioè: "e ti può essere utile".

Altri chi v’era? = anastrofe (v. 118). Cioè: "chi altri c'era?".

E come ’l pan per fame si manduca, così ’l sovran li denti a l’altro pose là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca = similitudine (vv. 127-129). Cioè: "e come si mangia il pane per fame, così quello che stava sopra addentava l'altro nel punto in cui il cervello si congiunge con il midollo spinale".

Non altrimenti Tideo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l’altre cose = similitudine (vv. 129-132). Cioè: "Tideo non morse in modo diverso le tempie a Menalippo per odio, rispetto a quanto faceva quel dannato con il cranio e tutto il resto".

Se quella con ch’io parlo non si secca = metafora (v. 139). Cioè: "purché la lingua con cui parlo non mi caschi".
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Le parole più lunghe nella lingua italiana

Parole

La lunghezza media delle parole italiane è di 5/7 caratteri, ma ci sono delle eccezioni, parole più lunghe di altre, anzi, lunghissime. Le parole italiane che superano le 20 lettere sono circa un centinaio e arrivano a toccare i 34 caratteri complessivi. Si tratta principalmente di parole che vengono usate in ambito medico-scientifico, oppure avverbi che nascono dal superlativo assoluto o componenti chimiche. Per ovvie ragioni non appartengono a questa lista i numeri scritti in lettere.





Parole italiane più lunghe: quali sono

In questa pagina trovate alcune delle parole più lunghe nella lingua italiana (incluso anche il loro significato) e vi avvertiamo sin da subito che non è affatto semplice leggerle ad alta voce. Sono talmente articolate che per livello di difficoltà nella lettura ricordano vagamente gli scioglilingua.



34 Lettere

Hippopotomonstrosesquipedaliofobia= è la cosiddetta paura delle parole lunghe e a maggior ragione è ironico che proprio una parola così lunga venga usata per denominare questa particolare fobia. Si ha questa fobia quando si prova ostilità e nervosismo nei confronti di una persona che usa nelle sue conversazioni parole lunghe e poco frequenti; e allo stesso tempo preferisce usare vocaboli semplici perché vuole evitare di mettersi in ridicolo o apparire come un soggetto di scarsa cultura pronunciandola in modo scorretto. Questo termine, però, è poco utilizzato ed è stato praticamente rimpiazzato da un altro, sicuramente più breve, ma altrettanto difficile da pronunciare e ricordare: sequipedaliofobia.


33 Lettere

Nonilfenossipolietilenossietanolo = componente chimico.

Supercalifragilistichespiralitoso = la versione inglese è anche più lunga di quella italiana "Supercalifragilisticexpialidocious", ma non esiste nella lingua italiana né tanto meno in quella inglese. Essa appartiene alla canzone del film Mary Poppins (1964). Nel film il termine nonsense assume il ruolo di parola magica, quando essa viene pronunciata si verificano eventi magici. Ecco la composizione: Super (sopra) - cali (bellezza) - fragilistic (delicato) - expiali (fare ammenda) - docious (istruibile). Quindi il significato delle sue parti sarebbe "fare ammenda per la possibilità di insegnare attraverso la delicata bellezza".


32 Lettere

Pentagonododecaedricotetraedrico = in ambito geometrico.

Dimetilamidofenilmetilpirazolone = è un componente di un medicinale.


30 Lettere

Psiconeuroendocrinoimmunologia = che però è quasi sempre abbreviata nella sigla PNEI, è la scienza che indaga i rapporti fra la psiche, il sistema nervoso, il sistema endocrino ed il sistema immunitario.


29 Lettere

Ciclopentanoperidrofenantrene = è un composto chimico.

Esofagodermatodigiunoplastica = è la chirurgia dopo la rimozione dello stomaco, dell'esofago e del digiuno.



28 Lettere

Duodenocefalopancreasectomia = è un complesso intervento di chirurgia addominale. Consiste nell'asportazione della testa del pancreas che, per ragioni anatomiche, deve essere rimossa insieme al duodeno.

Anticostituzionalissimamente = in modo molto contrario alla costituzione; parola trovata da Anacleto Bendazzi nel 1951.

Galattosaminglucuronoglicano = è uno dei principali elementi costitutivi della cartilagine.

Ortoclorobenzalmalononitrile = comunemente chiamato gas CS è una sostanza usata come gas lacrimogeno e arma non letale, prevalentemente utilizzata dalle forze dell'ordine per il controllo dell'ordine pubblico.


27 Lettere

Sovramagnificentissimamente = in un modo che va oltre a una grande magnificenza; vocabolo coniato da Dante Alighieri (De vulgari eloquentia) e presentato come esempio di una parola che da sola forma un endecasillabo; è stata la più lunga parola italiana finché Anacleto Bendazzi non trovò anticostituzionalissimamente.

Incontrovertibilissimamente = in modo molto controverso.

Particolareggiatissimamente = in modo molto particolareggiato.

Metilenediossimetanfetamina = più comunemente nota come MDMA o Ecstasy, si è diffusa a partire dagli anni novanta e rappresenta uno dei più diffusi stupefacenti che viene assunto generalmente sotto forma di pastiglie, disciolta in liquidi o meno comunemente fumata.

Elettroencefalograficamente = mediante esame elettroencefalografico.


26 Lettere

Precipitevolissimevolmente = è un avverbio il cui significato è "in modo assai rapido, precipitevole" e fu coniato nel 1677 da Francesco Moneti per esigenze poetiche. Il suo scopo era quello di ottenere una parola che fosse di per sé un endecasillabo, stravolgendo le norme grammaticali della lingua italiana, infatti il superlativo corretto dell'avverbio "precipitevolmente" sarebbe "precipitevolissimamente".

Intradermopalpebroreazione = usata in ambito medico. S'intende l'introduzione nel derma di minime quantità di tossine o di antigene utilizzata per verificare la sensibilità dell'organismo verso alcune malattie.


24 Lettere

Aerotermoviscoelasticità = si intende l'elasticità di un corpo in un ambiente che è contemporaneamente aereo (quindi in aria), viscoso (quindi a contatto con il vento che provoca attrito) e termico, cioè con una temperatura prestabilita.


19 Lettere

Schecchereccherebbe = parola onomatopeica che richiama lo strepitio degli uccelli. È la parola monovocalica più lunga della lingua italiana, poiché è costituita esclusivamente dalla vocale "e" ripetuta ben sei volte.
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Inferno Canto 31: analisi, commento, figure retoriche

I Giganti, Gustave Doré

In questo canto Dante e Virgilio si trovano nel pozzo dei giganti, puniti per essersi opposti a Dio: essi sono Nembrod, Fialte e Briareo, ma quest'ultimo e troppo distante per risultare visibile ai due.



Analisi del canto

La paura di Dante
In questo canto Dante alterna lo stato di paura, generato dall'avvistamento dei giganti, con quello di consolazione, come quanto Virgilio descrive il gigante Nembrot come uno sciocco. Oppure come quando è spaventato per il terremoto causato dalle convulsioni di Fialte, ma ritorna sereno non appena vede che è legato a delle catene; o come quando per spostarsi viene afferrato dal gigante Anteo, inizialmente è terrorizzato ma poi si rende conto che è un personaggio innocuo e che non correrà alcun rischio.


I giganti
Dei giganti vengono messi in risalto inevitabilmente le loro enormi dimensioni che trasmettono paura a chiunque li veda, che però vanno in contrasto col fatto che tutta questa loro forza è inutile nel luogo in cui si trovano rendendoli di fatto impotenti.
Per il loro peccato d'orgoglio, per l'aspetto pauroso e gigantesco, per l'immobilità e per il ruolo di custodi della zona pia bassa dell'Inferno anticipano l'incontro col sommo ribelle confitto al centro terra, Lucifero. In evidenza è la figura di Anteo: a lui è concessa una maggior libertà di movimento (per non aver partecipato alla rivolta dei giganti contro il Dio Giove), a lui si rivolge con cortesia Virgilio, lui svolge la funzione di trasportare i poeti sul fondo del pozzo infernale.



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del trentunesimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 31 dell'Inferno.


Mi morse = metonimia (v. 1). Il concreto per l'astratto, "mi morse" invece di "mi rimproverò".

Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, e poi la medicina mi riporse; così od’io che solea far la lancia d’Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia = similitudine (vv. 1-6). Cioè: "La stessa voce prima mi rimproverò, facendomi arrossire di vergogna, poi mi consolò; così mi sembra che fosse solita fare la lancia di Achille e suo padre Peleo, che era causa prima di un dannoso e poi di un benefico assalto".

Noi demmo il dosso = sineddoche (v. 7). Il tutto per la parte, il dosso (schiena) anziché le spalle. Cioè: "noi voltammo le spalle".

Ma io senti’ sonare un alto corno, tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco = iperbole (vv. 12-13). Cioè: "ma io sentii risuonare un corno, così forte che avrebbe fatto parere debole qualsiasi tuono".

Umbilico = sineddoche (v. 33). La parte per il tutto, l'ombelico anziché la pancia.

Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa, così forando l’aura grossa e scura, più e più appressando ver’ la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura = simiitudine (vv. 34-39). Cioè: "Come quando la nebbia si disperde e lo sguardo poco a poco distingue chiaramente ciò che il vapore nasconde nell'aria, così, trapassando con lo sguardo l'aria spessa e oscura, mentre ci avvicinavamo all'orlo del pozzo, svaniva in me l'errore e cresceva il timore".

Però che come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che ’l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti = similitudine (vv. 40-44). Cioè: "come il castello di Monteriggioni è cinto di torri disposte lungo il muro circolare, così i mostruosi giganti svettavano come torri sull'argine che circonda il pozzo, emergendo con metà del corpo".

Lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma = similitudine (vv. 58-59). Cioè: "lunga e grossa come la pigna di bronzo a S. Pietro, a Roma".

Sì che la ripa, ch’era perizoma = metafora (v. 61). Cioè: "così che la rocca, che faceva da perizoma".

Fiera bocca... dolci salmi = antitesi (vv. 68-69). Cioè: "bocca feroce... parole dolci".

Più lungo viaggio = anastrofe (v. 82). Cioè: "un percorso più lungo".

Più là è molto = anastrofe (v. 103). Cioè: "è molto più in là".

Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fialte a scuotersi fu presto = similitudine (vv. 106-108). Cioè: "Non ci fu mai un terremoto tanto violento che scuotesse una torre con tanta forza come Fialte fu rapido a scuotersi".

Co’ suoi diede le spalle = metonimia (v. 117). L'effetto per la causa, cioè: "insieme al suo esercito diede le spalle" anziché "fuggì".

Qual pare a riguardar la Carisenda sotto ’l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sì, ched ella incontro penda; 138 tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch’i’ avrei voluto ir per altra strada = similitudine (vv. 136-141). Cioè: "come la torre della Garisenda appare a chi la guarda da sotto, quando una nuvola le passa sopra, così che sembra pendere in avanti; così Anteo apparve a me, che stavo attentamente osservando nel vederlo chinarsi, e fu così spaventoso che avrei preferito procedere per un'altra strada".

E come albero in nave si levò = similitudine (v. 145). Cioè: "e si raddrizzò come l'albero di una nave".
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Differenza tra Rivoluzione, Rivolta, Insurrezione, Ribellione


Per rendere più facile la comprensione dei seguenti termini, oltre la definizione di ciascuno di essi, sono stati messi in evidenza (tramite sottolineatura) le parti principali che li caratterizzano e differenziano.

Rivoluzione = movimento organizzato e violento col quale si instaura un nuovo ordine sociale o politico: fare la rivoluzione; reprimere, soffocare la rivoluzione; gli ideali della rivoluzione; la rivoluzione francese; la rivoluzione d'ottobre, in Russia.
In senso più ampio, il termine rivoluzione, può essere usato per profondi cambiamenti, anche graduali, in cui NON si fa riferimento a scontri armati (rivoluzione tecnologia, rivoluzione agraria, rivoluzione scientifica), oppure in senso figurato per espressioni riconducibili a sconvolgimento di abitudini o funzioni fisiologiche (fare rivoluzione in casa, avere l'intestino in rivoluzione), oppure ancora per clamorose e rumorose manifestazioni di protesta (se non mi lasciano parlare, faccio una rivoluzione).


Ribellione = è la reazione che segue lo stato di esasperazione o costrizione, che potrebbe anche tramutarsi in rivolta armata (la ribellione di un popolo, di una città, di un esercito, contro le forze dell'ordine ecc.). Il termine può anche essere usato nei casi di un deciso rifiuto di obbedienza (verso i genitori, alla disciplina ecc.) o in senso figurato come atteggiamento di protesta.


Rivolta = è un moto collettivo, istintivo e violento di ribellione contro l'ordine costituito che può essere sul piano politico e sociale (incitare alla rivolta militare o popolare; rivolta dei detenuti ecc.).


Insurrezione = è un sinonimo di rivolta, pertanto anche sul dizionario viene riportata la medesima definizione (Moto collettivo, violento e deciso, di ribellione).
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Qual è il plurale di Capodanno?


Capodanno è il primo giorno dell'anno e si celebra il 1° gennaio di ogni anno. Questa è una cosa talmente ovvia che la sanno pure i bambini, ma non tutte le cose che riguardano il capodanno sono così ovvie. Ad esempio, siete in grado di rispondere alla domanda "qual è il plurale di capodanno?" dando una risposta certa al 100% e in meno di tre secondi?

In analisi grammaticale "Capodanno" è un sostantivo singolare composto, formato dalle parole "capo" e "danno".
Si può anche scrivere nella forma separata: capo d'anno, ma è meno comune.



La regola grammaticale

Per quanto riguarda il plurale dei nomi composti la grammatica italiana segue delle regole precise per formare il plurale. E non è nemmeno sufficiente conoscerle tutte perché alcune parole composte presentano delle eccezioni.

Qui di seguito vi proponiamo tutti i casi possibili per le parole composte che iniziano con "capo", incluso quello riguardante la parola "capodanno".


1) Quando in una parola composta, il termine "capo" ha significato di essere a capo di qualcosa, il plurale si applica alla prima parola, mentre la seconda rimane invariata.

ESEMPIO:
  • Caporeparto » capireparto 
  • Capogruppo » capigruppo


2) Quando il termine composto è di genere femminile (cioè riferito a una donna a capo di qualcosa) il plurale rimane uguale alla forma singolare, ed è detto invariabile.

ESEMPIO:
  • la capofamiglia
  • le capofamiglia


3) Quest'ultimo è, invece, il caso di "Capodanno". Quando la parola "capo" si riferisce ad una posizione o all'inizio di qualcosa, il plurale si ha nella seconda parola del termine composto.

ESEMPIO:
  • Capodanno » capodanni (primo giorno)
  • Capoluogo » capoluoghi (luogo principale)
  • Capolavoro » capolavori (lavoro principale)
  • Capocuoco » capocuochi (primo cuoco)


4) Il plurale della forma separata (capo d'anno) è, invece, capi d'anno.
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Inferno Canto 30: analisi, commento, figure retoriche

Gianni Schicchi, illustrazione di Gustave Doré

In questo canto sono puniti i falsari, che sono divisi in falsari di persona (Gianni Schicchi e Mirra), falsari di monete (Mastro Adamo), falsari di parola (Sinone e la moglie Putifarre). Sinone e Mastro Adamo danno vita a una rissa e Dante che rimane intento a guardarli viene rimproverato da Virgilio.



Analisi del canto

Nel canto rileviamo alcuni menti centrali della scrittura dantesca:
  1. la mitologia: il canto si apre con due episodi dalle Metamorfosi di Ovidio, come esempio di furore pazzo; si tratta dei casi del re tebano Atamante e della regina troiana Ecuba;
  2. la terminologia medica: nella descrizione dei mali che affliggono i dannati, e sopratutto nel caso dell'idropisia di mastro Adamo, Dante ricorre alle sue conoscenze anatomiche e al linguaggio tecnico della scienza medica;
  3. il ritmo narrativo: il virtuosismo dantesco si esprime anche nel ritmo comico-realistico del «contrasto» fra mastro Adamo e Sinone; il litigio fra i due è costruito sui modelli dell'antica commedia, sullo schema della ritorsione e della replica;
  4. le similitudini: troviamo nel canto esempi eccellenti di questa figura espressiva; oltre all'idropico assimilato alla forma del liuto (vv.49-51), ricordiamo i falsari che per la febbre fumano come le mani bagnate a contatto con il freddo (vv.91-93), e la reazione di Dante ai vv. 136-141.



Commento

Tutto il canto è giocato sul tema della perdita di sé che si realizza nella falsificazione. Dante riflette sul valore dell'identità individuale e trova che il mito classico ha espresso l'argomento in misura tragicamente sublime. La perdita di sé, per gli antichi, era un evento così potente da essere attribuito al volere degli dei. Così si spiegano le atrocità di Agave e Atamante, la tragedia immane di Troia che travolse Priamo, i suoi figli e la moglie Ecuba: il grido d'angoscia di una madre di fronte allo scempio dei suoi cari diviene il latrato di una cagna. Alla mente del poeta si affacciano Ovidio e le Metamorfosi, la saga tebana e troiana, ma anche quell'acuto senso della sofferenza umana che solo il mito sa rendere, associando verità ed emblematicità, l'analisi di sentimenti e di istinti e la naturalezza del loro manifestarsi. La perdita di sé causa la perdita dei tratti che caratterizzano l'umanità: così Atamante stravolge la sua paternità di sangue, Ecuba abbandona la sua voce di donna e i dannati diventano simili al porco lanciato nella caccia. Con un salto di secoli, dal tempo del mito a quello della storia, Dante ritrova la perdita di sé in Gianni Schicchi, che contraffece alla perfezione Buoso Donati, e gli pone accanto Mirra, anch'ella personaggio tratto dal mondo delle antiche storie. La donna contraffece la sua persona e sedusse il padre: orribile colpa l'incesto, ma l'orrore più grande fu proprio lo sdoppiarsi di Mirra, il suo porsi sotto una falsa identità. A questo punto irrompe sulla scena, drammatico e corposo, con tutta la sua plebea fisicità, maestro Adamo, il falsario che falsificò il fiorino. L'attualità, la vita borghese e degli affari del comune irrompono nel canto, spezzando il ritmo classico delle storie antiche. Maestro Adamo, ripugnante nel suo aspetto, parla con astio dei conti Guidi che lo indussero alla colpa, e il suo linguaggio ha la cadenza concreta della quotidianità. Ancor più vivace tuttavia appare la scena seguente, dominata dallo scontro tra maestro Adamo e Sinone, il greco che ingannò i Troiani. Passato e presente si scontrano nella baruffa che inizia tra i due: una vera lotta libera fisica e verbale, che ha un precedente mitico: la lotta tra Ulisse e Iro nel canto XVIII dell'Odissea. Accanto a Sinone, nel silenzio eterno di una febbre che la divora, giace la moglie di Putifarre, la falsa accusatrice di Giuseppe. Ma, nel canto dell'identità e della sua negazione, non poteva mancare il personaggio emblema di una fallace acquisizione di sé: Narciso, il giovane che amò la sua immagine riflessa e mori annegato. Così l'acqua viene definita da maestro Adamo: specchio di Narcisso. Dante guarda la rissa tra i due dannati e si diverte, lasciandosi prendere dall'atmosfera paesana di questo alterco plebeo, ma Virgilio lo rimprovera: il viaggio nell'Inferno ha lo scopo di conseguire la salvezza eterna, non quello di stuzzicare basse curiosità. Scompare la «scena da penitenziario» (cit. Momigliano): l'aspro rimprovero risveglia Dante da una perdita di sé che, in qualche modo, si era realizzata anche nella sua coscienza.



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del trentesimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 30 dell'Inferno.


Contra ’l sangue tebano = sineddoche (v. 2). La parte per il tutto. Il sangue per indicare la stirpe, la popolazione.

E quando la fortuna volse in basso l’altezza de’ Troian che tutto ardiva, sì che ’nsieme col regno il re fu casso = similitudine (vv. 13-15). Cioè: "E nel tempo in cui il destino abbatté la superbia dei Troiani che ambiva a qualunque cosa, così che il regno fu distrutto e il re ucciso".

Misera e cattiva = endiadi (v. 16). Cioè: "miseria e prigioniera".

Latrò sì come cane = similitudine (v. 20). Cioè: "si mise a latrare come un cane".

Le fé la mente torta = anastrofe (v. 21). Cioè: "le sconvolse la mente".

Di Tebe furie = anastrofe (v. 22). Cioè: "furie tebane".

In alcun tanto crude = anastrofe (v. 23). Cioè: "crudeli contro qualcuno".

Ma né di Tebe furie né troiane si vider mai in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane, quant’io vidi in due ombre smorte e nude = similitudine (vv. 22-25). Cioè: "Ma non si videro neppure le furie dei Tebani, né quelle dei Troiani tanto crudeli contro qualcuno, colpire bestie o essere umani, quanto io vidi fare in due anime pallide e nude".

Che mordendo correvan di quel modo che ’l porco quando del porcil si schiude = similitudine (vv. 26-27). Cioè "che correvano mordendo come il maiale affamato quando esce dal porcile".

Altrui così conciando = anastrofe (v. 33). Cioè: "va conciando così gli altri".

Di Mirra scellerata = anastrofe (v. 38). Cioè: "della scellerata Mirra".

Che divenne al padre fuor del dritto amore amica = iperbato (vv. 38-39). Cioè: "che divenne amante (amica) del padre, fuori da ogni legittimo (dritto) amore".

Io avea l’occhio tenuto = sineddoche (v. 47). Il singolare per il plurale, l'occhio invece degli occhi.

Facea lui tener le labbra aperte come l’etico fa, che per la sete l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte = similitudine (vv. 55-57). Cioè: "lo costringeva a tenere le labbra aperte come fa il tisico, che per la sete ne rivolge una verso il mento e l’altra verso l'alto".

Miseria...assai = antitesi (vv. 61-62). Cioè: "miseria e abbondanza".

Un gocciol d’acqua bramo = anastrofe (v. 63). Cioè: "desidero una goccia d'acqua".

Freddi e molli = endiadi (v. 66). Cioè: "freschi e umidi".

Se l’arrabbiate ombre = anastrofe (v. 79-80). Cioè: "se le anime arrabbiate".

Che fumman come man bagnate ’l verno = similitudine (v. 92). Cioè: "che fumano come le mani bagnate d'inverno".

Sonò come fosse un tamburo = similitudine (v. 103). Cioè: "risuonò come se fosse stato un tamburo".

Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, 138 tal mi fec’io, non possendo parlare, che disiava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare = similitudine (vv. 136-141). Cioè: "Come colui che sogna di subire un danno, e mentre sogna desidera sognare, così che spera che quel che accade non lo fosse, così feci io, non osando parlare, poiché volevo chiedere scusa e, tuttavia mi scusavo, anche se non mi pareva di farlo".

Maggior difetto men vergogna lava = epifonema (v. 142). Cioè: "Una vergogna minore lava una colpa meno grave ".
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Sottosopra o Sotto sopra: come si scrive?


Si scrive "Sottosopra" nella forma unità, anche se sarebbe più corretto dire nella forma univerbata.

Sottosopra può essere usato come avverbio o come aggettivo; è formato dai due avverbi "sotto" e "sopra".

Il termine sottosopra significa alla rovescia, in completo disordine. Può essere usato anche in senso figurato per sottintendere uno stato di agitazione e di sconvolgimento.
Altri sinonimi di sottosopra sono: in modo capovolto, a pancia in su, coi piedi all'aria, in scompiglio, in subbuglio, nel caos, a soqquadro.


ESEMPIO:
- La tua camera da letto è sottosopra. Oggi devi darti da fare per ordinarla.
- La città è sottosopra da quando il popolo è sceso in piazza in segno di protesta.
- Non mi sono svegliata al meglio. Ho lo stomaco sottosopra.


E tanto per restare in tema vi proponiamo un piccolo trucchetto per scrivere al contrario.
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Tutti i nomi dei versi degli animali

Animali

Gli animali emettono versi e questo è solo uno dei tanti modi che utilizzano per comunicare tra loro (gesti, comportamenti, colori, movimenti, posizioni sono gli altri). Sappiamo che il cane abbaia, il gatto miagola e l'uccello cinguetta ... e poi? Probabilmente l'ultima volta che eravamo in grado di ricordare più di 10 versi di animali era quando ancora frequentavamo le scuole elementari, ma a distanza di anni può capitare di averli dimenticati oppure continuare a saperli senza avere la certezza assoluta di un tempo.
Sicuri di conoscerli tutti? Qual è l'animale che ziga? E il coccodrillo come fa?



Versi degli animali

In questa tabella trovate nella colonna a sinistra l'elenco di tutti gli animali più conosciuti e ricercati, disposti per ordine alfabetico e, nella colonna di destra, il corrispondente nome del loro verso.

Animale Verso
Agnello bela
Alcebramisce
Allocco bubola
Allodola trilla
Alzavola cigola
Anatra starnazza
Ape ronza
Aquila grida
Asino raglia
Assiolo ciurla
Balena canta
Beccaccino canta, fischia
Bue muggisce
Bufalo muggisce, sbuffa
Cammello bramisce
Canarino canta, cinguetta, gorgheggia
Cane abbaia, guaisce, latra, uggiola, ulula, mugola
Capinera canta, cinguetta, gorgheggia
Capra bela
Cardellino trilla
Cavalletta frinisce
Cavallo nitrisce, soffia, sbuffa
Cervo bramisce
Chioccia chiocca, croccia
Chiurlo chiurla
Cicala frinisce, canta
Cigno sibila, soffia
Cinghiale grugnisce o grufola
Civetta squittisce, stride
Coccodrillo trimbula
Colomba tuba
Coniglio ziga
Cornacchia gracchia, stride
Corvo gracchia, crocida
Coyote latra
Elefante barrisce
Falco stride
Foca latra
Fringuello chioccola
Gallina chioccia
Gallo canta
Gatto miagola
Gazza gracchia, stride
Giaguaro brontola
Grillo frinisce
Gufo gufa, soffia
Iena ride, ulula
Insetti zillano
Leone ruggisce
Lupo ulula
Maiale grugnisce o grufola
Merlo canta, chioccola, fischia, zirla
Mosca ronza
Mucca muggisce o mugghia
Mulo raglia
Oca starnazza
Orso bramisce
Pappagallo garrisce
Passero canta, cinguetta, gorgheggia
Pavone paupula
Pecora bela
Pettirosso chioccola
Piccione tuba o gruga
Pipistrello stridisce
Pulcino pigola
Quaglia stride
Rana gracida
Rondine garrisce
Sciacallo ulula
Scimmia urla, grida, farfuglia
Serpente fischia, sibila, soffia
Tacchino gloglotta
Tigre ruggisce
Topo squittisce, zirla
Tordo tuba e gruga
Tortora gruga, tuba
Usignolo trilla, canta, gorgheggia
Volpe guaiola, gannisce, abbaia, guaisce
Zanzara ronza
Zebra nitrisce
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Inferno Canto 29: analisi, commento, figure retoriche

I falsari, Gustave Doré

In questo canto sono puniti i seminatori di discordie (cioè coloro che hanno creato ad arte lacerazioni in campo politico, religioso, sociale). Qui incontrano Geri del Bello; poi attraversando la X Bolgia incontrano i falsari, tra questi gli alchimisti Griffolino d'Arezzo e Capocchio.



Analisi del canto

Il tema autobiografico
Almeno due riferimenti autobiografici caratterizzano il canto, e determinano il coinvolgimento psicologico di Dante. Innanzitutto l'episodio di Geri del Bello, che denuncia questioni familiari di omicidi e vendette. Poi, la frequentazione con Capocchio che collega il poeta agli ambienti delle scienze magiche.


Un realismo da commedia
Lo scenario della decima bolgia ripropone i toni realistici già tipici delle Malebolge, ma dopo le prime crude immagini delle membra piagate si smorza in un clima di commedia, con le arguzie dei protagonisti nell'episodio di Griffolino la burla vince sul dramma e con Capocchio prevale l'ironia.


La condanna dell'alchimia
L'alchimia nel Medioevo era considerata una scienza. Qui Dante condanna i falsari di metalli, i falsi alchimisti, cioè coloro che approfittarono delle proprie conoscenze per arricchirsi, ingannando il prossimo. E per descrivere la condanna dell'alchimia Dante fa ricorso al senso della vista (ammucchiati sul fondo della bolgia), dell'olfatto (il fetore) e dell'udito (i loro lamenti).




Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del ventinovesimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 29 dell'Inferno.


Miglia ventidue = anastrofe (v. 9). Cioè: "ventidue miglia".

E già la luna = anastrofe (v. 10). Cioè: "E la luna è ormai".

La luna è sotto i nostri piedi = metafora (v. 10). Cioè: "agli antipodi, quindi dev'essere circa un'ora dopo lo zenit perché la luna ritarda ogni giorno di circa 50 minuti sul sole, quindi sono le una del pomeriggio".

Retro li andava = anastrofe (v. 16). Cioè: "gli andavo dietro".

Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca = iperbato (vv. 16-17). Cioè: "Intanto la mia guida (lo duca) se ne andava e io lo seguivo".

Mostrarti, e minacciar forte, col dito = iperbato (v. 26). Cioè: "indicarti col dito e minacciarti con violenza".

Che non li è vendicata ancor = anastrofe (v. 32). Cioè: "che non è ancora stata vendicata".

Chiostra / di Malebolge = enjambement (v. 40-41).

Lamenti saettaron me diversi = iperbato (v. 43). Cioè: "strani lamenti mi colpirono".

Qual dolor fora, se de li spedali, di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali fossero in una fossa tutti ’nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre = similitudine (vv. 46-51). Cioè: "Se dagli ospedali della Valdichiana, di Maremma e di Sardegna tra luglio e settembre si riunissero tutti i malati in un sol luogo ristretto, si vedrebbe una sofferenza simile a quella che c'era nella Bolgia e il puzzo che ne usciva era simile a quello delle membra in putrefazione".

De l’alto Sire infallibil giustizia = anastrofe (v. 56). Cioè: "infallibile ministra del sommo Re".

Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo = similitudine (vv. 58-59). Cioè: "non credo che la visione di tutto il popolo ammalato fosse più triste di quella dell'oscura fossa".

E non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso = similitudine (vv. 76-81). Cioè: "e non vidi mai un garzone atteso dal suo padrone, o uno stalliere che veglia controvoglia, usare la striglia come ognuno di loro usava le unghie su di sé per la smania del pizzicore".

E sì traevan giù l’unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie = similitudine (vv. 82-83). Cioè: "e si toglievano la scabbia penetrando in profondità con le unghie come un coltello toglie le squame della scardova".

Che più larghe l’abbia = anastrofe (v. 84). Cioè: "che le abbia ancor più larghe".

E che fai d’esse talvolta tanaglie = metafora (v. 87). Riferito alle unghie usate per tagliare come fossero tenaglie.

Umane menti = anastrofe (v. 104). Cioè: "menti umane".

Sconcia e fastidiosa = endiadi (v. 107).

Senno poco = anastrofe (v. 114). Cioè: "poco senno".

A cui fallar non lece = anastrofe (v. 120). Cioè: "a cui non è lecito sbagliare".

Al detto mio = anastrofe (v. 125). Cioè: "alle mie parole".

Temperate spese = anastrofe (v. 126). Cioè: "spese moderate".

Aguzza ver me l’occhio = sineddoche (v. 134). Singolare per il plurale. Cioè: "aguzza verso di me gli occhi".
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Quest'ultimo, Quest'ultima, Quest'ultimi, Quest'ultime: come si scrive?


In analisi grammaticale "QUESTO" può essere un aggettivo o un pronome dimostrativo ma, nel caso in questione (questo + ultimo), si tratta di aggettivo dimostrativo perché indica la posizione nello spazio di una cosa.

Diciamo sin da subito che scrivere "QUEST" sprovvisto della vocale finale e dell'apostrofo è sempre sbagliato. Non esiste infatti la parola "quest" nella lingua italiana. Esiste, invece, nella lingua inglese dove però viene usata per ben altri scopi.

Dal momento che si tratta di elisione, cioè stiamo parlando della caduta di una vocale finale non accentata davanti a una parola che inizia per vocale, la forma corretta è "quest'ultimo".
Stesso discorso vale per "quest'ultima" che si può scrivere solo in questo modo.
L'obbligo dell'elisione vale solo per "ultimo" e "ultima" perché sono al singolare.

Al plurale però l'elisione non viene quasi mai usata. Scrivere "quest'ultimi" o "quest'ultime" non è sbagliato, ma al giorno d'oggi nella lingua italiana non si usa più e suona anche male; si preferisce la forma piena: questi ultimi, queste ultime.



Esempio di utilizzo

- Quest'ultimo ostacolo è assai più insidioso dei precedenti.

- Quest'ultimo aspetto, che potrebbe sembrarvi di scarsa importanza, costituisce in realtà il vero ostacolo da superare.

- Fatta eccezione per quest'ultima assenza, non mi era mai capitato di saltare più di due giorni di scuola consecutivi.

- Questi ultimi giorni li ho passati insieme ai miei amici.

- Queste ultime vacanze sono andate proprio come me le aspettavo.
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Inferno Canto 28: analisi, commento, figure retoriche


In questo canto sono puniti i seminatori di discordie (cioè coloro che in vita hanno seminato scandalo e scisma). Inoltre Dante incontra Maometto, Pier da Medicina, Mosca dei lamberti e Betram del Bornio.



Analisi del canto

La poesia delle armi
È il canto della guerra e delle armi, uno dei temi più importanti dell'alta poesia. Bertran de Born, militare e poeta francese, ispira Dante a proporsi come il Bertran italiano dato che l'Italia fino a quel momento non aveva nessun illustre rappresentante, e ovviamente si considera superiore in quanto a coscienza etica perché tratta anche l'aspetto negativo delle armi. Nomina guerre di grandi importanza (le guerre dell'antica Grecia, dell'antica Roma) a guerre poco note paragonate alle precedenti che però sono molto importanti per Dante.


La crudezza della rappresentazione
Caratterizzano il canto le immagini raccapriccianti dei mutilati: dai nasi mozzati ai ventri sbudellati, al busto tronco che tiene il capo per le chiome. Tale crudo realismo è lo specchio di un'angoscia profonda per i violenti costumi contemporanei, più che una morbosa descrizione.


Il contrappasso
Di esemplare chiarezza è qui l'applicazione del contrappasso per i seminatori di discordia. Maometto provocò una frattura profonda nella società del tempo, e quindi è squarciato dal mento alle natiche. Bertran de Born divise persone unite da vincoli di sangue, e ora porta la testa divisa dal corpo: è lui stesso che invita Dante a osservare la simmetria tra colpa e punizione (vv. 136-142).


La cronaca e le profezie
La comprensione del canto è condizionata alla conoscenza dei riferimenti ai fatti di cronaca che lo caratterizzano. A questi si rifanno anche la profezia di Maometto nei confronti di Fra' Dolcino, e quella di Pier da Medicina rispetto all'omicidio dei due patrioti di Fano.



Le figure retoriche

Qui di seguito trovate tutte le figure retoriche del ventottesimo canto dell'Inferno. Per una migliore comprensione del testo vi consigliamo di leggere la parafrasi del Canto 28 dell'Inferno.


Chi poria mai = anastrofe (v. 1). Cioè: "chi mai potrebbe".

Chi poria mai pur con parole sciolte dicer = iperbato (vv. 1-2). Cioè: "chi mai potrebbe descrivere...".

Di Puglia = sineddoche (v. 9). La parte per il tutto, di Puglia invece di dire meridione o sud d'Italia.

Come Livio scrive = anastrofe (v. 12). Cioè: "come scrive Livio".

Dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo = anastrofe (v. 18). Cioè: "dove il vecchio Alardo vince senza ricorrere alle armi".

E qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d’aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo = iperbole (vv. 19-21). Cioè: "e se ognuno di questi morti mostrasse le sue membra ferite o mozzate, non sarebbe sufficiente a eguagliare la ripugnante condizione della nona Bolgia".

Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla = similitudine (vv. 22-24). Cioè: "Una botte, priva della doga mediana del fondo o laterale, non è bucata così come io vidi un peccatore tagliato dal mento fin dove si scorreggia".

Dal mento infin dove si trulla = metonimia (v. 24). L'effetto per la causa, "fino a dove si scorreggia" anziché dire "fino all'ano".

Seminator di scandalo e di scisma fuor vivi = anastrofe (vv. 35-36). Cioè: "in vita furono seminatori di scandali e scismi".

L’un piè per girsene sospese = anastrofe (v. 61). Cioè: "alzò un piede per andarsene".

Che forata avea la gola = anastrofe (v. 64). Cioè: "che aveva la gola forata".

E tronco ’l naso = anastrofe (v. 65). Cioè: "e il naso tagliato".

Gittati saran = anastrofe (v. 79). Cioè: "saranno gettati".

Quel traditor che vede pur con l’uno = perifrasi (v. 85). Per indicare Malatestino I Malatesta, soprannominato dell'Occhio o il Guercio per il fatto che aveva perso un occhio.

Veduta amara = sinestesia (v. 93). Sfera sensoriale della vista e del gusto.

Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curio = iperbato (vv. 100-102). Cioè: "Oh, quanto mi sembrava sbalordito Curione, con la lingua mozzata in gola".

Ricordera’ti = anastrofe (v. 106). Cioè: "ti ricorderai".

Trista e matta = endiadi (v. 111).

Greggia = sineddoche (v. 120). Il singolare per il plurale.

Quei sa che sì governa = perifrasi (v. 126). Cioè: "lo sa Colui (Dio) che lo rende possibile".
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