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Memorando esemplo: crudel, ma giusto!

Di Vittorio Alfieri
Dalla tragedia alfierana Bruto I, riprendiamo la scena finale dell’ultimo Atto che, nella sua intensa drammaticità, è una pagina di grande poesia, ispirata dall’eroico amor di patria e da sinceri affetti domestici. L’azione nella tragedia ha inizio quando Bruto, avendo in mano il pugnale strappato dal cadavere di Lucrezia, che giace nel Foro sotto gli occhi smarriti della folla, parla prima a Collatino e poi al pubblico, accendendo negli animi di tutti l’ira contro il tiranno e il desiderio di libertà. La sua nobile orazione entusiasma plebe e patrizi che insieme decretano la fine della monarchia e, proclamata la Repubblica, eleggono Bruto e Collatino a supremi consoli. La saggezza e il coraggio di questi due uomini sono messi ben presto a dura prova nel difendere le istituzioni repubblicane dalla minaccia di una congiura ordita a favore di Tarquinio, desideroso di tornare sul trono. Nella stessa congiura sono attirati anche i figli di Bruto, Tto e Tiberio; ma, scoperto il tradimento, tutti i re vengono arrestati e processati pubblicamente. Bruto, nel suo fermo amore di libertà, compie senza alcuna indecisione il proprio dovere e, soffocando in cuore l’affetto di padre, non esita a condannare, insieme con tutti gli altri traditori, i suoi stessi figli. Proprio dal sublime contrasto tra l’amore di libertà e l’amore di padre l’Alfieri trasse – come egli stesso dichiarò – graziosissimi effetti di drammacità.

Le prime battute della scena, pronunciate dal popolo e da Collatino, sono suggerite da un sentimento di pietà verso i figli di Bruto. Di proposito l’Alfieri attira l’attenzione sui due giovanetti al fine di porre in chiara luce il comportamento di Bruto e, per contrasto, il suo segreto travaglio. Con estrema severità l’inflessibile console afferma la colpevolezza dei congiurati e proclama la necessità di condannarli tutti a morte: sembra spento nel suo animo ogni calore di umanità anche verso i figli che tuttavia suscitano la compassione di un’intera folla. La rigida coscienza di magistrato gli vieta d’indulgere a sentimenti individuali e gli impone una coraggiosa affermazione di diritto morale, senza cedimenti. Sotto questa luce si impone la sua figura che man mano che si accascia nel dolore intimo, chiuso, tragico, crea intorno a sé una tensione spirituale che la trasforma, la ingigantisce, la rende eroica. Al chiudersi del sipario, infatti, mentre Bruto vive la sua tragedia, il popolo entusiasta, che ha capito la sua lezione sul valore della libertà, lo acclama <<dio di Roma>>.



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