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Poetica di Italo Svevo

Svevo fu tra i primi scrittori del Novecento a concepire la letteratura in modo assai diverso da come la concepiva la tradizione (per esempio D'Annunzio, in quell'epoca l'autore italiano più letto e influente). Egli infatti ridimensiona nettamente il ruolo della letteratura e del poeta, allontanandosi notevolmente dalla figura di poeta-eroe dell'età classica, o da quella di poeta-genio dei romantici. Svevo, al contrario, attribuisce ai letterati molti i difetti: sono lenti (non possono dare un giudizio sintetico su questa vita che analizzarono con tanta lentezza - Diario, 1893), indecisi (Sto per giornate intere dinanzi alle mie cartelle e fumo, fumo, fumo - Terzetto spezzato, 1912), perfino immortali (Bastava perciò non scrivere ed egli diventava l'uomo virtuoso ch'era stato sempre - La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, 1926).
Il punto è che i poeti non possono più conoscere il mondo, non hanno più certezze o valori o ideali da comunicare. Se vogliono davvero rimanere fedeli alla vita ed essere sinceri, come Svevo auspica, non possono che ridursi a parlare dell'unica cosa che conoscono, pur se parzialmente: la propria vita interiore. La letteratura, scrive Svevo, è semplicemente un modo per conoscersi meglio:
Io voglio soltanto - leggiamo in un appunto di diario datato 1902 - attraverso a queste mie pagine arrivare a capirmi meglio. La penna m'aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere.
L'opera che ne nascerà avrà carattere introspettivo (come avviene nei primi due romanzi sveviani) o diventerà, addirittura, un'autobiografia, qual'è La coscienza di Zeno.
In tal modo, la letteratura perde la sua aura, non ha più nulla a che fare con il bello, con l'arte; diviene un fatto privato, che può sopravvivere solo se si rende utile a chi la pratica. Il vecchione del quarto romanzo (appena abbozzato) affermerà, con forte autoironia, che la letteratura ha per lui il semplice valore di un purgante.
Questa poetica della riduzione della letteratura giunge fino al rifiuto. In un altro famoso appunto di diario, sempre datato 1902, leggiamo: Io, a quest'ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Svevo però non mantenne fede al proposito: dopo i primi due romanzi, sarebbe giunto il capolavoro della Coscienza.

Il ricordo e la malattia: questi sono i suoi temi prediletti
In quest'ottica privata e individuale, il tema prediletto diviene quello del ricordo, la parte più intima dell'autore, la più adatta all'autoconoscenza, all'introspezione. Ricordare significa, per i personaggi di Svevo, muoversi nel tempo, anche se questa è un'operazione difficile: gli occhi presbiti separano Zeno dal passato. Io non so muovermi abbastanza sicuramente nel tempo. Il tempo fa le sue devastazioni con ordine sicuro e crudele (Il vecchione). Il tempo che ritorna nel ricordo è sempre soggettivo (Il presente dirige il passato come un direttore d'orchestra i suoi suonatori, La morte), ovvero, in altre parole, il tempo puro non esiste: nel ricordo rivive un tempo misto com'è il destino dell'uomo (Il vecchione).
Accanto al tema del ricordo, quello della malattia. Vita, letteratura e malattia s'intrecciano strettamente nell'opera sveviana. La letteratura non può che ritrarre la vita, ma quest'ultima la vita, ma quest'ultima è malata o inquinata fin dalle radici, affermerà Zeno; per vivere di meno e, quindi, per essere un po' meno malati. Se queste sono le premesse, comprendiamo il perché, nell'arco dei suoi tre romanzi, Svevo prospetti un itinerario complessivo di guarigione:
  • l'Alfonso Nitti di Una vita (1892) si suicida, perché riconosce una sproporzione troppo grande tra il sogno e la realtà, una sproporzione cui non sa adeguarsi;
  • l'Emilio Brentani di Senilità (1898) può sopravvivere, ma solo nel ricordo di Angiolina: un ricordo totalmente idealizzato e disincarnato, tale da non dolergli più;
  • infine Zeno Cosini, il protagonista della Coscienza di Zeno (1923), riesce a sconfiggere la passione per la vita mediante lo scetticismo: impara a convivere con i limiti propri e della realtà. Non è perfettamente guarito, ma riesce perlomeno a tenere la nevrosi e sopravvivere, in tal modo, meglio che può.
Lo stile e la scelta del realismo
Lo stretto contatto fra vita e letteratura porta Svevo a una scelta fondamentale per la sua produzione: quella del realismo come mezzo di fedeltà alla vita. Svevo rifiuta un'idea classicista di arte: il poeta, secondo lui, deve testimoniare questa realtà, non crearne un'altra; perciò sceglie uno stile vivo, parlato, un linguaggio fedele alla vita anche nei suoi momenti bassi e ordinari (in questo senso Montale definì quello di Svevo uno stile commerciale). Tutto ciò è molto vicino al Verismo di Verga e soprattutto al sincerismo propugnato dal giovane Pirandello. Svevo rifiuta invece D'Annunzio, perché gli appare il tipico letterato: Da buon letterato egli non diceva mai la verità (Incontro di vecchi amici).
I protagonisti dei tre romanzi principali di Svevo (tutti e tre, a loro modo, dei letterati) giungono però gradualmente alla parola semplice amata da Zeno.
  • Alfondo Nitti di Una vita fallisce come romanziere perché imita i classici, perché formula teorie di stile fiorito o meno, lingua pura o impura, e sogna di divenire il divino autore.
  • Anche Emilio Brentani di Senilità è un letterato di vecchio stampo. Apprezza l'arte dell'amico scultore Stefano Balli (controfigura del pittore triestino Umberto Veruda, amico di Svevo), perché mira alla riconquista della semplicità o ingenuità che i cosidetti classici ci avevano rubate. Il suo ideali di spontaneità, di ruvidezza da Zeno, nel suo diario così privato, così (apparentemente) improvvisato della Coscienza, un libro che nasce non come libro, ma come somma di ricordi e appunti stesi alla rinfusa. Zeno vorrebbe addirittura scrivere le proprie memorie in dialetto, perché con ogni parola toscana noi meritiamo!.



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